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Springsteen

LA CASA DELLA MUSICA

Alberto Crespi – L'UNITA' – 26/07/2002

Springsteen tristesse

[...]The Rising è un disco cupo, triste, più rabbioso che malinconico. E' un disco sulla morte, sull'abbandono, sul dolore e sulla necessità di elaborare i lutti che la vita ci infligge. E' un disco post-11 settembre [...]

La lettera inviata a suon di musica ai potenti del mondo è firmata Allah, Buddha & Springsteen. Per il quarto “manifesto” della sua carriera, Bruce ha chiesto aiuto ai pagani. Chissà se in America, nella God's Country (la terra di Dio) dei Padri Pellegrini e del figlio d'arte George Bush jr., grande petroliere e piccolo presidente come il suo babbo, gliela perdoneranno?

Springsteen cita Allah in Words Apart: è un pezzo sui “mondi divisi”, sui Muri che dividono popoli e coscienza in molti paesi del mondo. Poi sfodera il nome di Buddha all'inizio di Mary's Place, la canzone che i vecchi fans cominceranno a canticchiare dal 29 luglio quando il nuovo disco, The Rising, sarà nei negozi (ricorda la vecchie ballate fiume, in stile Rosalita). E' una canzone multimistica – ci passate l'orrido neologismo? - che inizia così: “Ho sette immagini del Buddha, ho il profeta sulla lingua, undici angeli della Misericordia sospirano in un buco nero nel cielo”. La cabala mescola, diciamo così, l'Apocalisse, il buddhismo e l'Islam per arrivare a una conclusione festosa alla quale Bruce sembra convocare tutto il mondo: “Che venga la pioggia, facciamo una festa, vediamoci da Mary”. Ma è l'unica canzone serena di The Rising. Dal vivo, con la E Street Band lasciata libera di “pazziare”, diventerà probabilmente una di quelle cavalcate interminabili che Bruce usa per scaldare il pubblico nei pre-finali dei concerti (potrebbe mescolarla con un'altra delle sue canzoni da stadio, Tenth-Avenue Freeze Out: ha più o meno lo stesso giro). Ma nel complesso The Rising è un disco cupo, triste, più rabbioso che malinconico. E' un disco sulla morte, sull'abbandono, sul dolore e sulla necessità di elaborare i lutti che la vita ci infligge. E' un disco post-11 settembre, come in molti hanno anticipato. E quindi va subito sottolineato l'approccio mentale, artistico (e politico in quanto artistico) con il quale Springsteen parla alla sua gente. Intanto analizzando non solo il dolore immenso che l'America ha subìto, ma anche i dolori altrettanto forti. Ammetterete che ci vuole un bel soggiorno, da parte di un musicista così americano che più americano non si può, a citare quei due signori suddetti (Allah e Buddha) in un affresco che vuole cauterizzare le ferite di New York. My City of Ruins è in questo senso il pezzo più esplicito (anche se, per quelle misteriose premonizioni che i grandi artisti hanno di tanto in tanto, è stato scritto prima dell'11 settembre). The Rising è invece il solenne elogio funebre agli eroi delle Twin Towers (i pompieri, ma anche chiunque fosse là ad aiutare, a tentare di salvare qualcuno) e Into the Fire è l'atroce lamento di chi, ha perso una persona cara (“il cielo cadeva, striato di sangue. Ho sentito che mi chiamavi, poi se sei spartito nella polvere, su per le scale, dentro il fuoco”: into the fire, appunto). Ma, come si diceva, Worlds Apart e Mary's Place moltiplicano i punti di vista (nella prima, usando anche Asif Ali Khan e il suo gruppo per dare una coloritura da “world music”) e Paradise un incredibile pezzo che Bruce ha collocato in penultima posizione nel cd, osa l'inosabile, Paradise, paradiso, è il viaggio nella coscienza di un kamikaze. Springsteen lo fa capire in modo quasi impercettibile, con i due versi iniziali: “Dove il fiume corre verso il nero, prendo i libri di scuola dal tuo zaino, il plastico, i fili ed un tuo bacio, il respiro dell'eternità sulle tue labbra”. Per il resto, ad una lettura distratta, Paradise sembra una canzone d'amore, o un sogno kafkiano che mescola un “crowded marketplace” (un mercato affollato: dove, a Gerusalemme o a Sarajevo?) alla presenza della “Virgina hills” le colline della Virginia (a un passo dal Pentagono?). La canzone è enigmatica: non si capisce se il kamikaze sta parlando con chi si è lasciato alle spalle, o se qualcuno (un padre? Una madre? Una fidanzata? Colui che gli ha messo il plastico nello zaino?) gli lancia messaggi d'affetto mentre lui va a morire per uccidere i “nemici”. E' misteriosa come tutte le grandi canzoni, ed è forse l'inaspettato capolavoro del disco. Anche musicalmente è insolita: inizia con un delicato intreccio di tastiere e chitarra acustica, lancia una melodia che ricorda stranamente The Sound of Silence di Paul Simon, ascoltate il terzo verso, “plasticas wire and your kiss”, è cantarci sopra “because a vision softly creeping”: torna perfettamente) ma sotto, quasi impercettibilmente, emergono pian piano rumori di fondo, forse svisate di chitarra elettrica, che sembrano paesi lontani e danno alla canzone un tono arcano, tragico, distante. Una delle cose più belle che Springsteen abbia mai scritto.

Si è preso un bell'impegno, Bruce: un vero e proprio “white man's burden”, il fardello dell'uomo bianco. Ha dato voce a tutti i morti e i feriti del terzo millennio. E' questo il suo quarto manifesto, come dicevamo all'inizio. Il primo fu Born in the U.S.A., e fu frainteso: fu preso come un gesto di orgoglio reaganiano, quando era evidente che la canzone parlava di reduci dal Vietnam lasciati a marcire nelle pieghe del Sogno Americano. Il secondo fu The Ghost of Tom Joad, e fu chiarissimo: il disco parlava di tutti i disperati che premono ai confini dell'America, sognando di entrare nel giardino incantato proprio come i padri di Bruce (italiani da parte di madre, olandesi e irlandesi da parte di padre) e di tutti i “non nativi”. Il terzo fu American Skin: 41 shots, la canzone scritta per un ragazzo ucciso dai poliziotti a New York: anche lì, più chiaro di così. Ora arriva The Rising: titolo ambiguo (Alessandro Portelli, nella traduzione italiana allegata al cd, lo traduce “sollevarsi”, ma può alludere all'”ascesa” – in senso religioso – e al sorgere del sole), messaggio che una volta di più rischierà il fraintendimento perché i punti di vista fatti propri da Bruce stavolta sono numerosi, e contrastanti. Il vecchio eroe rock del New Jersey ci ha restituito in un disco la complessità del mondo: non è poco, e gli perdoneremo se su 15 pezzi (quasi 73 minuti di musica) sola una decina sono musicalmente all'altezza dei tempi andati.

Alberto Crespi – L'UNITA' – 26/07/2002



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