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Susan Sontag


Un americana contro

Anni fa mi venne diagnosticato un tumore. Era una sentenza di morte, perché mi venne detto che il cancro era all’ultimo livello. Sopportai cure pesanti e ne uscii. Allora scrissi Illness as metaphor, la malattia come metafora. Non volevo dire di me, ma del modo in cui il malato e la malattia venivano stigmatizzati dalla coscienza comune. Per questo volevo fosse un libro utile. Credo d’esserci riuscita, non solo perché ho venduto tante copie in tante lingue diverse (trenta), ma perché la gente mi ringrazia ancora. Uscire dal ghetto della malattia, dai luoghi comuni che quasi additano la colpevolezza del malato. Quattro anni fa il cancro mi toccò per la seconda volta. La diagnosi arrivò molto presto. Mi sottoposi a un intervento chirurgico e alla chemioterapia. Sto bene. Non come una volta, ma sto bene e sono fiduciosa. Mi racconterò un po’ di più...”.

Susan Sontag non racconterà più. Non racconterà del suo male, della guerra, del suo paese, l’America, e di Bush, della fotografia e di un modo di fissare la realtà del mondo (ed eventualmente di cambiarla), della libertà, della democrazia, dell’eguaglianza, come le può intendere una donna di sinistra.

Aveva settantuno anni e incontrandola un paio di anni fa ci sembrò di una felicità contagiosa, anche se l’aspetto non era dei migliori, con i capelli troppo lunghi, sottili e troppo grigi, con i gesti duri, con il viso però ancora bello e forte, quando s’animava di idee, di spiegazioni, di riflessioni. Le sue parole erano brio e intelligenza: sapevano colpirti e sorprenderti, sempre un poco avanti... serena nella sua lucidità.

Susan Sontag fu conosciuta in Italia grazie a una raccolta di saggi tradotta da Mondadori nel 1967 e pubblicata con il titolo Contro l’interpretazione (e contro un senso dell’arte ristretto nel contenuto, per l’interpretazione intuitiva contro quella analitica). Poco dopo sarebbe venuto Stili della volontà radicale. Ma credo che qualcosa di più, nel senso della comprensione e della condivisione, abbia rappresentato per noi, in mezzo, Viaggio ad Hanoi. Era proprio il 1968 e c’era un’altra guerra, spietata ma anche semplice nella definizione dell’amico e del nemico, un’altra guerra, mentre da Berkeley in poi si era rivelata un’altra America, tra gli studenti, i figli dei fiori, Marcuse, Angela Davis, Carmichael... Susan Sontag ci mostrò che cosa fosse il reportage di guerra. Soprattutto divenne l’intellettuale che si univa ad altri intellettuali che dall’altra parte dell’Oceano ci insegnavano che cosa fosse mai l’impegno ideale, la politica, il ritorno a una pratica pacifista, il rifiuto della violenza, la battaglia per i diritti civili, il libero esercizio della critica, antiideologico per definizione. Il nostro Sessantotto sarebbe durato poco e sarebbe approdato altrove, avrebbe conosciuto giorni neri. Susan Sontag ci rimase così, nella mente, testimone di quel viaggio, di una sofferenza, di tanti lutti. Che per noi aveva cercato di spiegare, per mostrarci come evitare le “false interpretazioni”, gli inganni che ne erano stati la causa.
Ad esempio, dopo l’11 settembre, cercò di mostrarci l’inganno di Bush: “Dal suicidio dell’impero sovietico, l’impero americano ha fatto il possibile per inventarsi un nuovo nemico, che non poteva identificare in un paese, sempre troppo piccolo davanti alla superpotenza. Per essere credibile il nemico doveva essere transnazionale, tale da giustificare la presenza americana e delle basi americane in tutto il mondo... L’11 settembre è stato il più grande regalo a un gruppo di potere che si è riconosciuto nell’amministrazione Bush, un gruppo che stava all’estrema destra e che adesso si è ricollocato al centro, scalzando il centro di Clinton che sembra diventato l’estrema sinistra... La parola terrorista funziona come in passato funzionava la parola comunista. Ovunque, in qualsiasi angolo del pianeta, si possono nascondere cellule terroriste. Un nuovo attacco alimenterebbe quello che Bush suggerisce, cioè l’immagine di uno stato assediato, di un fortino circondato, e giustificherebbe la militarizzazione che protegge dall’attacco e che restringe gli spazi di ogni opposizione democratica, di ogni discussione.... Il problema grave è quello di una modernità nostra che non funziona ovunque allo stesso modo e che per molti paesi è diventata un oltraggio. Credo che per paesi così il linguaggio della Jihad possa risultare assai attraente. Credo che una buona via per capire la loro antimodernità (e l’uso della religione) sia la condizione della donna. In compenso a chi sta contro piacciono le semplificazioni, che annullano i problemi o li classificano sotto una stessa voce, il nemico necessario». Si diceva del successo clamoroso di un pamphlet italiano, per via della semplificazione...”.

Susan Sontag era nata a New York nel 1933. Era cresciuta a Tucson in Arizona e poi a Los Angeles, figlia di una madre alcolizzata e di un padre mercante di pellicce morto in Cina di tubercolosi durante l'invasione giapponese quando la piccola Susan aveva cinque anni. Era stata una bambina prodigio: a tre anni aveva già imparato a leggere, a sedici frequentava il college.. Aveva studiato all’Università di Chicago, ad Harvard e al St. Anne’s College di Oxford. Aveva studiato letteratura, filosofia, teologia. A trent’anni aveva pubblicato il suo primo romanzo, Il benefattore, uno studio sulla formazione della personalità, nelle cui pagine si ritrovano le sue letture di Kafka e di Freud e la lezione di Roland Barthes (cui avrebbe dedicato più tardi un saggio). Seguirono altri romanzi, come Il kit della morte, romanzi di scrittura raffinata e di sensità saggistica.

Famosissimo L’amante del vulcano, che è un romanzo “italiano”, perché ambientato a Napoli, nel regno borbonico, con l’ammiraglio Nelson tra i protagonisti. Presto cominciò a scrivere per le grandi riviste di lingua inglese, New Yorker, New York Review of Books, Times Literary Supplement, Granta, versatile, discutendo di cinema, di Godard, Bergman, Bresson, Resnais, di teatro e di fotografia, leggendo il senso dell’immagine e della sua riproduzione nella società contemporanea, senza cadere all’interno di una corrente filosofica precisa, strutturalismo, decostruzionismo, ermeneutica, ma collocandosi su un asse ideale che collega Benjamin al postmoderno. Sulla fotografia, arrivato in Italia alla fine degli anni settanta, è una prova di questa ricerca e della seduzione esercitata dal carattere di leggibilità universale dell’immagine, per l'intrinseca democraticità del suo valore testimoniale, che può valicare barriere di lingue e culture, per la diffusione che può essere però anche moltiplicazione della mistificazione.

Uno dei suoi libri più recenti fu In America, storia di una attrice polacca che con i familiari e gli amici emigra dall’Europa di fine Ottocento in un paese dove si è liberi di “immaginarsi come non si è ancora”, perché è “un intero paese di gente che crede nella volontà”. Quasi una storia personale. Susan Sontag era di origine ebraica, un po’ figlia dunque di quell’immigrazione. Ma In America è un romanzo, è invenzione, l’autobiografia può essere nei sentimenti, nelle sensazioni che disegnano i paesaggi delle sue pagine. “Scrivere romanzi, abitare altre identità - aveva annotato in un breve saggio - dà la sensazione di perdere se stessi”. Importano le storie: “Ciò che scrivo è diverso da me. Ciò che scrivo è più brillante di me. perché posso riscriverlo”. Si scrive per leggere, sperando che gli altri possano leggere “un libro pieno di saggezza, che sappia far giocare la mente, che dilati la capacità di comprendere e partecipare, che registri un mondo reale (non solo l’agitazione di una mente singola), al servizio della storia, che difenda emozioni contrarie e ardite”.

L’ultimo libro fu Regarding the pain of others, guardando il dolore degli altri. Ma forse guardare non rende. Sarebbe qualche cosa di più: considerare e vedere... Ancora la fotografia e ancora la morte: d’altra parte tra l’una e l’altra vi è stato sempre un rapporto, perché la fotografia è, forse prima di tutto, memoria dei morti, intanto un volto da conservare. Pensò a quel libro in uno dei suoi soggiorni a Sarajevo, quando chiunque in qualunque momento poteva morire: “Ricordo quei giorni: non c’era la luce, non c’era l’acqua, si faticava a trovare da mangiare, la posta non funzionava. In albergo, nella camera, avevo due secchielli di metallo. In uno raccoglievo l’acqua per lavarmi. L’altro era il mio cestino dei rifiuti, che rimaneva inesorabilmente vuoto, tuttalpiù qualche pacchetto di sigarette acquistato al mercato nero. Era un’esperienza di spoliazione, di riduzione all’essenziale, nella quale al terrore s’aggiungeva l’euforia della sopravvivenza, come nella malattia e all’ospedale”. Un altro viaggio nella guerra come fu Hanoi. O come, dopo il Vietnam erano stati il Rwanda e l’Afghanistan.

Anche a Sarajevo chiunque in qualunque momento poteva morire (e Susan Sontag chiese che si intervenisse per finire quello strazio di un paese). Ci furono persone che morirono morte nel proprio letto, in strada, persino in un cimitero mentre andavano a seppellire altri morti. La morte era sempre accanto. Il legame con la malattia è ovvio. Da malati si vive con la morte al fianco, soprattutto con la morte degli altri. Vale per i famigliari, per gli amici, per chiunque assista: “Ho vissuto ore e ore di chemioterapia e il giorno dopo potevo non rivedere più chi sedeva accanto a me il giorno prima. Per questo non farei una distinzione sul senso di un vivere collettivo: chi s’ammala e chi gli sta vicino entra in una comunità, spogliata dei caratteri dell’esistenza quotidiana, nella forma non identica ma parallela di chi soffre l’assedio di una guerra”.

Vorrei ancora citare una storia che mi raccontò a proposito della sua malattia: “In chemioterapia con me era un amico colpito dalla leucemia. Mi lasciai sfuggire una domanda: non è divertente? Mi riferivo alla nostra sfida, alla coesistenza con il dolore e con la paura, alle scoperte. Rispose di sì. Poco dopo sarebbe morto. Nella guerra come nella malattia non si sa come possa andare a finire. Sarebbero narrazioni cariche di suspense. Mesi fa in un incidente stradale mi procurai varie fratture: ma era tutto scontato. Mi sarei riaggiustata...”.

Susan Sontag aveva ricevuto molte premi, dal Premio per la Pace a Francoforte al National Book Award (per il romanzo In America). L’ultimo, quest’anno, è stato italiano: il premio Omegna Città della Resistenza (dopo Sartre, Camus, Anders, Frantz Fanon, Fenoglio, Kapuscinski). Purtroppo, per tutti, è mancata alla premiazione.

Oreste Pivetta – L'UNITA' – 29/12/2004




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