Il romanzo
postmoderno, che negli Stati Uniti sopravvive in alcuni corsi
universitari ma ha silenziosamente abbandonato il mercato, sta
tornando alla ribalta in Italia dopo anni passati a vivacchiare
senza una vera gloria di pubblico, ammorbato da una critica che
non lo capiva. Fanno eccezione alle fortune alterne di questo
"genere" i picchi di notorietà cult del
fantomatico Thomas Pynchon del quale molti, anche se non hanno
mai avuto il coraggio di affrontarne la lettura, sanno che come
Salinger si nega al pubblico e che, poco tempo fa, ha rischiato
di essere stanato dal suo rifugio a prova di fama mondiale grazie
a qualche mattacchione impadronitosi dei dati della sua carta di
credito. Del suo capolavoro, Gravity's Rainbow, tutti
conoscono il famoso attacco "A screaming comes across the
sky": "un urlo arriva dal cielo" oppure, nella
traduzione italiana di Giuseppe Natale, "Un grido
s'avvicina, attraversando il cielo". Comunque sia, questa
frase rappresenta per il romanzo postmoderno quello che "Aprile
è il mese più crudele" di Eliot rappresentava
per il modernismo. Una frase che, riletta e ridetta all'infinito,
è diventata il mantra del postmoderno.
La
generazione delle urla che arrivano dal cielo è quella di
Robert Coover, Donald Barthelme, Stanley Elkin, John Barth, Ron
Sukenick e William Gass; circa vent'anni fa quest'ultimo, forse
uno degli scrittori più eleganti che gli Stati Uniti
abbiano prodotto in questo secolo, ingaggiò una singolare
battaglia letteraria con John Gardner, avversario del postmoderno
e fautore di una narrativa più legata ai valori e al
realismo: in una parola, più "etica". Era una
battaglia importante ma non c'era molta gente disposta ad
assistervi o a schierarsi. Quelli infatti erano anche gli anni in
cui, nelle università americane, impazzava la moda di
Derrida: lo studente ne leggeva qualche saggio, aggiungeva un po'
di Lacan, evitava di perdere troppo tempo con Freud o con
Saussure, e il gioco era fatto; ogni scrittore diventava
miracolosamente postmoderno. Mi piace pensare che Don DeLillo,
altro romanziere in qualche modo legato al gruppo appena citato,
abbia inventato il protagonista di Rumore bianco pensando
a quei mirabili eccessi: un personaggio che dirige il
dipartimento di studi su Hitler, in un'università
californiana, senza sapere il tedesco. Si leggevano i
capolavori e si credeva che tutti quegli scrittori avessero
studiato La grammatologia, e che prima di iniziare la
stesura di un capitolo del loro romanzo, riflettessero sui
filosofi francesi della differenza. Nelle interviste si facevano
domande ammiccanti sulla decostruzione, quasi si trattasse di un
segreto gelosamente condiviso con l'intervistato, e quando questi
sgranava tanto di occhi gli si faceva un sorrisino, come dire: mi
hai capito benissimo ma non puoi parlarne, altrimenti diranno che
sei uno snob. Nei dipartimenti americani di letteratura, in
quegli anni, era un gran fiorire di "de" e di "post":
si decostruiva, si postmodernizzava e si poststrutturalizzava
tutto quel che capitava sottomano. Tanto che, a un certo punto,
erano riusciti a far diventare postmoderna anche una scrittrice
come Grace Paley.
In Italia, con mirabile ferocia, si
inventarono i post-minimalisti, dotandoli di una missione
segreta: insinuare tra gli amanti del realismo l'idea sovversiva
che anche Raymond Carver, gratta gratta, fosse uno dei nostri,
un autoriflessivo. Erano idiosincrasie, certo, ma di queste
alcune si rivelarono fruttuose per riflettere sulla direzione che
la letteratura stava prendendo. Ricordo la grandiosa frase di
John Barth, quando lo intervistai a Bologna: scriveva - mi disse
- come se il Finnegans Wake di Joyce fosse stato
pubblicato; gli andava bene, insomma, credere che un libro con
quel titolo fosse effettivamente stato stampato, mentre a molti
scrittori contemporanei andava bene credere che non lo fosse mai
stato. Barth stava percorrendo, con quella frase su Joyce, una
delle idee centrali di quel gruppo postmoderno (gruppo in cui
nessuno di loro si riconosceva): non esiste una realtà
precedente o superiore alle apparenze; della realtà
esistono soltanto versioni diverse o addirittura opposte,
apparenze alle quali è meglio adeguarsi senza andare alla
ricerca di improbabili origini. In L'incanto del lotto 49
di Pynchon, a partire da quell'assunto, l'edipico detective
scopre che di un certo libro esistono versioni leggermente
diverse ma non una prima edizione. La critica al determinismo e
alla causalità che regnavano nel romanzo americano
tradizionale - il romanzo che faceva sociologia della middle
class - produssero, tra l'altro, anche alcuni mostri: gli
studiosi di letteratura tentavano di leggere René Thom e
Ilya Prigogine, e citavano le strutture dissipative come fossero
paragrafi in via di estinzione; si straparlava di quantistica, e
nelle università spuntavano strani corsi di "physics
and poetry"; tra gli studenti vigeva un godimento idiota per
il relativismo assoluto che credevano di cogliere negli scritti
di Popper sulle nuvole. Giocando al confine tra finzione e
realtà, ed avendone - in quanto romanzieri - più
diritto di altri, i postmoderni produssero grandiose parodie:
così Robert Coover, che aveva fatto di Nixon un eroe del
suo capolavoro Il rogo pubblico (mai tradotto in
italiano), alla morte dell'ex presidente scrisse su un quotidiano
il coccodrillo per quell'uomo che aveva preso il nome da uno dei
suoi personaggi. Altri postmoderni, meno inclini al lato
comico dell'ironia, produssero testi più cerebrali.
Cerebrale, ad esempio, è di nome e di fatto Plus di
Joseph McElroy, pubblicato nell'ottobre scorso da Bollati
Boringhieri nella versione di Salvatore Proietti. E' la storia di
un cervello appartenente a un ingegnere giunto alla fase
terminale della malattia; costui acconsente a che la massa di
materia grigia venga staccata dal corpo, chiusa in una capsula
spaziale e utilizzata per un esperimento scientifico. L'idea di
un cervello separato dal corpo, dunque di una letteratura scissa
dall'anima, è una delle critiche più frequenti che
il postmoderno abbia incassato: vedete, si diceva, questi romanzi
non hanno anima né corpo, sono masturbazioni cerebrali
prive di un qualsiasi valore morale. Era questa l'idea attorno
a cui ruotava il pensiero di Gardner nella controversia con
William Gass. I postmoderni, in genere, trattavano queste
critiche alla stregua di tentate imposizioni di un'ala
fondamentalista della letteratura votata al realismo. E le
ignoravano, non degnandosi nella maggior parte dei casi di
rispondere alle accuse. Il loro modo di replicare consisteva nel
produrre testi che costringessero i lettori a sforzarsi, a
faticare, a pensare all'atto della lettura come a un esercizio di
ginnastica mentale. Ecco l'etica: mobilitare il cervello e dunque
la capacità di discernere. Non era un discorso facile
allora e lo sarebbe ancora di meno adesso, che il potere
soporifero della televisione produce forme di profondo fastidio
verso ogni costrutto mentale.
Il romanzo postmoderno è
un genere alto: è vero che utilizza forme basse,
ma lo fa dall'alto; se si prediligono le forme basse utilizzate
dal basso ci sono sempre le flatulenze di Bukowski, infinitamente
meno interessanti. Un esempio lampante di basso utilizzato
dall'alto è il romanzo sul baseball di Robert
Coover, che uscirà la prossima settimana per Fanucci con
il titolo Il gioco di Henry, nella traduzione di Gino
Scatasta (ne parliamo nell'altro articolo di questa pagina).
Niente di più americano del baseball - ricordate, nella
tradizione dei rapporti tra la letteratura americana e questo
sport, l'inizio di Underworld di DeLillo? E sapete che il
famoso scienziato Stephen Jay Gould scrive regolarmente di
baseball? Coover, da buon postmoderno, non si occupa
propriamente di baseball ma delle regole del gioco, delle
statistiche, di campionati immaginari. Se fosse stato francese,
avrebbe potuto forse scrivere uno dei romanzi di Perec. Il
gioco di Henry riassume tutti i meriti e poche delle
idiosincrasie del postmoderno: nonostante qualche concessione
allo sfoggio verbale è intelligente, perfettamente
costruito e ossessionato dal desiderio di costringere il lettore
a usare il cervello. Un recensore americano scrisse a suo tempo
che questo romanzo ha con il baseball lo stesso rapporto che Moby
Dick ha con la pesca. Leggendolo adesso, insieme a Plus di
McElroy, si coglie meglio la dimensione etica del postmoderno; se
solo avessero concesso qualcosa di più ai lettori, questi
scrittori straordinari avrebbero ottenuto una meritatissima
visibilità nel panorama letterario internazionale. Invece,
nella sua volontaria invisibilità - e sprattutto grazie ad
essa - soltanto Thomas Pynchon, di tutti loro, ha ottenuto le
dovute attenzioni.
|