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BRUCE SPRINGSTEEN |
era
dal 1985 che il cantante non registrava un live |
02/04/2001 |
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Il
ritorno di Springsteen
Dal
vivo la sua canzone contro la polizia razzista roma
- Più che un disco, una conferma. Una risposta lanciata
col cuore e con la pancia a tutti quelli che potevano aver messo
in dubbio la tenuta del «Boss» a capo delle armate
del rock. Il doppio cd Live in New York City è una
maratona lussureggiante, una fucilata che dura oltre due ore e
venti minuti, perfettamente in scala coi tempi necessari a Bruce
Springsteen per sfogare la sua proverbiale energia. Ai tempi
d'oro i suoi concerti oltrepassavano le quattro ore, uno sforzo
fisico fuori dalla norma, considerando che tipo di musica
propone, al punto che alla fine della performance c'era una
squadra pronta ad avvolgerlo in un sacco riempito di ghiaccio per
«raffreddarlo» velocemente e prevenire eventuali
collassi. Del resto non si diventa eroi per caso. E la cosa più
stupefacente di quei concerti era che la gente non si stancava
affatto. Dopo quattro ore di musica urlava ancora richieste di
bis. Tutto all'estremo. La forza, il godimento, il sudore, il
senso di fuga verso la poesia negata della vita. Ma anche ora,
superati i cinquant'anni, ritrovatosi con i vecchi leggendari
compagni della EStreet Band, e perfino col vecchio amico pirata,
Little Steven, ci dà dentro con un matto. |
American Ski
IL TESTO DELLA CANZONE
41
shots...and we'll take that ride
|
Il
Boss torna dal vivo
Attesissimo
il doppio cd: dal 1985
OTTAVIA
GIUSTETTI il sito del Boss |
New
York, i "ragazzi in blu" di Giuliani contro il Boss
per
"Amerikan skin", una canzone per l'immigrato ucciso
La
chitarra di Springsteen
un'arma contro la polizia
domani
al Garden, il brano per Diallo
che fu ammazzato perché
scambiato per un criminale
VITTORIO ZUCCONI
SHINGTON
- Basta un accordo di chitarra per far tremare le code di paglia.
Bastano una canzone, un titolo, un grande del rock per scuotere le
coscienze inquiete di quella "tolleranza zero" che comincia
a stancare l'America. Sbarca a New York Bruce Springsteen, il Boss,
con una canzone nuova per i suoi dieci concerti al "Garden"
e scoppia subito la guerra tra chitarre e pistole. Si chiama
"American Skin", chiede se si possa ancora morire per la
sola colpa di essere nati dentro la pelle sbagliata come morì
quell'immigrato africano, Amadou Diallo, che i poliziotti di New York
scambiarono per un criminale e uccisero con 41 proiettili.
La
canzone risuona male, malissimo, nei commissariati, nelle
autopattuglie, nelle strade cattive che i 28 mila poliziotti di New
York devono battere e i "ragazzi in blu" dichiarano guerra
a Springsteen, lo boicottano, rifiuteranno il servizio di sicurezza
al Madison Square Garden, vorrebbero cacciarlo dalla loro città.
E nello scontro fra parole e proiettili si sente il suono della fine
di un'epoca, del mito della città stanca di essere l'OK
Corral.
Eppure Springsteen era sempre stato un idolo di uomini
e donne in divisa, con quella sua musica ruvida e profumata di
asfalto, la sua voce da taverna, il patriottismo accanito e un po'
disperato di chi grida d'essere "Born in the USA", nato in
America con la voce arrochita. Se il sindacato degli agenti di New
York arriva non soltanto a boicottarlo, ma ad accusarlo di "essere
venuto al Garden per imbottrsi il portafoglio con i drammi della
nostra città" è perché la polizia, qui come
a Los Angeles, come in tutte le città investite dalla sbornia
della "tolleranza zero" si sente sempre più
abbandonata da politicanti che prima l'hanno lanciata in guerra
contro i cittadini e ora cominciano a rinnegare quegli eccessi ai
quali l'hanno incitata.
La canzone "American Skin"
non fa nomi, ma non ce n'è bisogno: quando Springsteen canta
dell'uomo che muore soltanto per "avere vissuto dentro la
propria pelle americana", sotto uno sciame di quarantuno
proiettili, tutti, a New York, sanno che canta del giovanotto
africano completamente incensurato, ucciso nell'androne di casa
soltanto perché tirò fuori dalla tasca un portafoglio
che un gruppo di agenti in borghese scambiò per un'arma, la
sera del 9 febbraio 1999.
I quattro agenti, quattro uomini
delle Pattuglie Anti Crimine create da Giuliani, sono stati assolti
da ogni accusa e la polizia di Manhattan vuole che la vergogna di
questo omicidio sia dimenticata in fretta. Esattamente il contrario
di quello che il pezzo di Springsteen, e i suoi dieci concerti già
tutti esauriti al Garden, faranno.
Hanno paura che le liriche
della sua canzone, la passione che The Boss sa suscitare in chi lo
ascolta possano sollevare la polvere e gli animi, attorno a una serie
ormai molto lunga di violenze commesse sotto la bandiera di una
"tolleranza zero" che spesso era soltanto intolleranza per
la pelle, il colore, l'accento, l'essere "straniero". Per
l'omicidio di Diallo, per la tortura di Abner Louima, un haitiano al
quale gli agenti di un commissariato si divertirono per ore a
infilare manganelli nel sedere "perché tanto voi siete
tutti froci", per i 30 mila arresti all'anno che il New York
Police Department e le "Unità Stradali Anticrimine"
compiono contro neri e sudamericani senza altro sospetto che la
"presunzione razziale di colpevolezza", la città
vive nella paura di una rivolta, come quella che squassò Los
Angeles nel 1992 dopo il fermo e il pestaggio di Rodney King. E le
note di Springsteen sembrano, ai poliziotti, cerini accesi buttati in
un serbatoio di benzina.
Sono soprattutto la rabbia, il
rancore, il senso di frustrazione e di confusione, le molle che hanno
sollevato la polizia di Rudi Giuliani contro il piccolo dio del rock,
improvvisamente nemico. A New York come a Los Angeles, dove un
processo in corso ha sollevato la pietra sopra il verminaio della
corruzione poliziesca e dei falsi arresti (73 detenuti già in
carcere sono stati liberati perché gli agenti avevano
"inventato" prove contro di loro) gli uomini e le donne
della pubblica sicurezza sono chiamati a un'impresa impossibile:
quella di prevenire, stroncare, combattere sui marciapiedi la guerra
dell'ordine senza svelare lo sporco segreto che ogni politicante
conosce e nessuno osa dire. Che "tolleranza zero" vuole
dire "intolleranza razziale".
Nei ghetti neri di
Harlem, di East L.A., di Watts, la polizia è il nemico, perché
ogni ragazzo scuro all'angolo di una strada, ogni portoricano, ogni
africano dinoccolato è un sospetto. Segretamente i
dipartimenti di polizia usano il "racial profiling", gli
stereotipi razzisti che fanno di ogni giovanotto nero un indiziato.
Uno studio recente sulla brutalità poliziesca rivela che l'83
per cento di tutti gli arresti per "probabile causa", per
sempilice sospetto, colpiscono afro americani e persino giornalisti,
professori universitari, atleti di colore confessano di avere paura,
quando guidano auto di lusso lungo autostrade, perché un nero
che guida un'auto di lusso è, per definizione, un sospetto.
Governatori, sindaci, sceriffi eletti con la promessa di "fare
pulizia" chiedono arresti, statistiche, successi da vendere agli
elettori, come i generali in Vietnam chiedevano il "body count",
il conteggio dei caduti nemici, da vendere ai politici e ai giornali.
Ma quando esplode lo scandalo, i politicanti- mandanti si uniscono
all'indignazione. Pagano sempre i poliziotti da strada.
Ora
che l'alta marea dell'economia ha ridotto il numero di crimini
commessi - questa del rapporto fra disoccupazione e criminalità
è la sola correlazione certa e dimostrabile in tutte le città
e tutte le nazioni - il piedipiatti invocato come salvatore di ieri,
diventa l'ingombrante, imbarazzante brutalizzatore di oggi. E questo
spiega la collera dei "boys in blue" di New York contro
Springsteen, la reazione violenta a una semplice, banale canzone.
A
Los Angeles i poliziotti sono dati in pasto ai giudici, per tenere
buone le masse di latinos e di neri. A New York, per ora, sono
crocefissi alle chitarre di Bruce e della E Street Band, il suo
gruppo. Ma il loro santo protettore, Rudi Giuliani, è malato,
è, anche se guarirà, alla fine della sua carriera
politica. I poliziotti hanno paura della vendetta di coloro che
indossano dalla nascita l'"American Skin" sbagliata.
(11
giugno 2000)
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