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ROSALIA GARBO

AMOR SACRO E AMOR PROFANO



Sprofondato nella sua poltrona preferita, davanti allo scrittoio, nella biblioteca della villa al lago, il conte Umberto Amedeo fissava il dipinto sulla parete che gli stava di fronte. Il soggetto del quadro era una rivisitazione, di sapore tardo ottocentesco, de “Amor sacro e Amor profano” di Tiziano, dipinta da suo padre, il conte Tullio Amedeo, il quale aveva una discreta mano.

Dell’originale, il dipinto conservava l’assetto scenico, con qualche variante nello sfondo e con una curiosa inversione delle figure femminili in primo piano: la Venere nuda era, infatti, sulla sinistra, nella posa della Venere Mondana. Di lei s’intuiva lo sguardo, profondo ed accattivante, che catturava l’attenzione e suscitava un inconfondibile turbamento. Sulla destra, la dama vestita sembrava più una Madonna Bizantina per la placida compostezza del suo volto e della persona. La prima poi, contrariamente alla seconda, non aveva nulla dell’abbondanza delle forme, caratteristica del Tiziano: quasi scavata in volto, se ne intravedeva la folta chioma bruna che le copriva a mala pena i piccoli seni tondeggianti, le gambe lunghe dalle caviglie sottili, sembravano tese allo scatto, come quelle di una gazzella all’erta, pronta a sfuggire da un probabile predatore.

Molto era lasciato alla memoria ed all’acutezza della vista, quella che il conte non aveva più, dal momento che la pittura si era tutta scrostata, lasciando soltanto, ben netto, il contorno delle forme e l’alone sbiadito del disegno. Non si era però persa la caratteristica del quadro, quella di concentrare l’attenzione di chi lo guardava sulla Venere nuda. Se, infatti, una volta, ella attirava lo sguardo per l’assoluta disomogeneità con il resto del dipinto, nel tratto e nel colore, adesso non poteva non saltare all’occhio per il fatto di essere, incomprensibilmente, l’unica parte del quadro ad essere danneggiata.


Il conte, immobile sulla sua poltrona, sembrava far parte dell’arredamento, in stile ‘400, austero e immerso nella penombra, dai toni scuri e pesanti. Le librerie ospitavano la più ricca e varia raccolta di testi dell’intero stato: la sua famiglia era annoverata fra le più antiche e nobili del regno e l’albero genealogico risaliva alle Crociate. Mecenati dei più grandi fra gli artisti d’ogni epoca ed essi stessi valenti pittori, musicisti, scrittori e scienziati - per diletto, ovviamente - vantavano una indiscutibilmente unica collezione di cimeli storici, in tutti i campi della cultura. Si poteva certamente affermare che le loro case conservavano la memoria di un intero popolo.

Il conte era immobile sulla sua poltrona e, perso nel quadro, era assorto nei ricordi. Era passato soltanto un anno dall’accaduto, un anno che aveva il sapore dell’eternità.



Incredibile a dirsi, ma il conte Umberto non aveva mai fatto caso alla Venere del quadro. Non che non l’avesse mai vista, ma l’aveva sempre guardata con indifferenza, preso com’era dalle mille e mille incombenze del suo ruolo di primogenito ed unico erede del titolo e delle investiture. Il bilancio familiare risentiva delle conseguenze dell’estro artistico di suo padre e, prima ancora, di suo nonno, la cui mania per il collezionismo non si accompagnava certo con il pallino per gli affari. A lui, più prudente ed accorto amministratore di quanto non lo fossero stati i suoi antenati, era stato affidato dal padre, con sollievo, il compito della salvaguardia del patrimonio. Il conte Tullio, dal canto suo, si era ben volentieri ritirato a vita privata proprio in quella villa al lago, incastonata nel verde di un magnifico giardino all’inglese, fra le sue tele, la sua musica ed i suoi libri, fra i suoi telescopi ed i suoi calcoli astronomici, la cui passione aveva condiviso con il padre, fino alla morte di lui.


Il conte Umberto gli faceva periodicamente visita, un po’ perché in fondo amava quel padre mansueto e sognatore, anche se più spesso gli rimproverava la sua assoluta mancanza di concretezza, ed un po’ per l’eterna necessità di fargli firmare deleghe e libri mastri. Ogni volta, il conte Tullio firmava senza leggere, con un mal celato senso di fastidio, e, puntualmente, veniva redarguito:

«Potrei farvi firmare la vostra stessa condanna a morte e voi non ve ne accorgereste. Ecco come abbiamo perso la metà del patrimonio, perché vi siete fidato di lestofanti e profittatori, senza mai controllare nulla. Datemi la sodisfazione, ogni tanto, non dico sempre, soltanto qualche volta, di leggere una carta e di chiedermene conto e, magari, fate le viste di essere compiaciuto di quel che faccio.»

Il conte Tullio gli lasciava sfogare il suo disappunto, guardandolo con un sorriso bonario, e concludeva sempre dicendogli:

«La mia opera meritoria nei confronti del patrimonio di famiglia l’ho fatta quando te l’ho affidato. Ammetterai che è stata la più accorta delle operazioni finanziarie compiuta da due generazioni di Biancavilla della Conca. Adesso posso dormire fra due guanciali di piume d’oca, sicuro che tutto ciò che è fatto è ben fatto.»

L’affermazione metteva fine a qualsiasi possibilità d’ulteriore discussione, e al conte Umberto non restava che poggiare la sua mano sulla spalla del padre, scuotendo la testa, disarmato da tanta innocente scaltrezza.



Era in queste occasioni, mentre il conte Tullio apponeva firma e sigillo sui documenti, che il suo sguardo si attardava sulla tela, eternamente in corso d’opera, come quella di Penelope, che stava sul cavalletto nello studio. L’odore penetrante di oli e vernici, la lucentezza della pittura fresca che scintillava sotto la luce del sole, la scatola dei colori aperta sullo sgabello, la tavolozza sempre satura di impasti indefinibili, avevano uno strano effetto sull’immaginazione: sembrava, infatti, che le immagini dipinte prendessero vita e si aveva la certezza di aver visto ora uno stormire di fronde ad un’improvvisa folata di vento, ora lo scatto di una lepre che si rintana fra le macchie di rovo. E avresti giurato poi che “Madonna Serafina”, come il conte Tullio chiamava la Venere Mondana, si era mossa: sì, il suo seno le si gonfiava con la regolarità del respiro ed aveva sbattuto le palpebre e le mani, le mani, un attimo prima, erano in un’altra posizione, avresti giurato.

Il conte Umberto rimaneva con gli occhi incollati al quadro, come quando era bambino, sperando di indovinare l’attimo di quei repentini mutamenti per coglierli sul fatto. Mai che accadesse, i suoi occhi guardavano sempre da un’altra parte: quando era concentrato sulla sinistra, ecco che intuiva un movimento sulla destra, ma quando, di scatto, li girava in quella direzione, quella parte del quadro appariva immobile, come paralizzata. “È come il gioco dei quattro cantoni.” Pensava fra sé, un po’ indispettito. Quella era una delle poche occasioni in cui la sua anima da sognatore, carattere ereditario di famiglia, riusciva a superare l’impenetrabile cortina della sua ragione, riportandolo indietro nel tempo, alla sua infanzia ed alla sua giovinezza, ai giochi con i cugini nella tenuta di campagna, quando era il tempo del raccolto e, come da tradizione secolare, ci si recava a rendere omaggio al lavoro dei contadini, alle battute di caccia, su per le montagne della riserva, per i boschi di quercia e castagno, che, se non si prendeva un coniglio, si tornava con le gerle traboccanti di funghi, profumati di terra umida e muffa.

«Quando la finirete questa vostra opera?»

chiedeva al padre quando riprendeva la razionalità di sempre,

«Non so. – era la risposta sbrigativa di sempre, ma, questa volta, il conte padre aveva deciso di essere più loquace - È la mia “Gioconda” che non è mai come la vorrei. Quella donna ha sempre un segreto nascosto che non riesco a fermare sulla tela, ogni volta che penso di averlo afferrato, mi accorgo di un lampo, una luce in quegli occhi, che non è né nel disegno, né nel colore. È quella luce che vorrei catturare, ma è molto dispettosa e scompare prima che io possa fissarla nella memoria, tanto da poterla dipingere. Forse non sarà pronta mai.»

«Ne parlate come se non foste voi a dipingerla.»

«È così, infatti, ragazzo mio: quando inizi a dipingere, hai un’idea in testa, non necessariamente originale, ma appena appoggi il carboncino sulla tela, ti accorgi che quello va da solo, seguendo una volontà che non è la tua. Se la assecondi docilmente, quella volontà, alla fine ti trovi davanti qualcosa che non avresti mai immaginato, qualcosa che era già nella tela, come la stregoneria di qualche mago burlone. Penso che sia così anche per uno scrittore, o per un poeta, o un musicista; essi sono come recettori che catturano nell’aria i ricordi di fatti e sentimenti appartenuti ad altri, che si raccontano da soli. Forse è questo il segreto dell’eternità: le anime dei trapassati sussurrano all’orecchio dei vivi le loro storie, guidano la mano di pochi eletti, più sensibili di altri, a tracciane su di una tela, o ad estrarre dal marmo, le sembianze di chi non è più, non più in carne ed ossa, e così ecco che un romanzo si compone, un’immagine emerge dalla memoria di qualcun altro e non puoi abbandonarla se prima non le hai dato le sembianze che quello desidera.»

«Non vi sapevo così … esoterico. Il vostro ragionamento, comunque, difetta un po’ di logica: l’arte ha sempre accompagnato la storia dell’umanità da che il mondo è mondo. Chi ispirava i primi artisti allora, se ancora non era morto nessuno e nessuno spirito poteva suggerire storie a chicchessia?»

«Sempre il solito razionalista! Non potrebbe essere che ci sono artisti e artisti, che alcuni possiedono l’estro della creazione e che sia questo estro a sopravvivere ed a spandersi per l’aria, alla ricerca di concretizzarsi, usando la mente di qualcun altro?»

«Non mi direte che affermate queste cose con convinzione?»

«No, è soltanto il delirio di un povero vecchio che vede la morte avvicinarsi a grandi passi e si chiede cosa ne sarà di lui.»

«Adesso non siate così pessimista, siete solido come una roccia ed il medico dice che ci sotterrerete tutti.»

«Già, i Biancavilla sono sempre stati molto longevi, hai ragione, ma la vecchiaia rende il cuore debole e la mente vacillante, non far caso ai miei vaneggiamenti da vecchio rincitrullito.»

Il conte Umberto si limitò a sorridere bonariamente ed a scuotere il capo in segno di condiscendenza. Abbracciò il padre ed uscì dallo studio con il cuore gonfio di cattivi presagi.



Di lì a poco, il conte Tullio passò a miglior vita ed il suo ultimo dipinto, dopo una lunga permanenza nello studio e poi dal corniciaio, trovò la sua pace nella biblioteca, dove si trova tuttora, in bella mostra, sopra il caminetto.


Non passò molto tempo, che la madre della contessa Elvira, la giovane e bella moglie del conte Umberto, si ammalò gravemente di una malattia polmonare. Seguendo il consiglio del medico di famiglia, si trasferirono alla villa al lago e donna Elvira si occupò personalmente di lei, sacrificandole tutto il tempo che era solita trascorrere con il marito, quando lo affiancava nella cura del patrimonio e nei suoi obblighi mondani.

Il conte, dal canto suo, prese a riempire il suo tempo libero con la lettura, ritirandosi sempre più spesso in quella biblioteca che era sempre stato il suo rifugio, fin da ragazzo.


Fu allora che il quadro iniziò a catturare sempre più spesso la sua attenzione. Si ritrovava assorto a guardarlo, in quel suo antico gioco della fantasia, in cui cercava di cogliere la vita che vi si nascondeva dentro, come al gioco dei quattro cantoni.

Si rese conto allora che il paesaggio sullo sfondo era a lui noto: si trattava di uno scorcio del giardino che circondava la villa, là, dove un olmo secolare troneggiava solitario su di una collinetta artificiale, in mezzo ad un prato di trifoglio.

Era da tempo che non visitava con il ricordo quell’angolo di paradiso in cui soleva recarsi con suo nonno quando era bambino. Ripensò a quando, dopo una lunga passeggiata, si sedevano sull’erba, ai piedi dell’olmo, ed il nonno, dietro sua insistenza, gli raccontava la triste storia della fata del lago, che era andata lì a morire, a causa di una delusione amorosa, che l’aveva consumata nel dolore.

Aveva provato sempre una gran pena per la fata del lago e adesso ricordava con tenerezza ed un pizzico di nostalgia quei suoi generosi sentimenti di fanciullo, in cui il nonno si compiaceva. Si domandò se suo padre sapesse di quelle passeggiate e di quel pellegrinaggio alla collina dell’olmo. Forse no, forse, soltanto, anche suo padre era solito percorrere gli stessi sentieri con il bisnonno Tullio ed era solito fermarsi con lui ai piedi dell’olmo, per sentire e risentire la storia della sfortunata fata, che era morta di consunzione.

E se quello fosse stato una specie di piccolo segreto di famiglia, una storia che si tramandava di nonno in nipote, che ciascuno teneva nascosto nei propri ricordi, senza mai farne parola con nessuno, in una sorta di tacito accordo, assunto inconsapevolmente? Non lo avrebbe mai saputo, non poteva chiederlo al vecchio conte, che ormai non c’era più, e, in ogni caso, non avrebbe mai osato chiederglielo, poiché quel sospetto risuonava dentro di lui più che un giuramento sacro.


Prese così, sull’onda del ricordo, a fare lunghe passeggiate per il giardino, attardandosi, ogni giorno un po’ di più, all’ombra dell’olmo.

Un pomeriggio, mentre risaliva la china della collinetta, scansando i rami bassi delle querce e destreggiandosi fra le rocce ed i rovi, intravide, come abbandonati sul prato, un mucchietto di stoffe variopinte. Indispettito, si domandò chi mai avesse potuto lasciare i suoi stracci nel suo giardino, ma, avvicinandosi, si rese conto che il mucchio informe era animato da un movimento regolare, come un respiro.

Quando gli fu da presso, rimase folgorato da una chioma bruna, come l’ala del corvo, che incorniciava un visetto dall’incarnato latteo, appena arrossato sulle guance dal calore del sonno. Così raggomitolata, sembrava uno scricciolo, le braccia candide incrociate sui seni, dall’apparenza acerbi, come quelli di una ragazzina, le ginocchia ripiegate sul ventre ed i piedini da bambola incrociati sotto i glutei.

Non ebbe cuore di scuoterla, ma quella, che ne aveva avvertito certamente la presenza, si mise a sedere di scatto, stropicciandosi gli occhi, come fanno i bambini quando si destano da un sonno profondo.

Quando ne fu in grado, sollevò lo sguardo sul conte che le stava ritto davanti, in controluce, difendendosi gli occhi dal sole, ormai basso all’orizzonte, con il dorso della mano e gli sorrise, per nulla spaventata. Si sollevò sulle ginocchia ed il conte si avvide che i vestiti la coprivano a mala pena, come se lei vi fosse cresciuta dentro.

«Non senti freddo?» le domandò;

“No – rispose la ragazza – vivo sull’acqua, ci sono abituata.”

“Sei di queste parti? Non ti avevo mai vista.”

“Vivo qui da sempre.”

E lo disse con il tono di un anziano, nella cui bocca la parola “sempre” risuona come “l’eternità”. Questo fece sorridere il conte mentre si toglieva il pastrano per accomodarglielo sulle spalle, per nulla convinto dalle affermazioni di lei.

“Tu sei il conte Umberto, non è vero?”

“Tutti sanno chi sono.”

“Ma io lo so meglio degli altri. - disse la ragazza, sollevando la testa con fare sentenzioso – io vi ho visto crescere.”

Quest’ultima affermazione fece scoppiare il conte in una risata fragorosa, era palese la differenza d’età fra i due e non certo a suo vantaggio. La ragazza corse avanti, notevolmente contrariata

“Ehi, dove vai? Non volevo offenderti.”

“Voi ridete di me e mi trattate come una bimba!”

lo apostrofò quella, continuando ad allontanarsi con passo rapido. Il conte le corse dietro e l’afferrò per un braccio:

“Ti prego, non scappar via, dimmi chi sei.”

La ragazza si fece seria in volto e nei suoi occhi comparve un’espressione da donna, che mal si sposava con il suo aspetto:

“Sono nei vostri sogni. A domani.”

E, così dicendo, scomparve nella macchia alla volta del lago, quasi come un fantasma. Invano il conte cercò di richiamarla e non gli restò da far altro che rientrare alla villa, un po’ infreddolito dall’umidità della sera.

“Siete uscito senza soprabito?” gli chiese donna Elvira al suo rientro, con evidente tono di rimprovero,

“L’ho dimenticato.” Mentì seccamente lui, con l’altrettanto evidente intenzione di tagliar corto.

Per il resto della serata, al conte non restò che costatare l’inquietudine che gli aveva suscitato quell’incontro. Si scopriva, quasi con sorpresa, a ripercorrerne tutti i particolari, con una lucidità ed una minuziosità che non si era mai attribuito, forse sperando, in tal modo, di scoprire chi fosse la ragazza. Cosa aveva voluto dire poi con quel sibillino: “Sono nei vostri sogni”, per quanto vi si provasse, non riusciva a ravvisarla in nessuno dei suoi ricordi, reali, od onirici.


Il giorno appresso non fu dissimile dalla sera precedente, di nuovo, più volte, il conte sorprendeva i suoi pensieri assorti nel ricordo di lei, o ne avvertiva la presenza silenziosa a far da sfondo ad ogni altro suo pensiero o azione. Non c’era verso di liberarsene. Quello stesso pomeriggio, obbedendo al richiamo della ragazza più che alla propria ritrovata consuetudine, s’incamminò alla volta dell’olmo.

Il vederla gli procurò una contentezza inaspettata, sentì il cuore battergli più forte in petto e un intenso calore invadergli il corpo, fino ad esplodere nel suo cervello, tanto da farlo vacillare. Ella era lì ad attenderlo, con le sue vesti variopinte che la coprivano appena, i suoi piedi scalzi, la sua folta chioma bruna che le arrivava fin quasi alle caviglie, come ad una lady Godiva mediterranea, la sua pelle d’alabastro, il suo sorriso da bimba ed il pastrano del conte accomodato sulle spalle, come se non se lo fosse mai tolto dalla sera precedente. Il conte Umberto le sorrise a sua volta ed affrettò il passo per raggiungerla. Appena le fu davanti ebbe uno scatto, come se volesse abbracciarla, ma si trattenne e quella si tolse il soprabito, rendendoglielo con un “Grazie” dai mille sottintesi.

Non si scambiarono una parola, non una delle domande che avevano tormentato il conte in quelle ventiquattrore affiorò alle sue labbra, né la ragazza gli chiese nulla o prese alcun discorso, rimasero lì, seduti ai piedi dell’olmo, l’uno accanto all’altra, giocando con il trifoglio e scambiandosi sguardi e sorrisi.

All’imbrunire, la fanciulla si sollevò sulle ginocchia, diede un ultimo sguardo sorridente al conte, ripiegando la testa verso la spalla, poggiò delicatamente la mano sul suo braccio e si protese verso di lui per baciarlo su di una guancia, con un atteggiamento infantile, e gli accarezzo l’altra in modo quasi materno, quindi scattò in piedi e salterellando con la leggerezza di una danzatrice, scomparve fra i rami, come la sera precedente.

Questa volta il conte non fece nulla per fermarla, semplicemente si attardò ai piedi dell’albero fino a che non la vide sparire fra la vegetazione, quindi si sollevò a sua volta e si avviò con passo lento e malinconico verso la villa.


“Che ve lo portate a fare il pastrano, se non lo indossate quando necessita?” Il tono di rimprovero della moglie lo riportò alla realtà bruscamente. “Non sentivo freddo.” si limitò a risponderle, e donna Elvira proseguì rapida per le scale, verso le stanze della madre, con il vassoio delle medicine, scuotendo il capo in segno di rassegnazione. Il conte, dal canto suo, si chiuse nello studio e vi rimase per buona parte della serata, immerso in se stesso e in preda ai più confusi e irrazionali pensieri.


Si svegliò più volte, quella notte, sicuro di trovare la sua lady bambina ai piedi del letto a fissarlo, con quel suo sorriso infantile che metteva allegria e con quella sua incredibile chioma bruna che la copriva più degli abiti che aveva indosso. Ella non era lì, “ovviamente”, pensava, ma era certamente prepotentemente presente nei suoi pensieri, nei suoi sogni e, si rese conto, anche sulla sua pelle, sì, sul suo viso per l’esattezza: con il suo bacio e la sua carezza, gli aveva lasciato addosso il suo profumo. Il conte si scoprì perso in quell’odore che sapeva di bosco e di lago, di mughetto e di alghe, di quercia e di legno bagnato. Si sorprese a ricercare quel profumo e si sentì come un amante, colto sul fatto, come se, il crogiolarsi nella persistenza del profumo di un’altra, fosse già tradimento della propria consorte. “No, no, non la devo più vedere!” disse fra sé.

Quel sentimento di colpa nei confronti della sua giovane e bella Elvira lo turbava, ma lo turbava ancor di più il rendersi conto del fatto che quella fanciulla, poco più che una bambina, era nella sua mente una donna, una donna straordinariamente affascinante e sensuale, che tormentava il suo sonno e che, realizzò, si era impossessata di ogni suo pensiero.


Il giorno appresso il conte era inquieto, e lo fu ancor di più quando l’ora della sua consueta passeggiata si fece prossima. Misurò più e più volte la lunghezza e poi la larghezza della biblioteca, fermandosi ogni tanto per passarsi le mani fra i capelli, come si fa quando si è afflitti da tetri pensieri: era combattuto. I suoi sentimenti lo vedevano già fuori, andare incontro al suo sogno, la sua ragione lo costringeva a rimanere, prigioniero di se stesso, chiuso nello studio. Così, ora si avviava, con passo deciso, verso la porta, ora si bloccava, la mano protesa verso la maniglia, a fissare quella protuberanza in ferro battuto, quasi senza realizzare cosa fosse, come se si trattasse di un segno, una parete virtuale che gli impediva di uscire.


Per quel pomeriggio non uscì. Ma la notte fu terribile, tormentata da incubi inenarrabili, dai quali aveva ancor più orribili risvegli: ella era lì, ai piedi del letto e lo guardava con un’espressione cupa e corrucciata, abissalmente triste.


Il sorgere del sole fu quasi una liberazione. Rimase rintanato nel letto, fingendo di dormire, sonnecchiando, placidamente, senza gravi pensieri: era certo che, se non fosse riuscito a resistere al richiamo, avrebbe trovato la sua bambina ad attenderlo ai piedi dell’olmo, come ogni pomeriggio.


Per un’intera settimana la sua razionalità l’ebbe vinta sul suo istinto, che si dovette accontentare di proiettare l’immaginazione al di là della luce a quadri delle finestre della biblioteca, fin verso la collinetta artificiale e ai piedi dell’olmo. Passò le giornate a leggere. Lesse e rilesse, fino alla nausea, ciò che gli era più caro, finché versi e dialoghi, poesie e tragedie, si impadronirono della sua memoria, nella vana speranza che quelli prendessero il posto della sua inalienabile visione.


Ma la visione non lo abbandonò e così, quel giorno, si ritrovò, quasi senza accorgersene, su per il sentiero che portava alla collina, incerto sul suo destino d’amante e certo d’aver perso la sua battaglia di uomo di giudizio contro l’anima dissennata dei Biancavilla.


La sua gioia fu immensa quando vide, in lontananza, una figuretta leggiadra di fanciulla, ritta, all’ombra dell’ormai amata pianta, ad attenderlo, come se nessun tempo fosse trascorso dal loro ultimo incontro. Si fermò un istante, troppo grande l’emozione, che quasi il cuore gli scoppiava, la guardò. Bella, era bella come uscita da un dipinto, eterea, come in un sogno, le vesti mosse dal vento che nulla però poteva sulla sua chioma nera, troppo pesante perché una leggera brezza potesse scomporla. Bella e sottile, come un giunco, come un’alga del fiume, come un flessuoso ciclamino.

Il cuore del conte rallentò la sua corsa e quegli poté riprendere il cammino verso colei che gli aveva rapito l’anima.


Il tempo che seguì fu un tempo di promesse, di scoperte, di confessioni, un tempo di verità in cui, ciascuno a suo modo, mise a nudo la propria anima.

Il conte le narrò di sé, della sua infanzia, dei suoi giochi, dei suoi piaceri, delle sue emozioni e poi di suo nonno e di suo padre e poi ancora dell’intera storia dei Biancavilla. Strano come quella, a certi racconti, assentiva, come se facessero parte dei suoi ricordi, come se già conoscesse quelle storie!

La fanciulla, dal canto suo, cantava al conte le sue canzoni e lo trastullava con le sue fiabe: fantastiche storie di cavalier, d’arme, d’eroi e di amori impossibili. Ed un’altra volta gli narrava del lago e dei suoi abitanti, degli animali del bosco e dell’età di ogni albero che vi si trovava. E poi, ancora, gli recitava un qualche sonetto o quartina, tratta fuori chissà da quale vecchio libro, trovato chissà dove, giurando quella, che sì, erano suoi! Il conte pensava ch’ella avesse una gran fantasia, una prorompente creatività che la faceva vivere in un mondo surreale, fuori dal mondo e dal vivere comune. Lo affascinava questa sua essenza e la sua voce, ora calda e sensuale, ora squillante da bambina, complice perfetta alla sua femminilità, tanto da potersi dire ch’ella era la femminilità in sé. Mai egli le chiese, infatti, per tutto quel tempo, quale fosse il suo nome, o da dove venisse veramente. Mai si curò di darle una connotazione umana: la chiamava “mia Dea”, o “Afrodite”, o, ancora, “Amore”, “Amore mio” e poi “Piccola Madre”, quando lei si atteggiava a saggia e profonda conoscitrice dell’animo umano e dei segreti più nascosti della Natura. Si chiedeva, invece, a volte, dopo averla lasciata, quanti anni ella avesse, poiché, per quel suo essere sempre così mutevole, per quella sua personalità così sfaccettata, non si riusciva, per quanto si provasse, a comprendere se fosse bimba, donna, o, addirittura, anziana.


Fu un tempo di emozioni, di languori, un tempo in cui il conte si sentì rinascere ad una nuova primavera, come se il corso del tempo si fosse invertito e, invece di procedere verso la vecchiaia, si sentiva proiettato verso una ritrovata gioventù. Anche le rughe sul suo volto si erano distese, quell’espressione corrucciata che gli avevano scolpito sopra le preoccupazioni e le ansie degli eventi, recenti e passati, della sua maturità, aveva ceduto il passo alla profonda serenità e vitalità che attingeva da quei pomeriggi, trascorsi sotto l’olmo, in compagnia della sua piccola e amata fanciulla del lago.

E prese a dedicarsi, più che all’amministrazione dei beni di famiglia, alle sue vecchie passioni dell’età giovanile: riprese a suonare il piano, ad andare alla ricerca di libri rari, a disegnare, a sodisfare, insomma, quei suoi innocui capricci di gioventù che aveva da troppo tempo trascurato.


E passò quel tempo e ne venne un altro in cui, forse a causa dell’appagamento del desiderio, forse per l’imminenza della dipartita della suocera, che, nel frattempo, si era aggravata, e quindi la consapevolezza del fatto che donna Elvira, di lì a poco, si sarebbe fatta qualche domanda sul mutato stato d’animo del marito, che fin troppo bene conosceva, forse perché l’ebbrezza della passione è destinata a svanire, lasciando alla ragione la possibilità di riprendere il controllo dei sentimenti, venne un tempo in cui la razionalità del conte prese il sopravvento sui suoi sentimenti ed egli iniziò a chiedersi della loro autenticità. Ciò che prima lo affascinava, adesso lo inquietava, fino a fargli pensare che la fanciulla, che aveva ritenuto essere una creatura celeste, fosse, in realtà, una povera pazza.

Nulla però poteva la sua ragione contro il richiamo della sensualità e della bellezza della fanciulla del lago e così, il conte non poteva fare a meno di recarsi, anche se con minore assiduità, al tacito appuntamento con il suo amore, divenuto sempre più terreno.


La ragione rende ciechi più del sentimento. Essa vela la verità con i suoi modelli e inebria la mente con la loro affascinante eleganza, convincendo quella di esser loro più veri della verità stessa. Quando l’intelletto vi rimane intrappolato, nega alla natura umana il suo sentire, la sua possibilità di percepire, oltre il modello razionale, la bellezza della realtà, che è ben più complessa ed imperscrutabile di quanto il modello non la faccia apparire.

Così il conte non si avvide che la sua bella ed amabile creatura, il dono che gli dei, o chi per loro gli avevan fatto, di giorno in giorno illanguidiva, s’intristiva. Non si accorse delle lacrime che velavano il suo sguardo, del tormento che corrugava la sua fronte. Non sentì i suoi richiami. Finché, un giorno, recatosi all’olmo, non la trovò più ad attenderlo.

Si disperò. Avrebbe voluto chiamarla, ma non ne conosceva il nome. Urlò, allora, con il dolore del cervo ferito dal cacciatore, della donna che partorisce il figlio che sa già morto, come dovrebbe urlare il dannato che brucia fra le fiamme dell’inferno senza più speranza di redenzione.

“È morta!” lo avvertì una voce alle sue spalle, una voce nota ed amata, la voce di suo padre. Il conte si voltò di scatto: suo padre era lì, davanti a lui, e lo guardava. Lo guardava con un’espressione che ben ricordava, quella di quando, bambino, aveva fatto una marachella e veniva rimproverato. Ma questa volta non c’era, a stento trattenuta, l’intuibile risata che sarebbe esplosa, se non fosse stato per la necessità del ruolo. Questa volta non c’era la speranza del perdono. Non ci sarebbe stato lo sguardo d’intesa fra i suoi genitori, preludio di riconciliazione e di tenere carezze, frammiste alla raccomandazione di non ricadere nello stesso errore.

«È morta perché tu non hai saputo amarla. Nessuno di noi ha mai osato prendere il suo corpo, rinnegando la sua anima. Nessuno, prima di te, ha mai osato sfiorarla, se non con il rispetto che si deve agli Dei. Molti di noi amarono la sua anima e non sfiorarono mai il suo corpo. Ella era Musica, Pittura, Poesia, l’intero Parnaso, l’essenza stessa della vita. Cosa ti aspettavi che fosse il Sublime? Ciò che è pieno d’orpelli, l’eclatante, colui che grida: “Io sono...”? La Bellezza è semplice, quasi banale. La Verità l’hai sott’occhio, tanto che ti è impossibile vederla. Il Sublime è l’essenza stessa della vita, è l’Amare, che troppo spesso si confonde con il piacere. Soltanto a pochi è dato godere del piacere puro, al di là dei sensi, al di là del piacere stesso. Tu hai confuso l’Amore con il sodisfacimento di bisogni primari, il Sublime e la Bellezza con la volgarità. Il piacere, il godimento, la sensualità, passano attraverso il sentire, attraverso l’anima ed a quest’ultima danno consistenza di realtà. Il Piacere non tocca la pelle, ma penetra sotto di essa. Esso nasce dall’armonia dei sensi, dal guardare, dall’ascoltare, dal l’assaporare, non dal vedere, dal sentire, dal deglutire, con smaniosa voracità.

Ella era l’anima dei Biancavilla della Conca e adesso è morta. Con lei muore lo spirito dei Biancavilla.»



Il conte Umberto Amedeo si sollevò a fatica dalla poltrona in cui era sprofondato e si avvicinò allo specchio, vicino alla porta che dava sul giardino: le sue rughe erano di nuovo tutte lì, sulla fronte, sotto gli occhi, agli angoli della bocca, sul collo. I suoi sessant’anni erano tutti lì, sessanta e forse più. Gli erano crollati addosso di colpo, in un anno. Donna Elvira lo distrasse dalla sua contemplazione, entrando nella stanza, dopo aver bussato con il suo solito tocco leggero:

“Cosa vuoi per cena?”

“Non so.” Rispose il conte mentre fissava il dipinto.

“Darò ordini per una minestra calda, che fa freddo.” Baciò il marito sulla fronte, come faceva sempre, e si avviò verso la porta. Prima di uscire, diresse un’occhiata malevola verso il dipinto: “Un giorno di questi, lo brucio!” pensò fra sé ed uscì dalla stanza.


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LA POESIA DEL FARO|