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CARLO LUCARELLI


Messaggi dalla mafia

Tra i tanti misteri che riguardano la mafia ce n'è uno che sembra particolarmente oscuro. Perché quella mafia che oggi sembra scomparsa soltanto perché non uccide più in pubblico, esce allo scoperto con proclami nelle carceri, scioperi di protesta e striscioni allo stadio? Quella stessa mafia che solo fino a pochi anni fa sfidava lo stato direttamente a colpi di stragi e di bombe? La mafia che oggi fa affari con gli appalti di stato è la stessa che vuole l'abolizione del 41 bis e che rapporti ha con quella che metteva le bombe? Cosa è successo in questi anni?

Per cercare di capirlo, forse, bisogna tornare indietro fino ad un momento preciso. 30 gennaio 1992. Il giorno della rivoluzione. Quel giorno la Prima Sezione della Corte di cassazione, pronuncia la sentenza che chiude il maxiprocesso con 19 ergastoli e 2665 anni di carcere. Le rivelazioni di Tommaso Buscetta e degli altri collaboratori di giustizia sulla struttura e i delitti di Cosa Nostra, su cui si basavano i processi, diventano verità giudiziaria. E' una rivoluzione, per Cosa Nostra. C'erano stati altri tempi nella lotta alla mafia. Tempi in cui i grandi processi di mafia finiscono tutti lontano da Palermo, per legittima suspicione e poi si chiudono quasi tutti con assoluzioni generali per insufficienza di prove, e qualche provvedimento di soggiorno obbligato. In cui i sostituti procuratori si rifiutano di firmare ordini di custodia e se li deve firmare il capo della Procura di Palermo in persona, Gaetano Costa, che infatti viene ammazzato per lo sgarbo poco dopo, come avviene ammazzato anche Rocco Chinnici, il capo dell'Ufficio Istruzione di Palermo.

Poi, le cose, piano piano cominciano a cambiare. A sostituire Chinnici a capo dell'Ufficio Istruzione, arriva un altro magistrato che si chiama Antonino Caponnetto, che si chiude nel suo ufficio, in Tribunale, ne esce solo per andare a dormire in una stanza nella caserma della Guardia di finanza. Ha un'idea sviluppata sulle esperienze fatte da Giancarlo Caselli nella lotta al terrorismo. Se le indagini le conduce un magistrato solo, è possibile intimidirlo o ammazzarlo. Quindi, per ragioni di sicurezza, di continuità, di scambio di idee e di informazioni, il magistrato che fa le indagini deve lavorare assieme ad altri. Il pool di magistrati che si occupano di combattere la mafia a Palermo e in Sicilia nasce il 16 novembre del 1983. Ne fanno parte Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello, Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, che a Palermo, è già una leggenda.

Le cose cominciano a cambiare. Nel 1982, dopo l'omicidio del Prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa, era stato introdotto il 416 bis, l'articolo che punisce l'associazione di stampo mafioso. Prima essere mafioso non era un reato, bisognava rapire, uccidere, intimidire, mettere le bombe, ma essere semplicemente mafioso non era un problema, non più di tanto.

Le cose cominciano a cambiare. Arrivano i pentiti. Agli inizi degli anni 80 c'era stata la seconda guerra di mafia, quello che viene chiamato il “golpe dei Corleonesi”. La “Mafia vincente”, la cosca di Totò Riina, la più feroce e la più preparata dal punto di vista militare, elimina tutti gli avversari e si impadronisce del comando di Cosa Nostra. Molti boss della parte “perdente” si “pentono”, accettano di collaborare con la giustizia per salvare la pelle. Il più grosso, il più importante di tutti, è Tommaso Buscetta, il “boss dei due mondi”.

Il Maxi processo a Cosa Nostra si apre a Palermo il 10 febbraio 1986. 474 imputati. Tra questi anche esponenti come i cugini Nino e Ignazio Salvo, e Vito Ciancimino, l'ex sindaco di Palermo dei tempi della speculazione edilizia. Il processo si conclude il 16 dicembre 1987 con 19 ergastoli e 2665 anni di carcere ai vertici di Cosa Nostra, ma qualche anno dopo in appello si ridimensionano le condanne e le testimonianze dei “pentiti”. E c'è anche l'omicidio di un altro giudice, Antonio Scopelliti, che avrebbe dovuto sostenere l'accusa presso la Cassazione, ucciso il 9 agosto 1991. Ma poi si arriva a quel giorno, il 30 gennaio 1992, quando la Cassazione conferma gli ergastoli del maxi processo. Il giorno della rivoluzione.

La mafia e in difficoltà. Dopo i primi arresti, dopo le prime condanne del maxi processo, Totò Riina aveva detto ai suoi di stare calmi, che si sarebbe aggiustato tutto, come sempre, con qualche cavillo, una sentenza della Cassazione, le maxi assoluzioni per insufficienza di prove di una volta. La controffensiva è decisa, e come al solito, quando si tratta dei Corleonesi, feroce e spietata. Vendette trasversali. Una vera e propria strage di parenti, amici e collaboratori dei boss che hanno deciso di parlare.

Ma c'è un altro conto da regolare, ed è quello con la politica. Cosa Nostra, la Mafia, non sarebbe quello che è diventata senza un rapporto con la politica. Non sarebbe entrata nel gioco degli appalti, non sarebbe riuscita a far rimuovere ed allontanare i suoi nemici, non avrebbe goduto di tutte quelle impunità che per anni hanno ostacolato e addormentato l'azione dello Stato contro la Criminalità Organizzata. Il rapporto tra mafia e politica che fin dal dopoguerra, fino dai tempi del bandito Giuliano, è sembrato immutabile, adesso, dopo la rivoluzione del maxi processo, sembra in crisi. Forse, come ha detto qualcuno, perché è caduto il Muro di Berlino e per mantenere l'Italia sotto controllo, Cosa Nostra non serve più. Forse, come ha detto qualcun altro, la rivoluzione di Mani Pulite che si compirà nel '92, ha talmente indebolito la politica che questa non riesce a coprire più i mafiosi. O forse, in questa guerra tra Stato e Mafia, alcuni uomini dello stato hanno finalmente deciso di reagire davvero. Allora bisogna dare un segnale più forte. Alla corleonese.

12 marzo 1992. Viene ucciso l'eurodeputato Dc Salvo Lima, definito anche in atti giudiziari uno dei principali referenti politici di Cosa Nostra. Sei mesi dopo, il 17 settembre, è la svolta di Ignazio Salvo, che con il cugino Nino, morto di cancro qualche anno prima, era stato uno dei principali referenti politici della mafia in Sicilia, già condannato al maxi processo. Procedere alla corleonese. Che significa anche togliere di mezzo i nemici.

Il 23 maggio 1992 sull'autostrada che dall'aeroporto di Punta Raisi va a Palermo, all'altezza di Capaci, Giovanni Falcone viene ucciso da una bomba assieme alla moglie a tre agenti della scorta. Ma c'è un altro magistrato che fa paura alla mafia. Oltre che un collega, Paolo Borsellino è un amico di Giovanni Falcone. Sono cresciuti nello stesso quartiere, quello della Kalsa. Paolo Borsellino ha fretta, come se sapesse di non avere tempo. Lo dice a tutti, ho fretta, devo fare in fretta...ma perché così in fretta? Paolo Borsellino sta indagando sulla morte di Giovanni Falcone, ha ripreso in mano il rapporto su mafia e appalti scritto dai carabinieri del Ros del colonnello Mori e del capitano De Donno, sta lavorando tantissimo perché deve fare in fretta. Quando parla di sé, è la sorella Rita a ricordarlo, non dice se mi ammazzeranno. Dice Quando mi ammazzeranno. Lo uccidono il 19 luglio 1992, poco prima del cinque del pomeriggio, con un'auto bomba parcheggiata in via D'Amelio, dove abita la madre del magistrato. Con lui muoiono anche cinque agenti della sua scorta. Perché questa strage, a soli 57 giorni da quella di Capaci? I corleonesi devono sapere che provocherà una reazione forte. E infatti c'è la reazione della gente di Palermo, della Sicilia e di tutta l'Italia. Arrivano i soldati a presidiare gli obiettivi sensibili e soprattutto, viene convertito rapidamente in legge il 41 bis, che in casi di eccezionale gravità, come la lotta alla mafia, “sospende le normali regole di trattamento per i detenuti” e stabilisce il “carcere duro” per i mafiosi.

Intanto, però, succede qualcosa di strano. Tra gli inizi di giugno e l'inizio di agosto del '92 ci sono alcuni incontri tra uomini dello Stato, alti ufficiali del Ros, il Reparto Operativo Speciale dei carabinieri, e uomini vicini alla mafia, come don Vito Ciancimino. I carabinieri dicono di voler tendere una trappola per arrivare alla cattura di latitanti. Totò Riina, invece, vuole “trattare”. E per portare avanti quella che ritiene una trattativa Totò Riina ha il suo metodo. Il metodo corleonese di trattare gli affari.

Il 17 ottobre del 1992, un proiettile da mortaio viene nascosto nel giardino dè Boboli, a Firenze. Poi qualcuno telefona all'Ansa per rivendicarlo, facendo riferimento alla situazione carceraria dei mafiosi. E' un segnale, un segnale che vorrebbe essere preciso, ma chi telefona non riesce a spiegarsi bene, non sa farsi capire, la rivendicazione cade nel nulla e il proiettile verrà ritrovato addirittura molto tempo dopo. Intanto il 14 gennaio 1993, i carabinieri del capitano Ultimo scovano e arrestano Totò Riina. Ma Cosa Nostra non si ferma. Il bastone del comando passa a Bernardo Provenzano. Al suo fianco, Bernardo Provenzano ha Leoluca Bagarella, che la pensa come Totò Riina sulla guerra da fare allo Stato. La mafia non si ferma. E alza il tiro. 14 maggio 1992, bomba in via Fauro, a Roma, trenta feriti. 27 maggio '93, bomba in via De Georgofili, a Firenze, cinque morti e 35 feriti. 27 luglio '93, via Palestro, Milano, cinque morti. Un segnale. Un segnale che vuol essere diretto in un altro senso. Ad un altro interlocutore. La chiesa. Agli inizi di maggio, papa Giovanni Paolo II visita la Sicilia Occidentale e attacca violentemente la mafia. La risposta di Cosa Nostra non si fa attendere. Nel quartiere Brancaccio, a Palermo, c'è un prete molto attivo e molto popolare che si chiama don Pino Puglisi. Viene ucciso il 15 settembre 1993. 28 luglio '93, bomba sotto il portico della Chiesa del Velabro, a Roma. Stessa notte, bomba in piazza San Giovanni in Laterano. E non finisce qui. Se è possibile, c'è anche di peggio. Alla fine di maggio del '93, la mafia fa piazzare una Lancia Thema imbottita di esplosivo e frammenti di tondino di ferro vicino allo Stadio Olimpico, davanti alla caserma dei Carabinieri, pronta ad esplodere alla fine di una importante partita. Sarebbe stata una strage, che non avviene soltanto perché il telecomando non funziona.

Stragi, bombe, massacri. Ma cosa vuole Cosa Nostra? La Mafia vuole la revisione delle sentenze di condanna come quelle del maxi processo, la restituzione dei beni confiscati con la legge Rognoni-La Torre, la cancellazione della legge sui pentiti, e soprattutto del 41 bis. Perché in carcere col 41 bis si vive male e si resta così isolati da non poter comandare e decadere praticamente dal ruolo di capo. Cominciano a collaborare addirittura i corleonesi. Ma Cosa Nostra cerca anche un'altra cosa. Cerca di riallacciare quel rapporto con la politica che si è interrotto e che le è necessario per sopravvivere ed espandersi. Cerca un interlocutore politico.

Il rapporto con la politica è sempre stato un'ossessione per Cosa Nostra. Ne parla anche il collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè nelle sue più recenti dichiarazioni. Una cosa “poco bella”, di cui però non si “poteva fare a meno”. Poco bella perché l'uomo politico, dice Giuffrè, è “viscido” si prende i voti di Cosa Nostra e quando viene eletto si dimentica delle promesse. Anzi, quando sente su dé l'attenzione dello stato, si spaventa e per farsi credere pulito comincia ad impegnarsi nella lotta alla Mafia. La “miserabilitudine” dell'uomo politico, così la chiama Giuffrè. Sarebbe meglio fare da soli, come Leoluca Bagarella che ispira Sicilia Libera, che nasce a Palermo e a Catania nell'ottobre del '93, e che assieme a tante persone ignare ed oneste, vede la presenza diretta di Cosa Nostra. Ma Bernardo Provenzano, ha altre idee. Alla partecipazione diretta preferisce il “collateralismo politico”, preferisce un interlocutore esterno che sappia venire incontro alle esigenze della mafia, come è sempre successo. Un interlocutore da cercare con tutti i mezzi, anche con le stragi.

Poi, all'improvviso, tutto finisce. Dal luglio del '93,o dal gennaio del 94 se consideriamo anche il fallito attentato allo Stadio olimpico, di bombe non ce ne sono più. Perché? Cosa nostra ha capito che la strategia stragista non funziona, anzi è addirittura suicida perché inasprisce la risposta dello Stato? O pe4rché ha ottenuto il suo scopo? C'è una frase, molto ambigua, pronunciata da Totò Riina prima di essere arrestato. “Si sono fatti sotto”, dice. A chi si riferisce? A contatti avuti con i carabinieri del Ros che volevano catturarlo e che lui ha frainteso? O qualcun altro? Qualunque cosa sia successo, per quanto riguarda la mafia non accade più niente. Niente più bombe e niente più omicidi eccellenti. La Mafia sembra essere diventata “invisibile”.

Fino ad oggi. Da quasi tutte le carceri italiane dove si trovano detenuti sottoposti al 41 bis arrivano lettere e petizioni che annunciano proteste e scioperi della fame. Si rivolgono soprattutto agli “avvocati delle regioni meridionali (...) che ora siedono negli scranni parlamentari”. C'è anche uno striscione, esibito allo stadio di Palermo durante una partita: “uniti contro il 41 bis: Berlusconi ha dimenticato la Sicilia”. E' strana questa mafia che passa dalle stragi alle petizioni espresse con preciso linguaggio giuridico. Una mafia che chiede sconti, oppure, come sostiene qualcuno, che “presenta il conto”. Sono proteste che quando vengono da uomini do Cosa Nostra, anche se in carcere, preoccupano. Dalla Digos, arrivano informative preoccupanti che indicano tra i possibili obiettivi di una eventuale “reazione” sette parlamentari eletti in Forza Italia e Alleanza Nazionale. E dal colonnello Mori, che dirige il Sisde, arriva l'indicazione che un possibile obiettivo in questo senso potrebbe essere Marcello Dell'Utri.

Ma resta aperto un altro giallo. Gli omicidio dei primi anni '90, quelli di Salvo Lima, di Ignazio Salvo, erano omicidi di vendetta. La strage di Capaci, con la morte di Falcone, anche quella rispondeva a logiche di vendetta ma soprattutto di prevenzione, per togliere di mezzo un uomo dello Stato che era troppo pericoloso. Le stragi del '92, sono “stragi estorsive” ricatti per portare avanti quella che i corleonesi ritenevano una trattativa. Ma quella di via d'Amelio? Un tentativo di alzare la tensione della trattativa che si è rivelato un errore strategico? Un'azione preventiva, per far fuori un altro uomo dello stato che poteva essere pericoloso? Oppure cosa? Perché doveva lavorare in fretta Paolo Borsellino? Perché doveva essere ucciso subito?

Carlo Lucarelli – L'UNITA' – 10/03/2003

 


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