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ROSALIA GARBO

LA PELLE DEL SERPENTE


Proprio al centro del Pacifico, dritto sul Tropico del Cancro, c’è un piccolo arcipelago di piccole isole, abitato da poche tribù d’indigeni. Sono tutte abitate, tranne una, quella estrema, verso ovest, lì dove un sole grande e rosso, come di fuoco, si tuffa nell’oceano ad ogni tramonto, portandosi via il canto degli uccelli, il chiocciare delle donne e le grida dei bambini. Soltanto al tramonto, quando la sua sagoma nera si staglia contro il rosso del sole, l’isola è visibile, per il resto della giornata rimane nascosta dalla foschia, che si dirada soltanto a sera. Forse è per questo che è tabù, perché appare e scompare come la misteriosa luna, o forse perché la sua sagoma ricorda quella di un immenso serpente di mare acciambellato sulle acque.

Spirito del Delfino abitava nella più grande isola dell’arcipelago, dove si era trasferito quando era stato eletto ambasciatore della sua tribù presso il Re. Il suo nome gli era stato dato da ragazzo, quando, ammesso al Consiglio dei Guerrieri, il Consiglio degli Anziani aveva convenuto che quella era la sua natura, quella del Delfino che esplora tutto l’oceano per accrescere la sua conoscenza e che è curioso di tutto e che non ha timore di nulla. Si usa ancora così in quelle isole: quando i ragazzi sono ancora fanciulli, prima che i maschi entrino a far parte del Consiglio dei Guerrieri e le femmine di quello delle donne, essi sono noti con il nome del proprio padre e della propria madre. È il Consiglio degli Anziani, dopo averli osservati per tutta la loro infanzia ed aver parlato a lungo di loro con i loro genitori intorno al fuoco, a deciderne il nome, una volta che entrano a far parte del mondo degli adulti.

La sua isola natia era la più piccola dell’arcipelago, quella più ad est, là dove sorge il sole. Spirito del Delfino non aveva mai visto così da vicino l’isola del serpente, come quando aveva passato la sua prima notte sull’isola del Re. Quella prima notte ne fu affascinato e rimase a guardarla estatico fino a quando non scomparve insieme al sole. Si soffermò sulla spiaggia ancora per qualche istante quando quella scomparve, fino a quando la voce autoritaria e paterna di un anziano del Consiglio, quello che lo aveva accompagnato al cospetto del Re, non lo distrasse: «Non guardare quell’isola a lungo - lo apostrofò alle spalle - potrebbe stregarti.» Ma ormai il danno era fatto.

Per tre lunghi anni Spirito del Delfino non pensò più all’isola, se non occasionalmente, quando, tornando tardi dalla pesca, a sera, il suo sguardo si posava fugacemente sui suoi contorni netti contro il sole al tramonto: non riusciva a comprendere perché non la si potesse guardare, essa gli ispirava un gran senso di pace, con quel suo aspetto sornione da serpente addormentato. Comunque, un tabù è un tabù e non è bene dubitare della saggezza degli antichi, ché, se sentenziano qualcosa, hanno certo i loro buoni motivi.


Non vi so dire come accadde, non si può dire che Spirito del Delfino fosse triste o infelice, o che alla sua vita mancasse qualcosa, ma più il tempo passava, e più egli si sentiva attratto dal mondo di fuori, quello segreto e nascosto che stava di là dell’orizzonte. E prese a fantasticare su di esso a sera, davanti al fuoco, spingendo lo sguardo al di là del cielo notturno, come se si potesse vedere oltre la notte. E l’isola iniziò ad accarezzare il suo spirito da esploratore.

Fu così che un giorno, un infausto giorno che la pesca era eccezionalmente scarsa e che la necessità fa virtù, o, semplicemente, diventa complice dei nostri desideri nascosti, si spinse con la canoa più lontano del solito, lì, verso ovest, che il sole era già basso sull’orizzonte. Calò le nasse, attese con pazienza, le ritrasse e le trovò piene d’ogni benedizione, tanto che fece fatica ad issarle sull’imbarcazione. Quando, finalmente, liberati i pesci dalle trappole, con il gesto consueto, fece per tergersi il sudore con il dorso della mano, il suo sguardo si posò sull’isola del serpente che gli stava davanti più vicina che mai.

Rimase a fissarla quasi senza respiro ed un sentimento di profonda pace ed armonia, appena velato da un alone di mistero, dilagò per tutto il suo corpo, quasi come un anestetico. La morbida carezza del mare sulla sabbia rosata dalla luce del tramonto, il mormorio della risacca fra gli scogli, che richiama le risatine sommesse delle fanciulle quando si scambiano qualche confidenza amorosa, il fruscio delle palme alla fresca brezza serale, davano al silenzio la sua immagine più quieta. Per qualche attimo Spirito del Delfino si sentì proiettato fuori della realtà e da se stesso, come se la sua anima lo avesse lasciato per raggiungere un paradiso perduto; qualche attimo di troppo, dopo il quale dovette richiamare violentemente l’anima a sé per riacquistare il controllo della sua ragione. Rientrare in se stesso fu come ricevere un pugno nello stomaco, ma non aveva il tempo di soffermarsi su quella sensazione, perché la corrente aveva fatto arenare la canoa a pochi metri dalla riva e l’oscurità della sera che avanzava non gli permetteva di esplorare il fondale per cercare di liberarsi da quell’impiccio. Prese allora un remo e l’usò come una sonda: tutto attorno soltanto sabbia ed acque basse. Fece allora per remare verso il largo per riconquistare il mare aperto, ma la bassa marea non gli consentiva di spostarsi e, nel giro di pochi istanti, si ritrovò completamente all’asciutto e quasi al buio, se non fosse stato per la pallida luce di un pietoso spicchio di luna nascente. Non restava altro da fare che trascinare la canoa in prossimità di qualche robusto tronco per assicurarla ad esso e cercare un rifugio per la notte.

Ultimata la prima operazione, il giovane si sedette sulla spiaggia con lo sguardo perso nel buio: al sorgere del sole avrebbe fatto ritorno a casa e nessuno si sarebbe accorto di nulla. Meglio non raccontare della sua disavventura, meglio non dire che la sua canoa si era arenata proprio sull’isola del serpente, ché la cosa avrebbe messo lo scompiglio in tutto l’arcipelago.

Si alzò di scatto, volse le spalle al mare e si guardò attorno. L’isola era sempre la stessa, l’agitazione della sua anima non aveva intaccato la quiete di quei luoghi, che, anzi, lo riconciliarono con se stesso, facendolo sentire parte di quel paradiso, come se avesse vissuto lì da sempre. Strana sensazione davvero: era cosciente del suo passato e del suo presente, ma, allo stesso tempo, era come se un altro passato ed un altro presente gli appartenessero ugualmente, un altro passato senza ricordi, di cui si ha la percezione, ma che non si riesce a catturare in immagini o suoni, forse un odore, sì, un odore dolciastro e speziato, tiepido ed umido si direbbe, e certamente familiare.


Il giorno appresso si svegliò ai primi albori, si sollevò dal fondo della canoa dove aveva dormito, coperto dalla foglie che aveva strappate ad una palma. Si stirò, sbadigliò, si passò le mani fra i capelli e si guardò intorno ancora un po’ intontito dal sonno. Il pesce era ancora lì, ripulito e avvolto dalle foglie che erano servite per affumicarlo la sera prima, la marea era salita e adesso l’acqua lambiva appena la prua della canoa, la linea dell’orizzonte era resa irregolare dalle sagome delle isole dell’arcipelago che sembravano più vicine di quanto non apparisse l’isola del serpente, vista dall’arcipelago.

Spirito del Delfino si stirò ancora una volta, sbadigliò e si ripassò le mani fra i capelli. Aveva dormito bene, meglio, gli sembrò, di quanto non avesse mai fatto fino ad allora ed una piacevole sensazione di vitalità lo faceva sentire in pace con se stesso e con il mondo: aveva fame. Inspirò profondamente e ad occhi chiusi, annusò l’aria e risentì quel profumo dolciastro e speziato che lo aveva cullato per tutta la notte: «Fame, fame, fame!» urlò ed il cuore gli si riempi di una ingiustificata e quanto mai gradita contentezza.

Scese dalla canoa d’un balzo e si rese conto che il profumo che sentiva proveniva dalle grandi corolle bianche e carnose di un tappeto di fiori, che copriva tutta la spiaggia. Avrebbe giurato che non c’erano la sera prima. Fece spallucce e, destreggiandosi fra i rami, i fiori e le foglie, raggiunse il palmeto poco distante.

Ai piedi di una palma, in bella mostra su di un vassoio di foglie, ogni sorta di frutti e bevande sembravano essere state messe lì di proposito, adornate com’erano come si fa per i doni che si presentano al Sole, durante le cerimonie. Il giovane si guardò attorno, circospetto, tese l’orecchio per carpire il più piccolo fruscio che non appartenesse all’isola. Niente, il silenzio era assolutamente naturale, non tradiva la presenza di nulla che non fosse lì da sempre, come le rocce e le palme e gli uccelli.

Spirito del Delfino ispezionò il vassoio traboccante, adorno di ghirlande di fiori sapientemente intrecciati con le foglie di palma e di conchiglie rare e preziose che si trovavano soltanto in quelle profondità del mare che in pochi sanno raggiungere. Era proprio bello ed invitante ed il giovane, affamato, non resistette all’invito. Si sedette dunque e iniziò a piluccare qua e là, prima con cautela, poi con appetito, infine con voluttà. La polpa carnosa e succosa dei frutti, maturi al punto giusto, avrebbe sodisfatto i palati più raffinati ed alle fresche bevande si attingeva più per piacere che per sete. “Poco male se sono avvelenate - pensò - se devo morire, questo è il modo più dolce per farlo.” Sapeva però che non sarebbe morto, lo sentiva nel profondo del suo cuore: chiunque avesse preparato quel banchetto si era certamente accorto della sua presenza ed avrebbe potuto ucciderlo nel sonno, se avesse voluto.

Appena fu sazio, ringraziò la sua buona sorte, e, in cuor suo, anche la mano premurosa che lo aveva rifocillato. Si avviò a passo svelto verso la canoa e prese il largo, non senza aver dato un ultimo sguardo di commiato al misterioso ospite che sperò di intravedere sulla spiaggia, almeno in lontananza.


Al suo rientro si precipitò alla sua casa. Nessuno si era accorto della sua prolungata assenza tanto più che era solito allontanarsi in canoa prima che il villaggio si destasse. Mise i pesci nella dispensa, si avviò verso la casa comune e, più gioviale e vigoroso del solito, prese a lavorare insieme agli altri, scherzando e lanciando battute ben assestate con la sua solita ironia e sagacia. Non fece cenno però alla giornata precedente e, a quanti gli chiedevano della pesca del giorno prima, rispondeva evasivamente «Non mi posso lamentare.», senza scendere nei particolari a cui era solito abbandonarsi. Neppure quando gli altri giovani fecero le loro considerazioni sull’insolita scarsezza del pescato e sull’eventualità che il Mare fosse inquieto per un qualche sconosciuto motivo e che forse sarebbe stato il caso di propiziarselo con qualche cerimonia - quando si era fatta l’ultima festa in onore del Mare? - e che forse era il caso di sentire i Consigli degli Anziani dell’arcipelago in proposito, neppure allora si pronunziò. Non disse che verso l’isola del serpente il pesce era abbondante, tanto che, in poco tempo, si riempivano le nasse fino a traboccare di ogni sorta di benedizione e che vi si trovavano le conchiglie più belle che si fossero mai viste in tutto l’arcipelago.


Passò un giorno ed un altro ancora, e poi una intera settimana. Il pesce continuava a scarseggiare ed il Gran Consiglio, sentito il parere dei Consigli degli Anziani delle isole, decise che era il caso di propiziarsi il Mare con una grande festa in suo onore. Il Gran Consiglio delle Donne si fece carico di organizzare la cerimonia, mentre i giovani furono incaricati della raccolta e della pesca. C’era lavoro per tutti in una simile occasione e su tutte le isole fervevano i preparativi per la grande festa in onore del Mare.

Per tutta quella settimana Spirito del Delfino aveva partecipato alle battute di pesca comuni: quando il cibo scarseggia nell’arcipelago, tutti partecipano al sostentamento della collettività e la collettività si trasforma in una grande famiglia che mette in comune quel che ciascuno riesce a trovare. Per tutta la settimana non aveva fatto altro che pensare a tutto il pesce che avrebbe potuto pescare nelle acque dell’isola del serpente e a come avrebbe potuto fare per allontanarsi, senza dare nell’occhio, e raggiungere tutta quella grazia del Mare. Le notti erano interminabili tormenti: sognava del vassoio con la frutta fragrante e dei fiori dalle bianche corolle carnose e del loro profumo inebriante, della pace e del silenzio di quei luoghi e di una fanciulla, una fanciulla dagli occhi profondi, neri come le perle più rare, e dal sorriso accattivante. La maggior parte della notte la trascorreva passeggiando inquieto, chiedendosi chi fosse la donna dei suoi sogni e dove mai l’avesse vista. Aveva paura, di notte, ed il pensiero che forse quell’isola lo aveva veramente stregato lo perseguitava.


Ma quando il Gran Consiglio stabilì che doveva farsi la cerimonia in onore del Mare, le circostanze, come spesso accade, presero il sopravvento ed il tempo decise da sé ciò che sarebbe accaduto: gli eventi, a volte, si intrecciano in modo tale che non si può non pensare che ci sia una volontà superiore che decide per noi, che noi ci limitiamo ad assecondare senza sapere perché, come se stessimo guardando, dal di fuori, la vita di qualcun altro e, pur prevedendo con estrema lucidità ciò che accadrà, ci lasciamo andare a ciò che apparirà, nel ricordo, come l’inesorabile.

Era prevedibile, infatti, che, nel fervore dei preparativi, nessuno avrebbe fatto caso all’assenza, più o meno prolungata, di chicchessia. Come un automa che esegue il compito che gli è stato assegnato, Spirito del Delfino prese il largo quella stessa mattina e remò alla volta dell’isola del serpente con la precisa intenzione di svelarne i misteri.


Calò le nasse nel mare antistante la piccola spiaggia dove era approdato quella famosa notte e le issò, ancora una volta, traboccanti di ogni benedizione, tirò la canoa in secco e si accinse a preparare un banchetto degno del Sole. Quando tutto fu pronto, si sedette ad una certa distanza ed attese. Nessuno venne a consumare il pasto preparato con tanta cura ed il giovane decise di esplorare l’isola, armato della sua fiocina da pescatore e del suo coraggio da guerriero.

Inoltratosi nella foresta, perlustrò l’intrigo di palme, liane e felci, si inerpicò su per il dorso del costone roccioso che percorreva tutta l’isola e ridiscese per il suo pendio aspro e scosceso, dalla parte opposta dell’arcipelago. Non incontrò anima viva, ne’ spirito ne’ demone, soltanto lo accompagnarono lo starnazzare degli ara e di ogni sorta di uccelli, lo strisciare dei serpenti ed il fruscio delle foglie al suo passaggio.

Superata la fitta vegetazione, gli si aprì dinanzi una vasta radura al cui centro troneggiava un laghetto vulcanico, perfettamente circolare, dalle acque di un verde bluastro che riflettevano la luce del sole in mille barbagli dorati, che si inseguivano sulla sua superficie appena increspata da una brezza leggera. Sulla sponda opposta del laghetto, sorgeva un tempietto di pietra del colore dell’ambra, ornato di statue raffiguranti il Serpente. «Questo giustifica il nome dell’isola.» pensò Spirito del Delfino, mentre costeggiava la riva del lago per raggiungere il tempio.

Quando fu dentro, rimase accecato dalla penombra e non fu in grado di muoversi per qualche istante. Riuscì a fare qualche passo a tentoni, intravedendo prima il taglio netto della pareti, illuminate della fioca luce riflessa dal lago, e poi, una volta addentratosi al suo interno, l’abside del tempio, catturato in un istante di eterna immobilità dal sole che penetrava da un piccolo buco circolare, praticato al centro della cupola, dritto sopra un trono, maestoso, nella semplicità della pietra ben squadrata.

Appena i suoi occhi si abituarono all’oscurità, poté apprezzare la bellezza statica e silenziosa di quel luogo, il suo colonnato sormontato da archi a sesto acuto, assolutamente inusuali per le competenze architettoniche della sua gente, la cupola, il trono, il pozzo profondo al centro del tempio, che dava la sensazione di essere al centro della terra e dell’intero universo, come se tutto il creato ruotasse attorno a lui, perfino il Sole e la Luna e il Mare e i pesci della laguna.

Ebbe la sensazione di aver turbato la sacralità di un luogo, per la prima volta si sentì estraneo all’isola, come un profanatore di tombe o un visitatore inatteso.

Nel silenzio, uno sciabordare d’acqua attrasse il suo sguardo verso il pozzo, giusto in tempo per vederne guizzar fuori la testa liscia e lucida di un serpente. Non era un gigantesco serpente, di quelli di cui si racconta nelle leggende dei popoli del mare, non aveva gli occhi rossi e saettanti e la sua schiena non era percorsa dalle placche acuminate di una cresta minacciosa, era piuttosto un’elegante e sinuosa sagoma che ondeggiava lentamente, ritto sulle sue spire, e lo guardava con i suoi occhi neri e penetranti.

I due si fissarono a lungo, senza paura o stupore, senza chiedersi nulla l’uno dell’altro, immobili, a meno del lento ondeggiare del serpente.

«Perché mi hai attirato qui?» chiese infine Spirito del Delfino, senza nessuna certezza sulla possibilità di ottenere una risposta,

«Non ho fatto nulla di simile. - rispose il serpente, e la sua voce era morbida e calda come quella delle sirene - Io non ti ho invitato, non so neppure chi tu sia.»

«Sono Spirito del Delfino e vivo nell’arcipelago, là dove il sole sorge. Qualche tempo fa la mia canoa si è arenata su quest’isola e tu hai fatto in modo, con la tua magia, che io vi tornassi. Mi hai dato da mangiare frutti stregati e mi hai tormentato nel sonno, finché non mi hai costretto a tornare.»

«Non ti comprendo. Sì, ti sei arenato sulla mia isola ed io ti ho accolto come si fa con l’ospite, scegliendo per te i frutti più saporiti del mio giardino ed i nettari migliori, ti ho lasciato pescare il mio pesce e ti ho regalato le mie più belle conchiglie, ma non ho fatto nessun sortilegio per costringerti a tornare.»

«Che forza mi ha allora condotto fino a te?»

«Non chiederlo a me, chiedilo a te stesso.»

Fu allora che Spirito del Delfino si rese conto che il serpente parlava. Non aveva paura, però. Per quanto i suoi pensieri fossero terribili, per quanto pensasse di essere vittima di una malia, questa circostanza non lo turbava punto.

«Come vuoi che io ti creda, come posso credere che un serpente che parla con la voce delle sirene non sia uno spirito maligno che vuol prendersi la mia anima?»

Il serpente non rispose, un velo di tristezza calò sul suo sguardo, abbassò la testa e scivolò nel pozzo. Invano il giovane cercò di richiamarlo, sporgendosi dal suo calice, quello non ricomparve. Spirito del Delfino si scoprì mortificato dalla netta sensazione di aver offeso il suo ospite. Si guardò intorno ancora un po’, si sedette per qualche momento sull’orlo del pozzo tirandovi dentro qualche foglia e del pietrisco che aveva raccolto da terra, poi si allontanò con passo lento e malinconico.


Il suo ritorno sull’isola fu accolto con grande gioia, soprattutto per la quantità di pesce che aveva portato. Quell’abbondanza fu considerata come un segno dal Mare che manifestava così la sua approvazione verso la cerimonia in suo onore. Nessuno gli chiese dove avesse calato le nasse e Spirito del Delfino fu ben felice di non dover raccontare una bugia. Ma il giorno appresso la pesca fu nuovamente scarsa e l’entusiasmo del giorno prima scemò ben presto per lasciare il posto all’inquietudine per il futuro. Il giovane però era ben deciso a non tornare all’isola per mostrare a se stesso di essere più forte di qualsiasi incantesimo: il serpente con la voce di sirena non lo avrebbe più attratto nel suo tempio.


Non passò un giorno, che Spirito del Delfino era di nuovo sulla sua canoa con le sue nasse, diretto verso il sole che calava all’orizzonte. «Devo pur scusarmi per essere stato scortese. - si giustificava con se stesso - Ci vado questa volta e poi non ci torno più.»

Quando fu sull’isola, ripercorse la stessa strada senza nessuna esitazione, ben sapendo dove andava e cosa avrebbe trovato. Non altrettanto certo era però del fatto che il suo ospite, il serpente, sarebbe stato lì ad attenderlo. Giunto vicino al bordo del pozzo, si sedette a terra ed attese. Non passò molto tempo che sentì il flebile sciabordare dell’acqua al suo interno e, di lì a poco, la testa del serpente fece capolino dall’orlo del pozzo:

“Perché sei tornato?” chiese quello seccamente,

“Per chiederti scusa. - rispose l’altro con un tremito nella voce - Credo di averti offeso, non so come, ma so di averti offeso.”

“Non ha importanza, - ribatté il serpente - non avevo ragione di offendermi, un uomo non può capire, non potevi sapere.”

Cosa non posso sapere, cosa non posso capire?”

“ Nulla, nulla. Come va la pesca all’arcipelago?”

“Male. Il Mare è adirato e non ci fa dono del suo pesce.”

“È a causa nostra, tua e mia: tua perché hai posato gli occhi sull’isola e mia perché ti ho accolto come un Dio.”

“ L’isola appartiene al Mare?”

“ No, l’isola appartiene a me, ma io appartengo al Mare. Il Mare non può impedirmi di elargire i doni dell’isola, ma può vendicarsi su di me se gli disobbedisco.”

“In cosa lo hai contrariato?”

“Nel permetterti di raggiungermi.”

“Chi sei tu?”

“Vuoi che il pesce ritorni all’arcipelago?” domandò quello, cambiando discorso,

“Certamente, la mia gente ne ha bisogno.”

“Allora prendi la mia pelle e portala all’arcipelago, il pesce la seguirà!”

Un lungo istante di silenzio, senza respiro, interruppe il dialogo: come avrebbe potuto Spirito del Delfino prendere la pelle del serpente senza ucciderlo? E mentre quello rimaneva attonito e interdetto a fissare il serpente, l’altro prese a contorcersi in una danza sinuosa sotto i raggi della luna che penetravano dalla cupola e che avevano acquistato una intensità luminosa inusitata ed un irreale colore bluastro. Come un bruco che esce con difficoltà e non senza dolore dalla sua crisalide per emergere farfalla, ansimante e madida di sudore, la pelle del serpente, dapprima indistinta, poi dai contorni più netti e decisi, lasciò il posto ad una figura di donna.

Era di una bellezza che lasciava senza parole: i suoi occhi, neri come le perle più rare, erano profondi e accattivanti, tanto che si rimaneva intrappolati dal suo sguardo, la sua pelle scura e vellutata, sembrava aver rubato alla luna piena il riflesso dell’ambra e le sue forme perfette avevano l’eleganza di una regina; era come se l’universo intero le avesse regalato il meglio di ogni cosa, di ogni animale, di ogni fiore che sta nel mare o sulla terra o nel cielo. Ai suoi piedi, lucida e brillante come un prezioso gioiello, la pelle del serpente riluceva dei mille bagliori delle pietre più preziose.

Spirito del Delfino era pietrificato dallo stupore e non riusciva a proferir parola, di nuovo provò la sensazione che la sua anima lo avesse abbandonato per raggiungere quello che appariva come il suo luogo naturale, il paradiso perduto che la aveva richiamata quando, per la prima volta, il giovane si era travato ad un braccio di mare dall’isola. Era lei, la fanciulla che aveva turbato i suoi sogni nelle sue interminabili notti.

“Il Mare non ti punirà per questo? - chiese il giovane appena si fu un po’ ripreso - Perché fai questo per me?”

“Lo faccio perché non posso farne a meno, è più forte di me. Da quando ti ho visto per la prima volta sulla mia isola, non mi sei più uscito dalla mente, ho apprezzato la tua allegria, il tuo sorriso, la tua agilità, il tuo coraggio. So benissimo cosa si dice dell’isola all’arcipelago e non avrei mai creduto che qualcuno potesse avvicinarsi a lei come hai fatto tu, né sei fuggito davanti al serpente, non hai tremato nel buio del tempio. Ho anche apprezzato la tua generosità nell’esporre te stesso per aiutare il tuo popolo e la tua cortesia nei miei riguardi, quando sei tornato per scusarti d’avermi offesa. Così non posso non rispondere ai tuoi bisogni, se posso farlo, anche a rischio di me stessa.”

Forse fu la bellezza della ragazza, forse le sue parole, o forse soltanto la musicalità suadente della sua voce, Spirito del Delfino non poté fare a meno di prenderla fra le braccia e baciarla con tutta l’ansia e il trasporto della sua giovinezza. Quella lo guardò confusa, con l’espressione del cerbiatto sorpreso nel suo nascondiglio dal cacciatore e sgusciò via, senza un fiato, dentro il pozzo, lasciando il ragazzo con la sua passione ad infuocargli il volto.

Il giovane raccolse la pelle del serpente e, ancora intontito da quanto era accaduto, si avviò, con passo incerto, verso l’uscita.


Giunse all’arcipelago senza neppure accorgersene e si riebbe dal suo torpore soltanto quando i compagni lo travolsero, eccitati dalla concitazione della festa che stava per iniziare.

“Ma da dove vieni? - gli chiesero; e poi, senza curarsi dell’annaspare del ragazzo dietro ad una plausibile risposta, - Presto, metti la canoa in mare che la cerimonia sta per iniziare!”

Il rullare dei tamburi, i canti delle donne, le grida festose dei bambini, le urla dei guerrieri, il fumo delle torce, i profumi inebrianti delle ghirlande, gettate in mare per propiziarselo, gli provocarono uno stato d’ebbrezza che gli fece girar la testa e quasi perse i sensi quando, recuperate le nasse traboccanti di ogni sorta di pesci, l’eccitazione generale raggiunse il suo culmine, trasformando i suoni in un immenso frastuono.


Rientrato alla sua casa all’alba, barcollante, tirò fuori la pelle che la fanciulla gli aveva donato. La guardò, era più splendente che mai; l’accarezzò dolcemente e l’avvicinò alle labbra, socchiudendo gli occhi, sperando forse di ritrovarvi il profumo morbido e umido delle labbra di lei, della sua pelle di velluto. Rimase così per un istante che, per la prima volta, ebbe il sapore dell’eternità, quindi ripose la pelle con cautela in un posto sicuro, dove nessuno avrebbe potuto trovarla, neppure per errore. Si distese sull'amaca e si addormentò.


Dormì, come tutti del resto, all’arcipelago, fino a tarda mattina, si recò alla casa comune ed ascoltò distrattamente il racconto, ancora impastato dal sonno, della cerimonia del giorno prima e di come il Mare avesse mostrato il suo apprezzamento, colmando le nasse di ogni benedizione. Ma Spirito del Delfino sapeva a cosa era dovuta tutta quell’abbondanza ed il pensiero che il Mare potesse punire la fanciulla lo rendeva inquieto. Così, appena ebbe modo di allontanarsi non visto, partì alla volta dell’isola in tutta fretta, con il cuore colmo d’angoscia. Approdato che vi fu, raggiunse rapidamente il tempio, ricadendo pesantemente, carponi e ansimante, presso il basamento del pozzo. Gli sembrò un’eternità il poco tempo trascorso fra il suo arrivo e l’ormai familiare sciabordare dell’acqua, che annunciava l’arrivo dell’oggetto dei suoi desideri. Quanto imponderabile è il tempo: quanto fugace può apparire un giorno, se trascorso piacevolmente, e quanto lungo l’istante che ci separa dalle cose amate. Emerse, comunque, la fanciulla dal pozzo e si sedette sul bordo. Lo guardava, e quel suo sguardo lo tocco così intimamente che se ne sentì quasi imbarazzato.

“Avevo paura per te. - esordì il giovane appena ebbe ripreso fiato - Va tutto bene?”

“Non so. - rispose quella - Se ti riferisci al Mare, non si è ancora accorto di nulla, credo, ma non so cosa stia accadendo a me: sono … immensamente felice di vederti, mi sei mancato. Sento una profonda sofferenza quando non ci sei, come se ti portassi via la mia stessa vita. E mi scopro ad attenderti, contando le ore ed i minuti. Eppure mi dà tanta gioia il vederti, perché mai provo questo dolore?”

“Come ti chiami?”, chiese il giovane, accarezzandole il volto,

“Yin Yan Ko, Essenza dell’Universo, sì, credo che si debba dire così nel linguaggio degli uomini.”


Da quel giorno, Spirito del Delfino prese ad andare ogni notte all’isola per incontrare Yin Yan Ko e da ella ricevette tutto ciò che un uomo può desiderare ed anche quello che non ha mai osato sperare. Ed il pesce, all’arcipelago, continuava a riempire le nasse, fino a farle traboccare, tanto che si perse l’uso di conservarlo perché ce n’era in abbondanza, più di quanto ne servisse. Ogni mattina, all’alba, quando il giovane tornava alla sua casa, andava a prendere la pelle del serpente e la trovava sempre rilucente dei colori di tutte le gemme più preziose.


Con il tempo però, come sempre accade quando non ci si deve più preoccupare né per l’oggi né per il domani, quando ciò che prima appariva come un dono inaspettato del Cielo, ora sembra un atto dovuto, perché siamo sazi di ciò che il fato, o il caso, ci ha donato senza chiedere nulla in cambio e proprio perché non ci ha chiesto nulla in cambio, il popolo dell’arcipelago dimenticò quanto aveva patito per riconquistare il suo benessere e Spirito del Delfino prese a disertare i suoi taciti appuntamenti con Yin Yan Ko. Questo semplicemente perché ogni altra cosa gli sembrava più urgente e più impellente da fare. Così, le sue fughe notturne all’isola si ridussero a due visite a settimana. Non che si fosse stancato di incontrare la fanciulla, no, semplicemente non aveva più la smania di raggiungerla e i giochi con gli amici, le riunioni del Consiglio dei Guerrieri, le battute di pesca, la sua vita di sempre, insomma, avevano ripreso la loro centralità, sicuro com’era di ritrovare Yin Yan Ko ad attenderlo tutte le volte che la avesse desiderata.

Non si accorse così di come lo sguardo di lei fosse ogni volta più triste e quanto il suo volto più scarno e di quanto il suo corpo si assottigliasse, prendendo sempre di più l’aspetto di quello del serpente.


E giunse il tempo in cui il Consiglio degli Anziani decise che Spirito del Delfino dovesse prender moglie. Gli fu destinata Sole Nascente, una fanciulla placida, ma determinata, estremamente positiva e razionale e ispirava serenità e fiducia, come una delle tante giornate di sole, come un’alba serena che promette sempre che il giorno che verrà sarà tranquillo come il precedente. Secondo gli Anziani, Sole Nascente avrebbe dato stabilità al carattere vagamente inquieto da esploratore del giovane e lo avrebbe avviato verso una maturità quieta e senza eccessi.

Quando gli fu comunicata la decisione del Consiglio, Spirito del Delfino si mostrò titubante, prese tempo. Normale reazione, si pensò, per uno spirito libero come il suo. Così gli fu prospettato il significato di quell’unione e quanto sarebbe stato vantaggioso per lui contrarre matrimonio con una donna di così alto lignaggio, come quella che gli era stata destinata: certo, quanto prima avrebbe fatto parte del Consiglio degli Anziani, sarebbe stato il più giovane fra gli ammessi ad un tale onore, e non poteva essere diversamente da così per il genero di uno dei più altolocati anziani del popolo dell’arcipelago.


Quella notte, Spirito del Delfino non riusciva a prendere sonno, l’amaca era improvvisamente diventata troppo scomoda, la temperatura troppo elevata, la risacca troppo chiassosa, il canto degli uccelli notturni troppo martellante, l’umido troppo… umido ed il vento troppo… vento! Pensava a Yin Yan Ko, che gli aveva rivelato i misteri più nascosti del cuore, che lo aveva cullato fra le braccia della tenerezza più avvolgente e lo che aveva guidato nelle profondità del piacere. Ma come avrebbe mai potuto presentarla alla sua gente come sua sposa? Cosa avrebbe detto di lei? Cosa, senza dover mentire o dover rivelare d’aver violato un tabù? Come giustificare se stesso? Forse sarebbe bastato ricordare il tempo della grande carestia e di come, grazie ad Yin Yan Ko, tutti vivevano adesso in un’era di grande prosperità. Già, ma cosa avrebbe fatto il Mare? Forse si sarebbe adirato se un misero mortale gli avesse tolto la sua pupilla e si sarebbe vendicato su tutti loro. E d’altra parte, cosa sarebbe mutato se avesse sposato Sole Nascente? Con qualche scusa, avrebbe sempre potuto trovare il tempo ed il modo di andare a trovare Yin Yan Ko e salvare capra e cavoli. E come rifiutare il grande onore che gli era stato concesso di essere ammesso ai più alti onori della corte del Re? Con quale animo avrebbe potuto derogare da una sentenza del Consiglio degli Anziani e prendere una moglie, diversa da quella che gli era stata destinata? Yin Yan Ko era ragionevole ed avrebbe capito.


Passeggiava in lungo ed in largo pensando queste cose, ora certo di aver trovato il giusto equilibrio fra il bene ed il male, ora angosciato e frastornato dal precipitare degli eventi: sapeva, infatti, che al sorgere del sole doveva presentarsi al Consiglio con l’una o l’altra delle due donne come sua sposa. E sarebbe stato meglio con l’una, piuttosto che con l’altra. La decisione, infondo, era stata presa dagli eventi.

Forse fu per caso, o forse per istinto, quell’indecifrabile miscuglio fra ragione e sentimento, fra intuizione ed esperienza che ci consente di prevedere, in uno stato di precoscienza, che non è inconscio, ma neppure, ancora, ragione, il risultato delle nostre azioni, che Spirito del Delfino cercò, istintivamente per l’appunto, la pelle del serpente. Il suo sguardo percorse velocemente ogni angolo della sua sacca, niente, preso da un’ansia frenetica, la cercò in tutti gli anfratti più nascosti, là dove avrebbe potuto occultarla agli occhi indiscreti di amici e parenti, niente, era scomparsa, volatilizzata, evaporata, come l’acqua del mare nelle pozze, quando il sole picchia forte a mezzogiorno.

Senza pensare, corse alla spiaggia, spinse la canoa in mare e remò con foga verso l’isola. La trovò immersa in un silenzio surreale, la vita sembrava essersi fermata, senza respiro. Si aveva la sensazione di essere entrati in un dipinto, o che tutto il paesaggio circostante fosse di pietra. Per la prima volta, Spirito del Delfino ebbe paura. Corse a precipizio verso il tempio, non curante dei rami che gli sferzavano il volto ed il petto, ferendolo senza pietà. Lo raggiunse, finalmente, e vi entrò, senza frenare la sua corsa forsennata se non, in extremis, contro il parapetto del pozzo e quasi impazzì dal dolore, riconoscendo, nella statua di pietra, adorna di gemme e d’oro, che faceva bella mostra di sé sul trono, Yin Yan Ko sotto forma di serpente.

Invano urlò il suo nome, sperando che quella si ridestasse dal suo sonno di pietra, si accasciò allora ai suoi piedi, in lacrime, singhiozzando come un fanciullo. Il suo pianto fu interrotto dalla beffarda allegrezza del tintinnare di un fiume di perle che sgorgava dagli occhi del serpente, che cessò di saltellargli attorno soltanto quando il serpente di pietra non si fu tutto sgretolato, come disciolto, nelle sue preziose lacrime.

Ci fu ancora un attimo di silenzio. È assordante il silenzio quando è così profondo come quello che si produsse in quel tempio: è assordante il silenzio che precede la catastrofe e, se pure dura pochi istanti, si ha tutto il tempo di apprezzarne il significato profondo.

Così, Spirito del Delfino non si stupì quando il silenzio fu interrotto da un boato, prima ovattato, poi, in un crescendo, sempre più prorompente, fino ad assumere i connotati dell’esplosione. In un attimo, l’isola fu inghiottita dal Mare, che l’avvolse nei suoi flutti, inesorabile.


Proprio al centro dell’Atlantico, dritto sul Tropico del Capricorno, c’è un piccolo arcipelago di piccole isole, abitato da poche tribù d’indigeni. Sono tutte abitate, tranne una, quella estrema, verso est, lì dove un sole grande e pallido, come di ghiaccio, nasce dall’oceano ad ogni alba…


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