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Se James Brown è più politico di Guccini |
Parlare con Serio dei Bisca è come parlare con un pezzo di storia. Una storia che non si racconta con più di venti anni di dischi, ma con le piazze, le strade, i centri sociali, le lotte di questi anni, da Acerra in tempi non sospetti a Melfi, passando per Genova. La mappa di questo percorso si trova nei flyer dei concerti, nei manifesti appesi ai muri, nei bootleg, nei ricordi di chi in quelle sere c'era. E in poco altro di "ufficiale". Chi crede che la rete sia una fonte inesauribile d'informazioni, provi a farsi un giro per ricostruire la biografia del gruppo partenopeo e capirà di cosa stiamo parlando. Il loro ultimo album, uscito in queste settimane Ah! , potrebbe riuscire nell'impresa di renderli un po' più conosciuti al grande pubblico, grazie anche a due singoli abbastanza radiofonici in collaborazione con due artisti che il mainstream lo navigano già, Piero Pelù e Caparezza.
Come è nata l'idea delle collaborazioni?
E' una cosa nuova. In genere non c'è mai stato tempo di fare delle collaborazioni. Nascono da un bisogno di complicità. E' una cosa che mi ha segnato in questo periodo, la voglia di mettersi in discussione con persone che stimi. Michele è una persona che ho conosciuto da poco a Melfi e l'ho trovata incredibile. Con Piero ci conosciamo da vent'anni, da quando stavamo nella stessa etichetta
L'Ira di Firenze?
Sì, inizio degli anni 80. Facevamo le tournè insieme in Austria, Svizzera, Francia C'è un rapporto tra noi prima ancora che di stima musicale, di vera e propria amicizia. Come con Gianni Maroccolo, pure lui conosciuto quando suonava con i Litfiba. La precondizione con tutti è stata: fatelo se vi ci volete buttare dentro, se avete voglia. Solo così si genera complicità.
Ci puoi raccontare il tuo '77? I motivi per i quali non c'è stato passaggio di testimone tra la generazione che l'ha vissuto e quelle dopo?
Prima di tutto il '77 sono i miei vent'anni. Oltre ad averne un ricordo storico c'è anche tutta la mia partecipazione emotiva. Nella memoria collettiva il '77 è un grande rimosso e nei racconti fatti negli anni dopo, spesso è presente un tono scuro. Invece io lo ricordo come un periodo molto solare, nonostante tutte le contraddizioni e gli attriti. Per alcuni è l'inizio degli anni di piombo, per me Filicudi, le stelle sui muri, l'apertura, la possibilità, la piazza come luogo dell'agire politico. Si creavano dei legami. A Napoli come in altre città, c'erano le piazze rosse, quelle nere e gli scontri Una cosa difficile da capire per chi non l'ha vissuta. Lontana dal racconto funereo che ne fanno. Anche la conflittualità esasperata io ero nell'Autonomia ed essendo spesso bersaglio dei fascisti anche l'aspetto militare era importante. Ma nonostante tutto, non riesce ad essere questo il segno di quel periodo. La mancanza di trasmissione di tutto questo alla generazione dopo, forse in parte è dovuta proprio alla natura e differenza del '77 dal '68, che invece è riuscito meglio a perpetrarsi, nel bene e nel male, nell'immaginario collettivo grazie anche al revisionismo di alcuni suoi leader passati da sinistra a destra senza troppi problemi. Il '77 portava dentro di sé invece questo rifiuto. Questa voglia di non perpetuarsi, di non porsi come padre. Per noi non esistevano i leader. Non volevamo essere "padri", non ci ponevamo il problema dei figli
In questo salto di memoria non c'entra forse anche l'ondata di eroina degli anni '80?
Quella è stata la risposta del potere, che aveva seri problemi con la ricchezza di quella generazione che lo metteva duramente in difficoltà. La risposta è stata molto lucida e cinica, inondare di eroina lItalia.
Negli anni '90 i centri sociali sono stati lo spazio dove potevano vivere culture che non avevano altra realtà dove esprimersi. Cosa è cambiato oggi?
Penso che una realtà quando ha qualcosa da dire funziona per sedimentazione. Sicuramente i centri sociali, oggi, non hanno la carica dirompente di dieci o quindici anni fa, il loro ruolo è cambiato. Tutto in ogni caso dipende sempre dalle energie che una generazione o un gruppo di persone riesce a mettere in un progetto. Il centro sociale per cui mi sono maggiormente speso era ad Acerra. In pieno craxismo, in una periferia dura. Si chiamava "Segnali d'accelerazione". Un posto incredibile, fuori da qualsiasi ipotesi o prospettiva, in un momento di pieno oscurantismo, almeno cinque sei anni prima di "Officina" a Napoli, tra l'85 e l'88. Sono sempre stati molto all'avanguardia in Italia c'era il vuoto.
Definiresti la vostra musica come politica? Ha senso come definizione?
Non la considero per la nostra musica un'espressione calzante. Magari può essere comodo per capire che tipo di persone siamo. Credo esista la musica politica, è una scelta molto particolare. Ma non sai mai se la realizzi per come la intendi. Secondo me è molto più politico James Brown che Guccini (ridiamo per l'accostamento, ndr). James Brown rimette al centro il corpo che noi abbiamo sempre più rimosso in duemila anni di religione cattolica. Questo per me è un fatto politico, ancora prima che musicale.
Intervista di Sandro Podda LIBERAZIONE 14/07/2005 |
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