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Vladimir
Giorgio Scerbanenko, poi italianizzatosi in Giorgio Scerbanenco,
è nato a Kiev nel 1911, figlio di padre ucraino,
professore di latino e greco, e madre romana. Nella breve
autobiografia che si può trovare in calce a 'Venere
privata' nell'edizione Garzanti del 1990, purtroppo Scerbanenco
non ci racconta come si sono conosciuti i suoi genitori. Ai Fori
Imperiali, probabilmente (e dove si possono conoscere una ragazza
romana e un professore di latino ucraino?).
L'autobiografia
parte invece con il piccolo Giorgio Vladimir decenne, che
trasporta un pezzo di legno con la madre, combustibile per
riscaldarsi. Erano appena arrivati a Odessa, ed avevano
appreso che il padre, che in qualità di professore vestiva
una divisa, era stato fucilato dai rivoluzionari.
Probabilmente proprio a causa della divisa, pensava Scerbanenco.
D'altronde, la Rivoluzione non è un invito a prendere un
the, come diceva Trotsky. Insomma, vivacchiano nella città
portuale, insieme con altri italiani in fuga, in attesa della
nave che li porterà in salvo in Italia. Finalmente le navi
arrivano, ci si imbarca, si torna a casa! Il porto é
minato, le navi cariche di profughi devono essere guidate da una
motovedetta russa. Una nave sbaglia, urta una mina, la mina
esplode, la nave si inclina e affonda con tutti i fuggitivi
italiani a bordo. Prima di affondare definitivamente, qualcuno
issa il tricolore, e i passeggeri delle altre navi applaudono. Il
decenne Scerbanenco non capisce bene cosa sta succedendo, ma vede
la nave affondare, sente gli applausi, vede la bandiera che
scompare sott'acqua con tutto il resto.
Tornano a Roma,
poi a Milano. La mamma si ammala, di tumore, ma Scerbanenco non
se ne accorge, é troppo impegnato a lavorare per sbarcare
il lunario e a leggere i libri presi in prestito in biblioteca.
Resteranno solo i tardivi rimorsi di Scerbanenco, e il ricordo di
un misterioso libro che la mamma scriveva nella sua miseria
milanese, la sua tragica storia d'amore col professore di Kiev,
mai finito e oggi probabilmente perso. Con un nome ucraino e
un indelebile accento romanesco, riesce ad amare Milano, a cui
tributerà sempre un grandissimo amore (probabilmente
immeritato).
Scerbanenco si stupisce di non essere come
gli altri, con quel suo strano nome. Gli chiedono sempre se é
russo; e lui giù a spiegare che no, che il papà era
ucraino ma lui é italiano, si affanna, cerca di far capire
ma in fondo agli altri non é che ne freghi poi molto. Ha
un bell'italianizzarsi il nome, togliere la k, cestinare Vladimir
per restare Giorgio. Gli resterà sempre la penosa
impressione di essere diverso, di dovere delle spiegazioni.
Proprio lui, che aveva applaudito il tricolore che affondava nel
porto di Odessa con il suo carico di italiani in fuga. Scrive
righe di vera ira contro un anonimo interlocutore di sinistra,
che alle sue spiegazioni sul nome lo censura con durezza
chiedendogli se per caso non si vergogni di essere russo. I
cretini di sinistra sono sempre i peggiori, allora come
oggi! Poi, va a lavorare. In catena di montaggio, alla
Borletti di Milano. Fa un casino, quelli come lui come tornitori
sono negati. Scrive testualmente: 'Poi si accorsero che ero un
poeta, e mi misero al magazzino spedizioni'. Ovviamente, incasina
tutto pure lì, ma sono tolleranti, lo tengono. In
seguito, ogni tanto i prodotti Borletti compariranno qua e là
nei suoi racconti, sempre definiti come il non plus ultra. Si
vede che si era affezionato. La sera studia, come gli eroi
americani (dice lui). Solo che degli americani gli mancava lo
spirito pratico, e così studiava filosofia (sempre sue
parole). Si ammala di TBC, lo mandano in sanatorio. In assenza
di donne, scopre finalmente che le donne sono importanti. Gli ci
voleva la TBC, povero Scerbanenco! Guarisce, ma la miseria non
finisce. Va a lavorare come milite in Croce Rossa, ne vede di
tutti i colori. Trova anche il tempo di innamorarsi di Alberto
Moravia (sic!). Anche in Croce Rossa, si accorgono che é
un poeta, e lo passano negli uffici. Tante ne fa che lo
licenziano. Grazie alla benevolenza di Zavattini, approda
nell'ambiente letterario. Non naviga nell'oro, ma la miseria da
cui é uscito gli resterà sempre appiccicata
addosso, non se ne libererà mai. Viene la guerra (la
Seconda). Per motivi non tanto chiari, si trova a dover fuggire
dai tedeschi, a rifugiarsi in Svizzera. Una contadina innominata
e mai più riveduta gli salva la vita. Lui si trascina su e
giù per i monti una pesantissima borsa con un romanzo
d'amore dentro. Comunque, in Svizzera ci arriva davvero, e si
salva. Finita la guerra, torna a Milano. 'Avevo già
passato i trent'anni', scrive. Qui finisce di scrivere. Il resto,
é cronaca.
Tiene rubriche di Piccola Posta nelle
riviste femminili (La Posta di Adrian); riesce a convincere
una lettrice a non suicidarsi, e con un'altra invece non ce la
fa. Scrive romanzi, rosa e anche neri. Nel 1966 vince il
Premio Simenon, diventa famoso, il suo medico-detective Duca
Lamberti vende moltissimo. Muore nel 1969, nella sua
amatissima Milano.
Nei decenni a seguire, Carlo Lucarelli,
Andrea Pinketts, Oreste del Buono, Carmen Covito e vari altri
compileranno introduzioni ai suoi libri, e a volte gli
tributeranno apertamente omaggio (soprattutto
Lucarelli). Ultimamente è tornato di moda, almeno a
giudicare dalle ristampe.
di
Andrea d'Amico per gentile concessione dell'autore
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