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25 aprile

ULDERICO MUNZI

PRIGIONIERI DELLA MEMORIA

ULDERICO MUNZI – DONNE DI SALO’
pag. 57-62

Elsa Ravelli e suo marito Enzo Spinelli, nuotatore paracadutista della Decima Flottiglia Mas, vivono in una tenuta di Larciano, in provincia di Pistoia e a pochi chilometri da Montecatini. Offrono "vacanze verdi" in un quadro d’antica Toscana. Mi ricevono il 23 Giugno 1999. La signora Elsa Ravelli era un’ausiliaria del SAF formata al "corso Roma", che si svolse dal 1° luglio al 18 agosto 1944. Aveva 23 anni. Ha vissuto giorni di guerra sul fronte francese e giorni di umiliazione e dolore durante la ritirata in Piemonte.

Io non odio, ma non perdono. Forse è più semplice dire che non ho mai saputo odiare. L’ho detto, qualche giorno fa, alle tre infermiere dell’ospedale di Pescia dov’ero stata ricoverata per un piccolo intervento agli occhi. Una di loro mi aveva chiesto:

"Cos’è, signora, quel distintivo che porta all’occhiello della giacca?"

"Il gladio del mio giuramento quand’ero ausiliaria fascista. Vedi, figlia mia, quando si bacia la bandiera e si giura fedeltà alla patria" ho risposto.

"Lei era fascista? E lo dice così?"

"Non posso vergognarmi della mia gioventù".

Più tardi, le tre infermiere sono venute accanto al mio letto mi hanno chiesto di raccontare.

"Ha giurato fedeltà a Mussolini?" ha chiesto subito la biondina.

"Noi non giuravamo fedeltà a Mussolini, ma all’Italia".

Le tre infermiere mi ascoltavano come se ascoltassero una fiaba. Non avevano mai sentito parlare di noi ausiliarie. Non ci sono tracce della nostra esistenza nei libri di scuola dei nostri giorni.

Ho detto: "Sì, ragazze, fedeltà alla patria, grossa parola ai miei tempi. Non Credo che assomigli, scusatemi, alla patria di oggi. Forse, voi direte grazie al cielo. Io non posso dirlo. Non so nemmeno cosa immaginiate quando si dice patria. vedete, la nostra patria era una cosa che portavi dentro. Non stava nel cervello che ragiona, spezzetta, esamina, invigliacchisce. Semmai stava nel sangue. Una cosa che non era sempre luminosa, ma si accendeva quando la storia, grossa parola anche questa, lo chiedeva. A me e a tante altre ragazze come me la storia lo ha chiesto. E siamo partite."

"Lei dove è andata?" ha chiesto stavolta la brunetta.

"Mi hanno inviata sul fronte francese, al forte di Vinavio dov’era schierata la divisione Littorio. Eravamo in quattro, io come capo nucleo, diciamo come ufficiale, e l’Orlando, la Lozza e la Pasi, la dolce Milena. Sulla neve, in giacca a vento bianca, ci apparve il capitano Elvezio Nichelli. Nessuna di noi s’accorse che era un bell’uomo, alto, sportivo. Ce ne siamo rese conto a guerra finita…"

"Perché non ve ne accorgeste? I maschi non facevano effetto a voi fasciste?" ha ironizzato la biondina.

"Ai nostri occhi era solo il capitano. Avevamo una disciplina ferrea che ci avevano imposto, che noi ci eravamo imposte. Le ausiliarie dovevano essere perfette. Altro che puttane dei fascisti, come diceva il nemico. Sì, il capitano Nichelli era proprio un bel fusto. Ma non c’era il tempo…. I francesi tiravano con cannoni e mortai, si volevano annettere una bella fetta d’Italia. E poi e poi… noi sentivamo che la guerra era persa. Il crollo mi sorprese a Cuneo. C’era anche un mio cugino di Cengio, che è il mio paese nativo. Anche lui era un ufficiale della Littorio. Disse: ‘Elsa, ti rodino di andare dai miei a Cengio".

"Lei aveva paura dei partigiani?" ha domandato la terza infermiera che fino ad allora se n’era stata zitta. Aveva una luce trionfante negli occhi. la nostra parte di Toscana è rossa. Doveva essere rossa anche lei.

"Io non avevo mai visto un partigiano sulle montagne. Una volta, con la Milena Pasi, abbiamo attraversato a piedi un pezzo di Piemonte cantando a squarciagola Me ne frego è il nostro motto, me ne frego di morir. Forse, i partigiani hanno avuto pietà di due ragazzine completamente matte. Se penso a Gianluigi L., oggi amico mio, che mi ripete: ‘Se io t’avessi sentito cantare quand’ero con i garibaldini, ti avrei sparato addosso, Elsa mia’. E bravo, Gianluigi".

"Lei non ha nessun rimpianto, signora?" ha chiesto all’improvviso la biondina.

Dio mio, ho pensato, questa ragazza ha colto nel segno.

E ho risposto: "Sì, ho un rimpianto, c’è una spina ficcata nella mia carne. fa ancora molto male, sapete, e ha anche un nome. La spina si chiama Pino. ragazze, ormai le immagini dei giorni di guerra entrano ed escono dalla mia testa come i mosconi d’estate. Tranne il volto di Pino, tranne il mio povero Pino. Lui è sempre lì con i suoi grossi occhi verdi. Cercate di capire, figliole. Non è che contino poco nella storia di una donna in guerra i due partigiani ubriachi che volevano violentarla in un pagliaio. Contano, eccome contano. Era il 1° Maggio del 1945, dopo la resa della Littorio ad Alpignano. Dicevano: con i fascisti sì e con noi no? Fu il loro comandante, un tale di nome Danzeri, a salvarmi assieme all’ausiliaria Antonietta. E certi giorni, sapete, mi verrebbe voglia di ritrovare, se sono ancora vivi, i garibaldini che ci presero a cavalcioni sulle spalle per farci attraversare la Dora Riparia. cantavano Bella ciao e noi ci dicemmo con l’Antonietta: vedrai che arrivati a metà ci affogano. Invece, passammo sull’altra riva e ci venne voglia di cantare con loro. Ma sono immagini, mosconi, ragazze mie, mentre Pino… E’ la prima volta che ne parlo".

"Signora Ravelli, se proprio non vuole…"

"Il Pino mi disse: ‘Elsa, non stare a seguire la colonna della Littorio, non andare a Milano, sai, ci sono grossi guai che stanno per venire giù come la grandine. Ascolta, Elsa, andiamo dai miei nonni che stanno vicino a Cuneo’. Disse ancora che in quella casa non mi sarebbe successo nulla. Gli risposi di no. Pino era innamorato di me. Insomma, era più lui a provare un sentimento. C’era un filo d’erba verde che stava spuntando.. Mai troncare un filo d’erba che cresce nell’anima. Non era accaduto quasi nulla tra noi due. ‘No’ dissi a Pino ‘io seguo la Littorio’. E ci muovemmo. All’ultimo istante, girandomi a guardare indietro, vidi che Pino seguiva anche lui la colonna. Voleva proteggermi. Molti soldati se l’erano squagliata, anche qualche ausiliaria. Ce ne furono alcune che scelsero i partigiani e B. dovrebbe conoscerne i nomi… Ma questa è un’altra faccenda."

"Signora, finisca la storia di Pino".

"Già, Pino... Aveva già i capelli grigi nonostante i suoi ventitrè anni. Si chiamava Giuseppe Leone ed era un meridionale di Bari trapiantato al Nord. Ho cercato per anni il suo corpo.."

"Il suo corpo?" hanno chiesto in coro le ragazze.

"Il luogo dov’era sepolto il suo corpo. I parenti non me l’hanno mai voluto dire come se si vergognassero di lui: ma no, ma no, noi non si conosce nessun Pino, in famiglia non c’è mai stato un Pino, la Littorio? cos’è la Littorio? Le telefonata l’ho fatta qualche mese fa. Dopo più di mezzo secolo hanno paura di ammettere che un parente è morto da fascista, dalla parte sbagliata, per l’Italia di oggi deve essere per forza una colpa".

"Come è morto il Pino? Gli hanno sparato?" ha chiesto la biondina.

"No, i partigiani lo massacrarono di botte. Le bestie non agiscono così, uccidono e basta. Non agirebbero così nemmeno se avessero le mani e potessero usare i bastoni. Immaginate: uccidere un essere umano a pugni e randellate. Pino morì in questo modo. Il ragazzo che forse sarebbe potuto diventare il mio fidanzato, il mio sposo, se ne andò così, le ossa frantumate nel suo grigioverde che s’era trasformato in un sacco insanguinato. Ne uccisero altri ventotto, tutti ragazzi di leva. Sempre con le mani, i bastoni e i calci dei fucili. Io non odio, ma ditemi voi come posso perdonare. Sei ufficiali della Littorio erano stati fucilati dopo essersi arresi con il loro reggimento. Azioni di guerra, si giustificarono i partigiani. I ragazzi di leva, invece, dovevano essere ridotti in poltiglia. Perché? la guerra era finita, tutto era finito. Come possiamo celebrare il 25 aprile insieme con gli antifascisti, come propone qualcuno tra gli amici di Gianfranco Fini?"

Le tre infermiere non hanno fiatato.

"Qualcuno m’ha detto che i resti di Pino erano stati sepolti nel cimitero di Collegno, ma a Collegno non ce n'era traccia. Sapete, mi sento responsabile della morte di Pino, se fossi andata con lui dai suoi parenti, sarebbe rimasto accanto a me. Pino aveva tante attenzioni, era un uomo tenero. nel 1947 andammo con la Milena a Collegno e trovammo un mucchio di documenti. Un involucro che raccoglieva tutte le cose che portavano indosso i ragazzi massacrati di botte. E tra gli oggetti trovai il mio portafoglio che avevo regalato a Pino. C'era la mia fotografia macchiata di sangue, sangue antico, colore della ruggine. Sì, voglio trovare la tomba di Pino per portargli una rosa. Una rosa e mormorargli anche qualche parola."

"Mormorargli cosa?" hanno chiesto le infermiere.

"No, ragazze, quelle parole ci appartengono, a Pino e a me".


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