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Il potere delle storie

Immaginatevi di essere nella condizione di poter prendere alla lettera, e a vostro vantaggio, l'espressione “il potere della parola”: con una semplice nenia che mormorate tra le labbra come una preghiera veloce, potete far fuori chiunque vi capiti a tiro, anche a distanza. Il protagonista del nuovo romanzo di Chuck Palahniuk, che è un uomo buono, ne fa schiantare sette otto nel breve percorso da casa sua al giornale in cui lavora, dopo aver sterminato i suoi vicini di casa rumorosi (“questi silenziofobi”). Salito su un taxi avverte l'autista: “Vada alla velocità che preferisce, ma la prego non cerchi di fare conversazione con me. Non sono capace di gestire la mia rabbia...”.

Il suo ultimo romanzo, Lullaby (Ninna Nanna), narra l'incontro tra un giornalista disilluso con l'hobby delle costruzioni architettoniche in miniatura, e un agente immobiliare che rivende sempre le stesse case lussuose, infestate da demoni, fantasmi che mordono, teste che rotolano giù dalle scale e sangue che esce dai muri. Entrambi sono segnati dal lutto di coniuge e figli cui hanno dato involontariamente la morte nel sonno leggendo quell'antica ninna nanna che uccide all'istante. Entrambi sono ora consapevoli del potere di questa nenia, detentori del segreto del “canto della dolce morte”, indecisi se salvare il mondo o sottometterlo (“uccidere una persona cui si vuole bene non è la cosa peggiore che le si può fare”). Metà serial killer e metà giustizieri, intraprendono in compagnia di due giovani sballati apprendisti stregoni un viaggio negli stati Uniti per cercare e distruggere copie del libro che contiene la ninna nanna (ossia fermarne il virus), con grotteschi, spesso esilaranti effetti collaterali e un finale a sorpresa che sembra una parodia di Stephen King (Le streghe di Salem, soprattutto). Ma nessun riassunto rende la ricchezza di temi e di toni, e soprattutto il ritmo serrato, spesso jazz, di un thriller che è soprattutto, come forse sempre in Palahniuk, una storia d'amore.

Si ride, e molto, e ci si commuove, e come sempre leggendo Palahniuk ci si sente via via sorprendentemente più liberi, liberi di immaginare, ma anche di dire la propria vita strampalata, marginale o povera. I critici letterari che hanno parlato dei suoi romanzi ne hanno fatto spesso pretesto per letture politiche e nichiliste sull'America di oggi, sulla frantumazione dell'american dream e l'implosione della società americana, etc. Queste letture risultano assai provinciali, e Palahniuk ha sempre risposto di descrivere innanzitutto se stesso; salvo avvertire che, in tutti i casi, le sorti del mondo e della nostra civiltà non le reggono tanto gli Stati-Nazione, ma le corporazioni, che sono ormai da tempo multinazionali. Sarà anche per questo, ma trovo che non sia così difficile identificarsi nei personaggi e nelle vicende narrate da Palahniuk (autore di culto dopo il successo di Fight club al cinema), che quanto più appaiono pazzesche tanto più vanno al cuore della nostra vita occidentale. E' nel suo universo di simulacri che avvengono ormai le nostre vite iperreali.

I lettori di Chuck Palahniuk sanno inoltre come ogni suo libro usi, smontandoli e rimontandoli, vari saperi e linguaggi settoriali contemporanei, da quello medico e paramedico (Fight club, Invisible monsters, Soffocare) a quello della moda (Invisible monsters), a quello della sessualità (Soffocare, e quasi tutti gli altri), etc. c'è poi l'onnipresente tema del corpo e delle sue metamorfosi. Metamorfosi, detto per inciso, anche come procedimento stilistico (che è il contrario della metafora) il cui uso sapiente in Palahniuk ci ricorda Franz Kafka. Ninna nanna, il nuovo romanzo, è anche un excursus nei miti e nei rituali della magia, di cui la pubblicità è surrogato contemporaneo. Ad essa vengono rapportati quindi i linguaggi televisivi e quelli architettonici. Quello che ne deriva, svolto in forma narrativa e finalmente con stupore critico, è quella specie di nastro orizzontale di stili assemblati come merci in un ipermercato che più di vent'anni fa è stato chiamato “post-moderno” (mangiare cinese a Parigi e spruzzarsi profumo francese a Shanghai, diceva timidamente il filosofo J.F. Lyotard), e che da un po' di tempo chiamiamo “globalizzazione”: un mostruoso e soffocante labirinto di cose, rumori, messaggi, parole, esperienze, suoni e forme che mescola tutto, senza memoria e senza storia, senza nessun senso a parte l'obbligo al consumo e il suo perpetuo presente – come il nastro scorrevole della catena di montaggio, appunto, o come la marmellata radiotelevisiva. Insomma, la nostra vita contemporanea: “Alla radio, i valzer sfumano nel punk che sfuma nel rap che sfuma nei canti gregoriani che sfumano nella musica da camera. Alla TV qualcuno spiega come si pescano di frodo i salmoni. Qualcun altro spiega come mai la Bismarck affondò. Io incollo insieme vetrate e volte a crociera e a botte e archi piatti e scale e navate e pavimenti a mosaico e pareti divisorie in metallo e timpani di legno e muratura e pilastri ionici. Alla radio passano percussioni africane e canzoni d'amore francesi, tutto mixato insieme. Sul pavimento davanti a me ci sono pagode cinesi e haciende messicane e villette coloniali in stile Cape Cod, tutte assemblate insieme. Alla TV...”, etc.

Da lettore ammirato e a suo agio nei suoi libri, mi accorgo che le trame visionarie di Palahniuk, così strampalate in partenza, acquistano un realismo avvolgente, come di rado incontro nella letteratura (forse negli ultimi romanzi di Philip K. Dick, non a caso detti “teologici”; e, in Europa, certe storie del mio amato Jean Echenoz); un realismo carico di speranza e di energia romantica (e si pensi all'alba finale di Soffocare, lui e lei in un paesaggio urbano semidistrutto, lui pieno di merda nei pantaloni, lei completamente pazza e per questo guarita). E' vero, nei suoi romanzi le situazioni sono estreme, ma l'improbabilità delle storie diviene come per magia necessaria, e il loro impasto e la loro progressione le trasmutano in qualcosa di assolutamente riconoscibile e familiare. Potenza dell'immaginazione che, quanto più è libera, tanto più dice la verità. E ci si chiede: ma se uno guarda da vicino la vita, le vite della gente, esistono poi situazioni che non siano estreme? Rivolgo all'autore, classe 1961, questi pensieri, e gli domando se è consapevole del suo grande merito di avere dato voce e visibilità ai mondi nascosti dentro il mondo, alle vite emarginate e senza futuro, cioè invisibili, private di storia e di immaginazione.

Chuck Palahniuk, jeans nei e felpa arancione, capelli corti impastati di gel, giocherella con la fede e scribacchia su una Moleskine. Timidamente, trattandosi di un complimento (sottolinea lui stesso il “timidamente”) dice che sì, e d'accordo con quello che ho detto. Se ha scritto un libro su una nenia che uccide, sa che in realtà le storie curano, sono un antidoto alla nostra felicità. “Non tanto le letteratura per se stessa è antidoto all'infelicità – precisa Palahniuk – quanto la possibilità per ognuno di noi di esprimere se stesso. Ma occorre prima di tutto arrivare a sentire il bisogno di esprimersi, e poi averne o svilupparne la capacità. E' anche vero che in fondo tutto quello che ho scritto fino ad oggi sono storie d'amore, anche se non credo si possa dire altrettanto del mio prossimo libro...Io credo che un libro debba piacere, debba divertire, e debba anche stupire. Credo soprattutto che un libro debba valere la pena, e il tempo della lettura. Quando qualcuno decide di leggere un libro il denaro non conta più, la cosa più importante è il tempo che ci metti dentro, un libro deve dare entusiasmo proprio come il sesso, o come una droga, come tutto quello che a uno piace di più fare...”.

Palahniuk vive a Portland, una piccola città dell'Oregon. Dopo il film che gli ha dato fama e denaro, non ha smesso di abituarci, perché, dice, lì riesce benissimo a scrivere. E fare libri è la cosa che gli interessa di più. “A Portland ci sono tantissimi scrittori, dice sorridendo, è una città che spinge gli scrittori a scrivere come se stesse lavorando. E in effetti scriviamo così tanto che dobbiamo ormai attenerci a normative di tipo aziendale, inventariare le nostre penne e matite, siamo molto occupati, stiamo alle regole del business...(ridiamo all'idea). A parte i miei amici scrittori di Portland – continua – amo molto due giovani scrittori, la statunitense Amy Hempel e il dominicano Junot Diaz. Scrivono novelle brevi, quasi senza sentimenti, molto divertenti, ma che spezzano il cuore...Quanto alla musica che ascolto, vaia da libro a libro. Spesso è la musica rock, ma a volte addirittura le opere di Verdi”.

Gli chiedo ancora del suo ultimo libro, Ninna nanna. E' la storia di un incantesimo che si propaga come uj virus, e i richiami al Grande Fratello nel libro abbondano. Gli incantesimi e la magia, spiega a un certo punto, hanno in comune il loro essere contorti: “Più l'incantesimo è contorto, più il suo effetto sarà di contorcere e deformare la mente la mente della vittima. La confonderà. Si impossesserà della sua attenzione. La vittima inciamperà. Avrà capogiri. Non riuscirà a concentrarsi. Proprio come il Grande Fratello coi suoi canti e i suoi balli...”. Non è che magari “l'immaginazione al potere”, il celebre slogan del '68, si sia realizzato, sì, ma in un modo perverso? “Certo, Ninna nanna è un libro sul potere – dice Chuck Palahniuk. Ma tutte le nostre vite sono storie di potere. Oggi chi è che ha potere? Colui che riesce ad attirare l'attenzione, chi riesce a farsi ascoltare e a raccontare la propria storia è quella giusta. In fondo è sempre stato così, da Gesù a Bush (o Berlusconi), chi riesce a convincere gli altri ha potere. Ovviamente, io non credo alla verità assoluta, alla verità al singolare. Così come non credo in un Dio non credo nell'esistenza di una verità. Credo però che possiamo dire molte verità nelle nostre storie osservando le nostre vite, i nostri comportamenti, raccontando con onestà gli errori che abbiamo compiuto...”.

Per arrivare forse a riconoscere, come dice un personaggio del suo romanzo, che se Adamo ed Eva non erano altro che “gli animaletti di Dio, cacciati di casa a calci perché non avevano imparato a farla nella sabbietta”, “forse gli esseri umani sono solo cuccioli di coccodrillo che Dio ha buttato nel cesso”. A patto che questa idea sia solo un punto di partenza per raccontare la nostra vita, le nostre storie, dire gli innumerevoli mondi nascosti dietro il mondo della verità ufficiale e luccicante.

Beppe Sebaste – L'UNITA' – 30/09/2003

Intervista a Chuck Palahniuk




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