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Dentro l'alfabeto segreto di Agota Kristof |
Si fatica a immaginarla, Agota Kristof, su un palcoscenico. [...] Perché l'autrice della Trilogia della città di K. È il contrario dell'apparire. Nata in Ungheria nel 1935, espatriata in Svizzera, a Neuchatel, dove vive tuttora, nel '56 dopo l'invasione sovietica, arrivata d'improvviso trent'anni dopo ai piani più alti della letteratura col primo romanzo, Le Grand Cahier, pubblicato da Seuil nel 1986 (è uno dei tre romanzi brevi confluiti nella Trilogia), Agota Kristof ha assimilato il francese d'adozione lentamente, ma fino a farne, sulla pagina, una lingua propria dal timbro inconfondibile: massimamente laconica e, insieme, sovranamente enigmatica. Una lingua, insomma, che non mette in scena delle storie: le scava. Storie, le sue, dove la guerra e la costrizione esistenziale del regime rimbombano come un rullo di tamburo sullo sfondo, mentre la lingua procede con la natura di una marionetta omicida, scrisse Giorgio Manganelli. Fisicamente, poi, è una donna esile, spesso nerovestita, anche ieri mattina sul roof soleggiato e punteggiato di oleandri rosso vivo dell'albergo, con degli occhiali dalla montatura monacale, la borsa di pelle marrone d'altri tempi da cui estrae, per soffiarsi il naso, il più elementare dei fazzoletti bianchi. E parla piano, così bisogna starle vicino per capire. E parla senza virtuosismi, con semplicità totale.
Lei sembra una persona timida.
No, sono riservata.
L'industria da un paio di decenni chiede a voi scrittori di trasformarvi in vedette e pubblicizzarvi come fanno attori e rockstar. Le è facile?
Mi è consueto, perché già subito l'uscita del mio primo libro ricevetti un'enormità di inviti, in Giappone, Germania, Canada. All'inizio lo trovavo molto interessante, ora no. E ho anche dei problemi a camminare. Ho accettato di venire a Roma perché è una città magnifica. Volevo tornarci: la prima volta qui era stato qualche anno fa, quando mi diedero il Premio Moravia.
Ha raccontato, anche, come la sua scrittura sintetica, che stasera porterà sul palcoscenico, sia nata e cresciuta nel più domestico dei modi: scrutando le frasi brevi dei compiti e dei giornaletti dei suoi tre figli.
Sì, i miei figli, da bambini, mi hanno insegnato buona parte del mio francese.
Il tema del festival quest'anno è la coppia di parole reale-immaginario. Per lei cosa significa?
Reale è ciò che esiste veramente, la vita di tutti i giorni, il lavoro, i doveri che adempiamo. L'immaginario è ciò che passa nella mia testa, le fantasticherie da sveglia, perché sognamo anche di giorno, e i sogni notturni. E poi si possono anche immaginare delle storie e dei personaggi e una vita per questi personaggi che non esistono nella realtà.
Nella sua scrittura però realtà e sogno, per lo più incubo, non ubbidiscono a questa logica: si mescolano.
Sì, parto spesso da un sogno. Io sogno molto. Di notte. Di giorno inseguo piuttosto dei pensieri. La mattina, al risveglio, cerco di ricordare le immagini notturne e se non ci riesco sono scontenta.
Secondo lei il sogno cosa ci dice?
E' difficile rispondere. A volte me lo chiedo: è il seguito della giornata? No. Io sogno soprattutto cose avvenute molto tempo fa. La scuola, spesso. Sono brutti sogni: sono a scuola e dico ma io questo l'ho già fatto, fatemi andare. Ho paura di quello che mi chiederanno. La decina di pagine che leggerò stasera, invece, raccontano un altro incubo, quello di qualcuno che cerca, cerca di amare...
Ha raccontato che il libro che l'ha più formata è L'idiota di Dostoeveskji. Forse perché il protagonista, il principe Mishkin, non riesce ad adattarsi alla realtà?
Sì. L'idiota l'ho letto più volte quand'ero molto giovane in ungherese, non conoscevo ancora il russo. Mi piaceva lo stile: Dostoevskji non fa psicoanalisi. Mostra i personaggi solo attraverso le loro parole e i loro gesti, così come gli altri li vedono. E' quello che anch'io cerco di fare, non entrare dentro le menti e le anime, ma far agire. Trovo che sia giusto, le persone si manifestano così. E' la verità.
E altri autori su cui si è formata?
Non parlerei di influenze. Ho letto tutto Thomas Bernhard, lo adoro, ora sto leggendo Pessoa, è molto difficile ma molto bello. Ho cominciato a leggere da piccolissima, mio padre era maestro e mi piaceva infilarmi nella sua classe. Verso i quattro anni già leggevo correntemente, ma a casa i pochi libri che avevamo erano di sua competenza, non avevamo il permesso di toccarli, così mi buttavo su tutto quello che capitava, ricette di cucina, giornali. E mio padre esibiva con orgoglio questa bambina che a quattro anni leggeva ad alta voce i quotidiani.
E' stato detto che la sua è una scrittura del dolore. La sua infanzia è stata felice?
Sì, anche se c'era la guerra, perché eravamo sempre insieme, con i miei due fratelli. Poi dai quattordici ai diciotto anni sono stata in collegio e lì ho scoperto il sapore dell'infelicità. Lì ho cominciato a scrivere poesie. Poesie tristi. In realtà amo l'umorismo, in collegio ero l'attrice, la comica, quella che faceva scenette per le compagne. Però sono anche una persona serissima, credo di essere nata così. In collegio tenevo anche un diario, in un codice segreto. Tanto segreto che, se oggi lo riavessi tra le mani, non saprei decodificarlo.
Nel '56 fuggì dall'Ungheria con suo marito. Oggi che l'Ungheria è nell'Unione Europea ha voglia di tornarci? E come vive quest'integrazione stando in Svizzera, cuore d'Europa fuori dell'Europa?
Sì, questa follia svizzera. Nel '56 fuggimmo perché mio marito, che era stato il mio professore di storia al liceo, era impegnato politicamente e aveva paura di finire in carcere. Aveva ragione, alcuni suoi compagni ci finirono. Oggi sono contenta dell'ingresso dell'Ungheria nell'Unione. Ho un fratello scrittore e giornalista, Attila Kristof, impegnato nel processo di democratizzazione. Tutti e due scrittori e non ci scriviamo mai, ma facciamo lunghe telefonate e mi racconta molte cose. Ho i figli, però, in Svizzera, voglio stare vicino a loro.
E' al lavoro su un nuovo libro?
L'ho finito, uscirà in Francia a gennaio. Sono novelle scritte in stili eterogenei. Piccoli testi, alcuni realistici, altri surrealisti, che raccontano l'impossibile.
Intervista di Maria Serena Palieri L'UNITA' 28/05/2004
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