Nella
scena che apre La bambina Icaro, romanzo di esordio della
ventenne anglo-nigeriana Helen Oyeyemi, pubblicato a gennaio con
molto clamore in Gran Bretagna e prontamente edito in Italia da
Rizzoli (pp. 337, euro 17,50, traduzione di Annamaria Biavasco,
Valentina Guani e Elisabetta Humouda), la protagonista del libro,
la piccola Jessamy Harrison, è nascosta in un guardaroba:
Era seduta nell'armadio del corridoio, tra asciugamani e
biancheria, e mormorava tra sé: Sono nell'armadio.
Aveva la sensazione di doverselo ripetere per riuscire a
crederci. Un po' come faceva al mattino quando si svegliava e si
diceva: Mi chiamo Jessamy. Ho otto anni. Incerta di
sé, fragile, divisa fra due culture - quella del
bianchissimo e biondissimo padre inglese, e quella
della madre, Sarah, che ha lasciato la sua Nigeria per Londra
dove è diventata scrittrice -, Jess è una bambina
solitaria, che non ama la vita fuori dall'armadio e preferisce
guardare per terra (un posto che rimaneva sempre più
o meno uguale), scrivere haiku, leggere. Ed è
proprio la solitudine da un lato, e l'appartenenza a una doppia
cultura dall'altro, a catalizzare, durante un soggiorno presso la
casa africana della famiglia materna, l'apparizione di una amica
immaginaria, ma anche molto reale, TillyTilly, che trascina Jess
in un percorso sempre più doloroso alla scoperta di sé,
in cui si avvertono echi delle vicende personali dell'autrice.
Arrivata a Londra dalla Nigeria a quattro anni, Oyeyemi, che oggi
frequenta il secondo anno di scienze politiche al Corpus Christi
College di Cambridge e appare come una ragazza sicura di sé
e spiritosa, con un paio di ciocche blu cobalto che spiccano
nella sua capigliatura nera, ha attraversato nel corso
dell'adolescenza una profonda crisi depressiva, superata anche,
se non soprattutto, grazie alla scrittura: una scrittura, ha
detto di lei la scrittrice Ali Smith, in cui lo stile infantile,
tanto esplicito da risultare imbarazzante, unito a
una grande sicurezza narrativa, produce una sorta di
isteria stranamente concreta. Abbiamo incontrato Helen
Oyeyemi a Roma, dove è venuta nei giorni scorsi per
presentare il suo libro.
Lei ha firmato il contratto
per la pubblicazione della Bambina Icaro quando aveva
appena diciott'anni, ma il testo ha richiesto una elaborazione
lunga e complessa. Ce ne vuole parlare?
Ho iniziato a
scrivere molto presto, senza nessuna pretesa letteraria: era una
pratica personale e non mostravo a nessuno i miei testi. Quando
avevo tredici anni ho cominciato una serie di racconti, che
ruotavano intorno alla figura di una bambina un po' vera e un po'
immaginaria, TillyTilly appunto, e componevano una unica storia,
caratterizzata dal fatto che di volta in volta lei finiva sempre
per danneggiare i suoi amici. All'ultimo anno di scuola, però,
ho avviato un racconto diverso, dove questo personaggio non aveva
più un ruolo centrale e compariva invece una nuova
protagonista, Jess. Quando sono arrivata a una ventina di pagine,
ho avuto la sensazione che fosse la cosa migliore che avevo
scritto fino a quel momento. Così, ho mandato il testo a
un agente letterario, Robin Wade. In realtà, volevo solo
chiedergli qualche consiglio, perché pensavo che in
futuro, magari a trenta o quarant'anni, sarei diventata una
scrittrice. Il giorno dopo invece ho ricevuto la sua risposta: mi
diceva che era entusiasta e aspettava il seguito. È stato
un periodo strano, che ricordo come una sorta di sogno: stavo
preparando gli esami finali, dovevo affrontare il colloquio di
ammissione a Cambridge, e intanto scrivevo quasi di nascosto. In
casa non avevo parlato del mio romanzo, usavo il computer dei
miei genitori, ma a loro raccontavo che era per i miei compiti.
Così, quando ho firmato il contratto per la pubblicazione
del romanzo, questo ha rappresentato una sorpresa per tutti.
Al
suo successo ha in parte contribuito il fatto che il suo profilo
di autrice - la sua giovinezza, la sua provenienza da un
retroterra culturale misto - corrisponde al sogno di ogni
editore, all'incarnazione di una tendenza letteraria sempre più
diffusa. Questo non la disturba?
Quando Robin Wade mi
ha incoraggiato a continuare, ho pensato che si trattasse di
un'occasione da non perdere. Certo, sono consapevole di avere
tutti gli elementi giusti per diventare un «caso
letterario», a partire dal fatto che ho scritto questo
primo libro quando ero giovanissima, ma sono convinta che quello
che conta alla lunga è il testo, ed è questo che mi
interessa di più. So bene di rappresentare una moda, che
come tutte le mode è destinata a estinguersi presto. Ma è
sulla qualità della scrittura che si misura un autore, e
su questo, con il tempo e con l'esercizio, comincio a sentirmi
più forte.
La protagonista del suo libro è,
come lei, un'avida lettrice, e nel testo vengono citati molti
autori diversi, dai grandi scrittori africani come Achebe ai
poeti romantici inglesi, alla Alcott di Piccole donne.
Quali sono le voci che l'hanno influenzata di più?
In
questo periodo sto rileggendo tutte le poesie di Emily Dickinson,
e sicuramente la sua scrittura avrà una presenza molto
intensa nel nuovo libro che sto scrivendo, un romanzo ambientato
a Cuba e incentrato intorno alla mitologia yoruba. Ma dietro La
bambina Icaro c'è tutta una massa di letture che si
intrecciano, a partire proprio da Piccole donne, un libro
che in effetti continua a piacermi molto per il modo in cui segue
la trasformazione delle quattro ragazzine su un lungo arco di
tempo. I testi che mi hanno colpito di più, che ho sentito
più vicino, però, sono stati i racconti di Poe e
Yoruba Girl Dancing, un romanzo di qualche anno fa della
scrittrice anglonigeriana Simi Bedford: quando l'ho letto la
prima volta, sono rimasta sconvolta. Quanto ai grandi scrittori
africani, e nigeriani in particolare, come Achebe e Soyinka, non
credo di averne subito l'influenza, anche se apprezzo il modo in
cui scrivono della Nigeria senza mai essere «esotici».
Di
recente lei ha affermato in un articolo che potrebbe analizzare
l'Africa d'oggi per anni interi, senza sapere di cosa in realtà
si tratti. Eppure la cultura tradizionale nigeriana ha un ruolo
importante nel suo romanzo.
In effetti, mi irrita
molto sentir parlare genericamente di Africa, mi chiedo di cosa
si stia parlando, come se si trattasse di un luogo omogeneo. Al
contrario, sono convinta che sia necessario guardare all'Africa
nelle differenze, molto forti, fra le diverse culture. Così,
per quanto mi riguarda, preferisco parlare del paese che conosco
meglio, la Nigeria, e delle sue condizioni attuali, che
continuano a essere preoccupanti, anche se forse si intravedono
segnali positivi di cambiamento. E nella Bambina Icaro,
anche se non ho preso spunto da un particolare mito del
patrimonio yoruba, sono stata influenzata dai racconti di mia
nonna, che è una formidabile narratrice di storie. Anzi,
potrei dire che ho cercato di fondere il suo gusto del racconto
con elementi legati alle mie letture.
Pensa che la
posizione di «dualità» culturale in cui si
trova la protagonista della Bambina Icaro, Jess, possa
essere stata influenzata dalla sua situazione? E in generale
ritiene che l'elaborazione del suo romanzo si possa ricollegare
alla depressione di cui è stata vittima
nell'adolescenza?
Se Jess si trova in una posizione di
incertezza, è perché mi sono resa conto che non
potevo mantenere come personaggio centrale TillyTilly, che è
priva di sostanza, dato che non esiste un distacco fra quello che
lei è e le azioni che compie. Avevo quindi bisogno di
sviluppare una figura da contrapporre alla sua: una figura che
fosse in una situazione di insicurezza tale da consentire a
Tilly-Tilly di insinuarsi dentro di lei. La dualità di
Jess la rende vulnerabile, ma non direi che corrisponde alla mia
personale esperienza, sebbene sicuramente anch'io, in quanto
figlia di immigrati, mi trovi in una posizione «intermedia»,
che può rivelarsi interessante dal punto di vista
letterario. Quanto al rapporto fra depressione e scrittura, devo
premettere che non mi piacciono i testi autobiografici, i memoir.
E in ogni caso penso che per scrivere sia necessario essere in
uno stato di buona salute mentale. Quando ci si sente depressi,
nulla va come si desidera, e qualsiasi cosa si scriva tende a
essere autoreferenziale. E questa non è certo una
situazione produttiva.
Intervista di Maria Teresa
Carbone IL MANIFESTO 20/04/2005
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