Nato
a Tunisi, ma ormai da diversi anni trapiantato a Parigi, dove
insegna letteratura comparata all'università di Paris
X-Nanterre e dove dirige la rivista internazionale Dédale,
Abdelwahab Meddeb è conosciuto in Italia quasi
esclusivamente per un saggio, La malattia dell'Islam
(Bollati Boringhieri), in cui ripercorre la storia e le
caratteristiche dell'integralismo islamico e ne analizza le cause
interne ed esterne, in un lungo percorso che prende avvio dalla
Medina di Maometto per arrivare fino ai commando suicidi che
hanno distrutto le Torri gemelle nel settembre 2001, passando
attraverso la fondazione del wahhabismo nell'Arabia del XVIII
secolo e il mancato riconoscimento dell'islam da parte
dell'occidente. Ma lo scrittore, che ha al suo attivo una decina
di opere tra poesie, saggi e romanzi, conduce ormai da molti anni
una riflessione più ampia, su quella che lo definisce la
sua doppia genealogia fra oriente e occidente, una
ricerca che lo ha portato da un lato ad approfondire la
conoscenza dei grandi testi della cultura sufi, dall'altro a
individuare i nessi che collegano il grande poeta arabo Ibn Arabi
con Dante Alighieri. Abbiamo incontrato Meddeb di passaggio nelle
scorse settimane in Italia per alcuni incontri culturali: seduto
in un angolo tranquillo di un caffè torinese, lo scrittore
guarda i passanti attraverso la vetrina, ma getta spesso una
rapida occhiata all'orologio. A nessun costo vuole mancare la
visita rituale alla chiesa di San Lorenzo, la cui cupola gli
ricorda quella della moschea di Cordova
Qual è
il percorso attraverso il quale si è avvicinato al
dibattito sulla crisi che attraversa l'islam?
Qualunque
sia il testo che scrivo - si tratti di un saggio o di un romanzo
- ci arrivo sempre passando per la poesia. In Italia, però,
sono conosciuto soprattutto per La malattia dell'Islam,
perché in questo libro ho orientato la mia attenzione su
un avvenimento in particolare, la cui forza ha suscitato molto
interesse. Ma di fatto questo libro è una sintesi, direi
al tempo stesso globale e particolare, di un lavoro che è
cominciato molto tempo fa: l'idea è partita con il mio
primo testo, un saggio un po' goffo, che però conteneva
già tutto il percorso che avrei poi seguito. Venne
pubblicato nel 1975 su Temps modernes, in un numero
speciale dedicato al Maghreb. Della redazione ci occupammo in
tre, il marocchino Abdelkébir Khatibi, un autore algerino
e io che sono tunisino e che a quel tempo ero ancora molto
giovane. Era un testo analitico ma al tempo stesso lo si poteva
leggere come una poesia: cercava di unire la potenza
dell'assertività con un discorso visionario, che alla fine
prevale sul versante analitico. D'altra parte io non sono un vero
filosofo, e anche nella Malattia dell'Islam le
argomentazioni le conduco spesso per scorci e digressioni. Alla
fine questo progetto si è strutturato intorno al modo in
cui ci si può situare sul luogo dell'incrocio fra
Oriente, Europa e Islam, un incrocio che include anche
l'apertura verso altre civiltà. Nutro ad esempio una
grande passione nei confronti delle culture tradizionali cinese o
giapponese, mentre provo minore interesse per quella indiana, per
motivi che sfuggono anche a me, nonostante sappia che di questi
incroci culturali l'India è il centro. A interessarmi più
di ogni altra cosa è la questione dell'alterità
assoluta della Cina e anche di come, in questa alterità
assoluta, il Giappone rappresenti una dimensione di vicinanza. Il
mio lavoro più recente riguarda i testi del poeta
giapponese Saigyô (Vers le vide, edito nel 2004 da
Albin Michel nella collana Spiritualités), che
ho tradotto e curato insieme a un'amica giapponese, Hiromi
Tsukui, lei stessa poetessa con una passione per la poesia
antica. Grazie a lei sono stato iniziato alla lingua giapponese,
la traduzione mi ha impegnato per dieci anni, sebbene si tratti
in tutto di 144 haiku. L'aspetto che mi interessa riguarda il
fatto che nel rapporto con questi testi ho trovato la possibilità
di una sfida all'epoca contemporanea, a come sia possibile essere
ultramoderni e al tempo stesso mantenere un contatto costante con
la tradizione.
A proposito di tradizione, sono molte le
tracce che hanno confuso le varie origini a cui ci si può
richiamare: si potrebbe citare, per esempio, l'origine maghrebina
di Agostino. E ci sono «tracce in via di sparizione»
- come dice il poeta Ibn Arabi - che ci richiamano alla mente il
fatto che il poema classico arabo cominciava sempre con il pianto
sulle tracce lasciate dall'accampamento della tribù
dell'amata. Cosa filtra, di tutto questo, nel suo personale
rapporto con la tradizione?
Per citare le parole di
Ibn Arabi, «le tracce del loro accampamento stanno
scomparendo ma la loro passione, sempre nuova, dentro di loro,
non scompare mai». Credo profondamente in quella che Goethe
chiama la Weltliteratur. Quella che io pratico non è
letteratura nazionale, prova ne sia il fatto che non scrivo nella
lingua del mio paese, ma in francese, cioè nella lingua
del mio paese di adozione. Sono convinto che nell'arte, come
nella scrittura, esista una scena in cui il progetto è lo
stesso ovunque, ed è su questa scena che ci si incontra.
La fedeltà alla tradizione, e alle origini da cui la
tradizione deriva e per cui procede, può avvenire solo
all'interno di una situazione di infedeltà. Soltanto
quando si è stati una volta infedeli alla propria origine,
quando la si è tradita, quando si è andati altrove,
su questa scena comune, con l'obiettivo di fondare qualcosa di
nuovo, soltanto allora, su questa stessa scena, si può
attingere alla propria origine. Solo allora puoi tornare verso di
essa e prenderne qualcosa. Perciò mi piace parlare dell'
origine come traccia e non come centro o come
orizzonte personale. Nel momento in cui si crea un altro
orizzonte e si sposta il proprio centro per alimentare una scena
comune, si attua quella che chiamo l'infedeltà
fedele. Quanto a Agostino, è importante ricordare la
sua origine berbera, maghrebina, numida. Il testo delle
Confessioni mi commuove, al di là dell'aspetto
teorico, perché ho condiviso con Agostino una infanzia
immersa nelle asperità del clima - un clima che impone di
negoziare la sopravvivenza nella canicola. Anche io, inoltre, ho
provato di persona, in profondità, la tensione fra la
legge e il desiderio: all'interno di un ambiente religioso in cui
è il padre a garantire l'incarnazione stessa della legge,
quasi essa fosse una persona viva, il desiderio è per me
qualcosa di estremamente importante. Anche per questo chiamo
Agostino mio compatriota: così lo aveva definito pure
Jacques Derrida, in un suo testo molto bello. Quando è
morto, mi trovavo a Tangeri: quel giorno ho scritto un breve
testo molto denso (uscito poi sulla rivista Esprit),
una sorta di cronaca in cui ho ripreso la questione delle tracce
e ho parlato dei due compatrioti che ogni maghrebino sente di
avere in Agostino e in Derrida, due figure che rivestono per noi
un'importanza capitale. Agostino ci chiama, addirittura ci
obbliga, a spezzare quella cappa dell'islam responsabile di
impedirci di ritrovare i fondamenti latini del Maghreb che sono
esistiti, e sono ancora vivi. Derrida, come ogni maghrebino,
dimostra come proprio partendo dal luogo,
dall'Algeria, possa prendere origine qualcosa che ha agito in
modo fondamentale per la cultura dominante dell'epoca, ossia la
decostruzione della cultura occidentale. In Derrida, l'Algeria
non è mai dimenticata, come è invece accaduto nei
testi di molti altri autori naturalizzati francesi. Inoltre, in
lui come in Agostino torna la stessa idea dell'essere fuori
luogo: è un uomo del Maghreb che si è spostato
verso l'altra riva del Mediterraneo, che si è mosso verso
il luogo dove la lingua in cui scriveva era la lingua
dell'autorità e del sapere. Inoltre, la mappa degli
spostamenti si è molto allargata a altri dislocamneti del
pensiero, a un decentramento verso l'America, per esempio. Anche
per me è stata determinante la terza via del
soggiorno americano: è grazie a questo passaggio che sono
riuscito a rompere definitivamente il nodo gordiano e il legame
d'assedio fra la riva nord e la riva sud del mediterraneo.
Come
è avvenuta la sua iniziazione alla cultura occidentale,
prima a Tunisi e poi quando si è spostato verso l'altra
riva del Mediterraneo?
Nella mia formazione ho avuto
un periodo occidentalista. Quando vivevo a Tunisi,
stavo sempre un po' fra le nuvole, ero uno studente piuttosto
svogliato. Cominciai a occuparmi di letteratura abbastanza tardi.
A casa mia c'era soltanto la biblioteca in lingua araba di mio
padre, ma durante una vacanza presso dei cugini più grandi
di me, ho avuto accesso per la prima volta a una biblioteca in
francese, e solo allora ho cominciato a leggere in quella lingua.
Ho scoperto un manuale del secolo dei Lumi, ho cominciato a
leggere Diderot, Rousseau, Montesquieu e di colpo ho avuto
l'impressione di scoprire un mondo che era il mio. È stato
a partire da lì che ho cominciato a provare questa
passione divorante per i testi che ho coltivato fino ai ventun
anni, quando sono partito da Tunisi. Ed è stato in quel
periodo che ho imparato davvero il francese, lavorando
quotidianamente sul dizionario per capire a fondo Les fleurs
du mal di Baudelaire, iniziandomi alle influenze greche e
latine e anche a quelle giudaico-cristiane sia pure in modo un
po' sotterraneo. In quegli stessi anni ho scoperto anche la
passione per la pittura. Fino a quel momento avevo vissuto in una
sorta di deserto pittorico, ma per tutti gli autori che amavo di
più la pittura è centrale. La prima cosa che ho
fatto, quando sono andato a Parigi per terminare i miei studi
universitari alla Sorbona, è stato di dedicarmi alla
storia dell'arte: non andavo quasi mai a lezione, passavo il
tempo viaggiando. In quegli anni ho scoperto l'Italia, che ha
suscitato in me una passione straordinaria: passavo la vita nei
musei ed è stato in questo contesto che ho scoperto Dante.
Tutte queste esperienze le ho interiorizzate, e sono state alla
base di questa fase, appunto, occidentalista, fra i
sedici e i trent'anni. Forse sarà stata una forma di
rivolta contro mio padre, fatto sta che in quel periodo ho
lasciato completamente da parte la cultura araba, volevo essere
un uomo del mio tempo, ero attratto dall'idea di andare alla
conquista di Parigi. Ed è stato proprio a Parigi, in un
ambiente sessantottino, un ambiente internazionale, con amici di
tutte le nazionalità appassionati di musica e di cultura
orientale, che ho scoperto il sufismo: fino a quel momento lo
conoscevo solo a partire dalla tradizione popolare delle
donne.
Mio padre ci aveva a malapena introdotto a Ghazali,
lui stesso era stato un poeta della scuola un po' romantica, di
forma neoclassica, odiava la rivoluzione poetica araba degli anni
Quaranta e Cinquanta. Mi sono dunque lasciato iniziare al sufismo
in questa atmosfera gauchiste aperta alle influenze
orientali. La cosa che mi divertiva, però, era che in
realtà io ne sapevo più degli altri perché
venivo dall'islam. Ho letto i testi persiani soprattutto nella
traduzione inglese, poi sono passato agli orientalisti,
Massignon, Corbin, Nicholson prima di arrivare a Ibn Arabi con la
consapevolezza che non potevo morire in quella corrente. E poco a
poco ha preso forma il progetto dell' infedeltà
fedele e la capacità di trovare materia nuova
in questo incrocio.
Intervista di Lilia Zaouali
IL MANIFESTO 05/02/2005
|