Orrendo!.
Ci avrei giurato.
Loriano Macchiavelli lancia unocchiata diffidente al fondo
della tazzina. Poi, la poggia a debita distanza, come se si fosse
resa colpevole del peccato più atroce: contenere un caffè
scadente. Molte cose sono cambiate dai tempi in cui inaugurò,
con le storie del sergente Sarti Antonio, lambientazione
italiana e bolognese del romanzo poliziesco. Altre cose, invece,
non cambieranno mai. E se Sarti era solito inveire contro la
scarsa cultura della caffeina, contro questo malcostume in voga
nelle cucine e nei bar del capoluogo dEmilia, Macchiavelli
si concede per un attimo il piacere di interpretare il tic del
suo personaggio. Un istante soltanto, sufficiente a confondere
letteratura e vita, prima di ripercorrere a ritroso il corso del
tempo
Ho
cominciato a scrivere polizieschi per una serie di coincidenze.
Era il 1973 e mi trovavo in vacanza con mia moglie in un posto
dove era impossibile recuperare dei gialli. Allora, le dissi che
glielavrei scritto io, un romanzo. Lei andava al mare e la
sera, quando tornava, trovava un capitolo pronto. Ci ho messo
quindici giorni per finirlo. Si intitolava 26
luglio: attentato ed era la prima storia del sergente
Sarti. Fu pubblicato nellestate dellanno successivo,
dopo una travagliata vicenda editoriale e con un titolo diverso.
Così, grazie a Le
piste dellattentato, iniziai a scrivere gialli.
Da quella volta, non ho più smesso.
In
quel periodo, era opinione corrente considerare la letteratura di
genere una prerogativa straniera. Americana e francese. Da dove
nacque lidea di unambientazione e di un protagonista
italiani?
Sono
sempre stato un grande lettore di romanzi polizieschi. Poi,
improvvisamente ho rinunciato a leggerli perché ero stanco
di imbattermi sempre nelle stesse cose. Fino al 74 avevo
composto testi per il teatro. Quando mi sono trovato a scrivere
un giallo, mi sono sforzato di immaginare un personaggio anomalo,
che non ricalcasse i canoni. In realtà, anche questa
storia dellatipicità va rivista. Si trattava più
che altro di unanomalia relativa. Ho fatto teatro in un
periodo durante il quale, per organizzare una rappresentazione,
occorrevano visti di censura e autorizzazioni. Noi ce ne
sbattevamo e così capitava che, insieme a Luciano Leonesi,
fossi convocato dalla polizia. Io come autore, lui come regista.
Nelle mie frequentazioni obbligate della questura, ho scoperto
situazioni pazzesche. Ho capito che gli apparati amministrativi
possono tramutarsi in un vero e proprio modo di intendere la vita
e da questo ho tratto ispirazione per elaborare il linguaggio
burocratico che è una caratteristica dei romanzi di Sarti.
Oggi non ha più senso impiegarlo, dal momento che si è
trasformato in uno stereotipo.
Anche
lidea di tratteggiare un sergente afflitto da spasmi
colitici è nata dallosservazione di realtà
improponibili. Cera un poliziotto, per dire, che si
presentava in servizio con il catetere. Ti rendi conto?
Decisi
di affiancare al personaggio principale uno studente
extraparlamentare, Rosas, e anche questintuizione,
apparentemente stramba, era frutto di quei tempi. Come sfondo
optai per Bologna, perché era il luogo in cui vivevo e che
conoscevo meglio. Ho creduto e credo tuttora che il
poliziesco debba essere uno strumento di indagine, ma indagare
vuol dire approfondire una conoscenza acquisita. Quindi, la
scelta era in qualche modo obbligata». Sono passati
trentanni. Oggi, è tutto diverso. Bologna non è
più lesotica ambientazione di un filone narrativo
che, in versione italiana, cominciava a muovere i primi passi. È
unanimemente considerata la Capitale del poliziesco nostrano.
La
stessa letteratura di genere è diventata uno dei
principali settori delleditoria. Non intravedi il pericolo
di una saturazione del mercato e di una conseguente crisi di
sovrapproduzione?
Il
genere, per venir fuori dallanonimato, deve
possedere tre requisiti. Intanto, non deve mai dimenticare le
proprie origini popolari. In secondo luogo, necessita di una
costante presenza in edicola e libreria. Infine, proprio per la
sua natura popolare, deve avere un costo accessibile. Garantire
una visibilità costante a certi titoli significa avere
scrittori in grado di assicurare un continuo ricambio di idee. In
questo senso la sovrapproduzione non può essere un
problema. È ovvio che una certa selezione va esercitata,
ma è giusto affidarla al gusto dei lettori. E per la
letteratura di genere il vaglio è netto: i romanzi gialli,
infatti, o piacciano molto o non piacciono affatto. Non ci sono
vie di mezzo.
A
questo punto, però, si tratta di capire quandè
che un romanzo piace e in che misura lo sforzo di blandire il
gusto è compatibile con le istanze critiche di cui il
genere, storicamente, si è fatto carico.
Questo
è difficile da stabilire. Personalmente non ho mai cercato
di scrivere bestseller. Non mi piacerebbe scrivere libri che
diventano moda. In ogni caso, continuo a ritenere che i rischi di
una crisi del poliziesco non vadano individuati nellaffermarsi
di una tendenza inflattiva, bensì in una propensione alla
replica di formule e schemi. Il romanzo di genere, in quanto
insostituibile strumento di osservazione e conoscenza, ha bisogno
di continua emancipazione. Sono molto preoccupato, perché
mi accorgo che noi scrittori stiamo diventando ripetitivi. Da
tempo cerco di imbastire con i miei colleghi un discorso comune,
di costruire un evento nazionale in occasione del quale si
discuta del futuro del poliziesco italiano. Andare avanti così
non ha senso. Se il romanzo giallo non guarda avanti, è
destinato a esaurirsi nella ripetizione di sé. E questo,
pur non incidendo nellimmediato sulle vendite, a lungo
termine diventerà un problema insormontabile. Cè
un dato evidente che testimonia linaridimento della
capacità di rottura del genere, e cioè
il fatto che attualmente non dà più noia a nessuno.
Il poliziesco, invece, è stato uno strumento che
infastidiva i benpensanti. Il partito fascista lo aveva censurato
con una legge. Quando ho cominciato a pubblicare i romanzi di
Sarti, mi sono procurato numerose inimicizie. Sono stato
etichettato come colui che voleva infangare il buon nome della
democratica amministrazione di Bologna, ma mi limitavo
semplicemente a cogliere i malumori che si respiravano nellaria
e che, più tardi, si manifesteranno in forme radicali. Al
momento, dire che Bologna non funziona non produce nessuna
reazione. Mi chiedo, perciò, che senso ha continuare a
farlo. A mio giudizio, dobbiamo tornare a indagare i territori
con sguardo dinamico e non afflitto da affezioni. Massimo
Carlotto, ad esempio, è riuscito a dire cose non dette, a
cogliere intrecci che era possibile immaginare, ma che non erano
ancora stati raccontati. Oggi, gli scrittori di genere
vengono intervistati di continuo. Compariamo in televisione.
Tutti vogliono i nostri romanzi. Significa che questi romanzi non
servono più. Io vorrei che continuassero a essere utili.
Vorrei che il genere tornasse a essere una
letteratura di rottura. Popolare, certo, ma di rottura.
A
proposito di cliché, un altro vizio irritante del
poliziesco è di mettere al centro degli intrecci sempre il
medesimo personaggio: lo sbirro buono, critico dellistituzione
in cui si trova a operare. Non ti sembra che limpatto
realistico si stia annacquando nella monotona rappresentazione di
certe maschere?
Se
dovessimo giudicare la polizia da ciò che leggiamo o
vediamo in televisione, avremmo limmagine di una polizia
perfetta, la rappresentazione di quello che dovrebbe essere e non
è. Stiamo subendo il peso delleredità della
vecchia ideologia del poliziesco, secondo la quale è
necessario ristabilire un equilibrio infranto, un assetto
turbato. Ma questo non è più vero. La scoperta di
un assassino non esaurisce linsoddisfazione e, comunque,
non dovrebbe mai esserci un trionfo. Nel romanzo che ho scritto
di recente con Sandro Toni, cè uno stravolgimento
dellidea di giustizia, perché la giustizia finisce
per imporla la malavita. La criminalità che fa giustizia è
un paradosso, uno squilibrio non ricomponibile. La nostra è
una società in cui non potrà esistere alcun
equilibrio fino a che continuerà a essere strutturata su
queste basi. È un ordine di comodo, nel quale fa comodo,
per lappunto, credere alla possibilità di una
conciliazione. Ci troviamo davanti agli effetti prodotti dalla
politica culturale degli Stati Uniti. Buona parte dei telefilm e
dei romanzi americani hanno unimpostazione accomodante.
Lindagine - perfino lindagine interna agli apparati
di polizia - si conclude sempre con un trionfo. È un altro
aspetto su cui vale la pena discutere con quanti sono interessati
allaggiornamento del romanzo. Insomma, seguitare a far
funzionare un genere è una scommessa ambiziosa.
È
possibile registrare una complementarietà sempre più
marcata tra letteratura di genere e televisione, una funzionalità
reciproca che si sviluppa in ambiti diversi. Tuttavia, le ultime
produzioni sembrano non tenere il livello del passato. Che
giudizio dai di questa convergenza?
Posso
dirti, in tutta tranquillità, che non se ne può
più. Sì, la tendenza è a fare sempre peggio.
Tutti i telefilm passati in televisione dal 94 al 96,
con Sarti come protagonista, grondavano amarezza, presentavano
personaggi sgualciti, esprimevano una problematicità
esistenziale. Ora, cè il poliziotto pulito, leroe.
Bertolt Brecht diceva: Beato quel Paese che non ha bisogno
di eroi. Ecco, io credo che noi non abbiamo bisogno di
eroi. Eppure, in televisione si creano eroi tutti i giorni.
Adesso, anche in letteratura si fabbricano eroi. Lavorare per la
televisione presuppone il pagamento di alcuni prezzi: o si fa in
una certa maniera oppure non si fa. A volte, mi è successo
di misurarmi con delle variazioni insostenibili. Ad esempio, il
personaggio femminile di una delle storie di Sarti era una
prostituta. In un adattamento televisivo doveva diventare una
studentessa del Dams. Ti pare che ci siano connessioni tra la
prostituzione e il Dams?
?!
A
me, no. Questo è il benpensare, la purga che
devi subire se vuoi fare televisione. E allora, in certi casi, è
preferibile non fare. Grazie per il caffè.
Intervista di Tommaso De
Lorenzis L'UNITA' 23/01/05
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