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MONI OVADIA


Ovadia, il sogno della rivoluzione dolce

Una tempesta di immagini, musiche, suoni, canti e parole si “abbatterà” sull'Arena del Sole, a Bologna, da stasera: è L'Armata a cavallo, la Konarmija, che Moni Ovadia ha tratto dal romanzo di Isaac Babel', incentrato sulla storia della prima armata di cosacchi rossi e della loro unica battaglia persa sul fronte polacco. Non “uno spettacolo di prosa”, precisa Moni, ma “una trasfigurazione stilizzata” del testo dello scrittore ebreo russo, letto quarant'anni fa e rimasto dentro nell'anima a germogliare: “è da allora che medito di farci qualcosa – confessa Ovadia -. Temi forti e pregnanti come l'ebraismo e la rivoluzione, intesa come opera buona e amichevole e nn come furore”. Cioè la “rivoluzione dolce” che nel racconto di Babel? Viene invocata dal sognatore Ghedali, perseguitato e massacrato dai polacchi, travolto come milioni di altri civili e intellettuali sovietici dall'aspra guerra civile fra Bianchi e Rossi e dal naufragio dell'utopia rivoluzionaria.

Il problema delle rivoluzioni è quello di diventare spesso delle “autostrade del senso” – il termine è di un sociologo acuto come Franco Cassano -, e di finire in bagni di sangue. E' davvero possibile una “rivoluzione dolce”?

Un esempio è proprio quella di Mandela, promotore di una grande rivoluzione pacifica nel suo paese. Un altro è Lula in Brasile, che ha sospeso la realizzazione di dodici jet per dedicarsi al problema della fame. Bisogna vedere se le grandi industrie glielo lasceranno fare. Se non succederà come al povero allende che non aveva nessuna intenzione di sovietizzare il Cile.

E' tempo di distinguere...

assolutamente sì. Sono nauseato da chi liquida e omologa il comunismo come un calderone degli orrori. Sono per il riconoscimento severo e per l'autocritica, ma perché continuiamo a definire comunismo quello di Stalin? Se quello era comunismo io sono il papa. Stalin ha riproposto una forma moderna di zarismo, imbalsamato Lenin, reintrodotto la deportazione, la schiavitù, l'indice dei libri, l'immensa burocrazia degli zar. Ci credettero in molti, è vero, e questo non ci assolve, ma bisogna anche smettere di farsi intimidire. Io sarei stato fra le vittime di quel regime, spedito di corsa in un gulag. E non prendo lezioni dai nazi-fascisti o da gente come Berlusconi.

Questo lavoro mette in luce aspetti poco sottolineati dalla storia, come il significativo apporto alla rivoluzione di persone di origine ebraica diretta o indiretta: Trotskij, Kamenev, Zinoviev, Radek e persino lo stesso Lenin per parte di madre...

E' una colpevole mancanza della sinistra aver oscurato l'immenso contributo ebraico alla causa comunista. I numeri della presenza ebraica in tutti i movimenti rivoluzionari socialisti, comunisti e anarchici è sconcertante.

Altro nodo focale: le “purghe”, i genocidi, le epurazioni tolgono di mezzo la maggior parte degli idealisti, i più puri. Mentre restano impuniti personaggi come Stalin o Pinochet. L'umanità che ogni rivoluzione ridisegna è dunque peggiore di quella sommersa e repressa?

Tutti i processi che vogliono cambiare taumaturgicamente sono destinati al disastro. Alla natura antropologica profonda dell'essere umano non basta una sola generazione per cambiare, serve la consapevolezza che chi prepara il cambiamento non vedrà l'alba. Che idea presuntuosa e narcisista trovare una risoluzione immediata per tutti! E le altre generazioni che faranno? Vivranno in un polverone di noia? Magris dice: coniugare l'utopia con il disincanto. Guai a chi non è criticabile o sbeffeggiabile. Mi dispiace per Fidel Castro, ma gli preferisco Ortega che ha perso le elezioni. Quando Castro morirà, Cuba tornerà ad essere il bordello degli Stati Uniti. Meglio perdere un'elezione, allora, e garantire la democrazia.

Torniamo a “L'Armata a cavallo”, a cui collabora con dei filmati Mauro Contini, il braccio destro di Carmelo Bene. Per la prima volta nel suo lavoro si affaccia il “mezzo” cinematografico: è una necessità interna allo spettacolo o la voglia di sperimentare qualcosa di nuovo?

L'uno e l'altro. Non si può dare l'idea dell'epos senza qualcosa che te lo evochi. Trovo straordinario quel tratto poetico che Contini sa dare alla visione filmica. Per Konarmija ha creato immagini che vengono da una foresta, come una sorta di eco, mentre sul palco si svolge la storia dei piccoli uomini, con le loro fragilità.

Anche la partecipazione di Roman Siwulak, già attore per Kantor, è una novità...

Il mio lavoro gira sempre intorno all'idea di teatro di Kantor, che trovo sconvolgente. Avere Roman qui è straordinario, la sua qualità di attore e la sua stessa presenza scenica fanno parte di quell'opera d'arte kantoriana.

Costumi e accessori: continua la collaborazione con Elisa Salvi, che è anche la sua compagna di vita...

Sì, poveretta, non aveva altra scelta che seguirmi nel mio lavoro se volevamo passare un po' di tempo insieme. All'inizio ero dubbioso: temevo di esercitare una sorta di “nepotismo”, ma Elisa è veramente brava. Mi fido completamente di lei e del suo fiuto nel settore, dove ha lavorato per anni. E' lei ad avermi suggerito i nomi di industrie private come la C.P. Company, con la quale addirittura sperimentiamo nuovi materiali per i costumi e così con i Fratelli Rossetti per le calzature. Mentre non accetterei mai dei soldi dalla Nestlè, il rapporto con l'industria media italiana è da rileggere come chiave del futuro dello spettacolo. Il teatro e la democrazia sono coincidenti come dimostra il caso di Dario Fo e questo nuovo mecenatismo può offrire al teatro nuove modalità espressive.

Intervista di Rossella Battisti – L'UNITA' – 23/10/2003

 


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