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Come un verme nella mela

Non è facile, per Elfriede Jelinek, suggerire all'ondata di interesse e curiosità che l'ha investita dopo l'inaspettato conferimento del premio Nobel. Attaccata dalla grande stampa tedesca, l'autrice della Pianista (edizioni ES) vede in queste critiche solo una conferma dei meccanismi che ha cercato di rappresentare nelle sue opere. Anche se non si recherà di persona a ritirare il premio a Stoccolma, Elfriede Jelinek sarà comunque presente alla cerimonia con un discorso che sta registrando in video, e che tratta del rapporto tra arte e vita.


Elfriede Jelinek, che cos'è per lei la letteratura?

E' solo la prima domanda ed è già quasi impossibile rispondervi. Dio mio...Per me la letteratura probabilmente è il contrario della parola detta, del “dire” (reden). Letteratura è “parlare” (sprechen). Chi nella vita cammina accanto agli altri, senza mai raggiungerli, appunto perché non sa vivere, inizia a parlare. (per questa ragione il mio discorso per il Nobel si intitola In fuorigioco). Parlare è il contrario di dire, discorrere. Si realizza (almeno nel mio caso) in uno spazio completamente diverso da quello del linguaggio quotidiano. Ma questo parlare ricava, sempre nel mio caso, il suo materiale dal linguaggio quotidiano, come pure dai miti della vita quotidiana, ecc. Mi interessa la superficie delle cose, e da lì avanzo penetrando fino al nocciolo. Come un verme nella mela.

In una lettera aperta a Alfred Kollertsch (direttore della rivista letteraria “manuskripte”, il principale organo dell'avanguardia letteraria austriaca) e a Peter Handke, lei ha difeso nel 1969 la politicità della letteratura. Come vede oggi le cose? Ritiene che la letteratura possa ancora avere una sua incidenza politica o sociale?

Non credo più in questa misura nella incidenza politica della letteratura, come vi credevo allora, quando del resto molti di noi vi credevano (come si vede, Handke già allora non era tra loro!). Ma ciò in cui vorrei continuare a credere è la possibilità di cogliere e denudare i meccanismi sociali, nel mio caso attraverso l'ironia, il sarcasmo e i giochi di parole, fino ai calembour più banali.

Lei viene spesso rappresentata come un'autrice radicalmente femminista e nella sua opera il tema del rapporto tra i sessi ha indubbiamente un ruolo importante e spesso centrale. Penso ad esempio alle “Amanti” (edizioni ES). Esiste per lei una letteratura “al femminile”, una letteratura delle donne?

Sì, esiste. Certo non pretendo di poter distinguere sempre la letteratura di un uomo da quella di una donna, quando mi si sottopone un testo. Ma ritengo che la relazione tra un uomo e una donna, nelle attuali condizioni sociali, non possa che costituire, anche nel caso migliore, una relazione tra servo (servetta) a padrone. E la servetta, la donna, che non appartenga a una casta molto considerata ( e il cui valore è determinato dalla bellezza e dall'età, dunque da costanti biologiche), deve studiare molto attentamente il padrone per poterlo descrivere. Dunque si serve di una sorta di linguaggio oggettuale (per usare una categoria di Roland Barthes), mentre il padrone ha a disposizione l'intero metalinguaggio. Naturalmente in tutto questo ci sono innumerevoli varianti e gradini intermedi. Ma i romanzi polizieschi di Ruth Rendell, ad esempio, sono così riusciti anche perché come donna ha dovuto studiare i meccanismi sociali molto meglio di un uomo.

Spesso le si rimprovera di dedicare troppo spazio a tematiche strettamente austriache e di risultare per questo provinciale. Penso ad esempio al monologo in cui mette in scena il presidente della Carinzia Haider (“L'addio”, portato in Italia sulle scene da Warner Waas). Come risponde a queste critiche?

L'Austria è sempre stata una provocazione. Ha avuto una parte rilevante nel nazionalsocialismo. Hitler è stata “esportato” in Germania dall'Austria, dove ha completato la sua educazione antisemita ed è divenuto quel mostro politico che è stato, tutto ciò che ha fatto lo ha appreso in Austria nella sua giovinezza, da giovane. L'ipocrisia della menzogna storica dell'Austria come il primo (innocente, piccolo, povero, indifeso) paese invaso dai nazisti, la sua storia antisemita, la cacciata e l'annientamento dell'intelligenza ebraica, il disprezzo delle minoranze, in primo luogo di quelle slave, già durante la monarchia – tutto ciò è una coltura batterica in cui hanno avuto luogo esperimenti, prove per la fine del mondo, che poi ha avuto realmente luogo. Per questo l'Austria è stata sempre per i suoi intellettuali come per le sue artiste e artisti una spina nel fianco, se così si può dire. Una ragione per “parlare”. Uno degli scrittori più importanti del dopoguerra è stato Hans Lebert, senza di lui né Thomas Bernhard, né Jonke, né io o qualsiasi altro che abbia scritto romanzi – come si può dire – anti-Heimat, “contropatriottici” e “antipaesani”, sarebbero stati immaginabili.

C'è dunque nella sua opera una rilevanza di una tradizione letteraria specificamente austriaca?

Questa tradizione è per me la più importante e io non mi sono mai potuta e voluta slegare da essa. E come se si dovesse scavare da essa. E come se si dovesse scavare incessantemente nelle macerie, nella sporcizia, per riportare alla luce i morti che così volentieri vi sarebbero stati definitivamente sepolti. Credo che questo processo di demitologizzazione sia stato determinante per molte autrici e molti autori del dopoguerra austriaco, nel loro impeto creativo.

Nella sua opera lei si serve continuamente di citazioni e di una complessa quanto raffinata tecnica di montaggio. Ad esempio nella pièce teatrale “Nuvole. Casa” (edizioni SE), s'incontrano brani di Holderlin, Kleist, Heidegger e persino lettere di membri della RAF. O nel romanzo “Figli di morti” (non ancora pubblicato in italiano) ricorre l'inizio delle celebre poesia di Celan “Fuga della morte”. Perché tutto questo?

Nello scrivere mi interessa la seconda natura, non la natura prima. Mi interessa dunque in primo luogo come i meccanismi e i processi sociali si rispecchino nella mitologia dozzinale, nei fenomeni di superficie, per così dire. Io descrivo questi riflessi per restituire alle cose la loro storia, ovvero per costringere lo stesso linguaggio (con l'ausilio di una sorta di procedimento che lavora con il suono, con la dimensione acustica delle parole), anche contro la sua volontà, a restituire la verità che sta dietro le cose. Per questo uso i brandelli del linguaggio degli altri, degli estranei, come segnali, come indicazioni stradali, per rendere ancor più visibile tale processo. Le citazioni che utilizzo mi trasportano, per così dire, sempre più in là, mi trascinano avanti.

Come si deve avvicinare ai suoi testi un lettore italiano?

Questo è molto difficile, perché appunto per il procedimento linguistico che adopero i miei testi sono quasi impossibili da rendere in un'altra lingua, in modo tale che, per usare un'espressione musicale, si possano cogliere tutte le loro sfumature. Non si deve comunque rimanere attaccati alla superficie, alla trama. E' la lingua stessa che parla, ma questo lo fa purtroppo solo nella mia lingua madre. Per delle autentiche traduzioni avrei bisogno in realtà di scrittrici o scrittori.

Che cosa è cambiato per lei con il premio Nobel?

Spero che non sia cambiato nulla. Non ho più preoccupazioni finanziarie (anche prima però quasi non ne avevo), è almeno non devo più preoccuparmi del mio futuro. Ci si può sempre ammalare e non essere più in grado di scrivere. A questo ora si è provveduto. Ho sempre una grande paura di ammalarmi, perché entrambi i miei genitori sono impazziti, ognuno a suo modo, e mia madre è morta in età molto avanzata. E' pur sempre possibile che io prima di morire per molti anni non sia più in grado di scrivere. Per il resto spero davvero di poter continuare la mia vita estremamente riservata, naturalmente tra un certo tempo, questo mi è chiaro.

Intervista di Luigi Reitani – L'UNITA' – 16/11/2004




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