Quando
arrivò in Liguria Ilir
Butka aveva 26 anni. Era un giovane artista appena
diplomato all'Accademia Nazionale d'Arte di Tirana, scenografo,
pittore e ceramista, con esperienze di regista e sceneggiatore
nel cinema d'animazione. Ilir sbarca in Italia da clandestino e
ci resta cinque anni. Di giorno fa il muratore e il restauratore
a Genova e Savona, di notte dipinge, fotografa, ruba ore al sonno
per continuare il suo percorso di artista. Con tenacia,
stringendo i denti, in una Genova che lui definisce il mio
primo grande amore in Italia.
Nel
1996 Ilir Butka attraversa di nuovo l'Adriatico e ritorna nel suo
paese, fonda i Fasada Studio, oggi leader nella produzione audio
visiva in Albania, realizza un cortometraggio, Tunnel, che
fa il giro dei festival europei, fonda e dirige il primo Tirana
International Film Festival, che si è appena concluso.
Tra i progetti di Ilir Butka ce n'è uno che riguarda
Genova, un cortometraggio dal titolo "Tirana-Genova.
Andata e ritorno", la storia di un
immigrato albanese in Italia, la "sua" storia, scritta
insieme alla sceneggiatrice genovese Silvia
Mastrangelo, già proposta in collaborazione con
Filmcommission al Comitato Genova 2004 (con un piano di
produzione di circa 15mila ), e non accolta. Una storia che oggi,
a un mese dal crollo del Museo del Mare e dalla morte del giovane
operaio albanese Albert Kolgjegja, acquista un valore nuovo, un
importante significato di testimonianza "dal di dentro".
Ilir,
quando e come arrivò in Italia?
Nel
1991, a bordo di una di quelle terribili navi piene di gente,
sbarcammo a Brindisi. Poi da lì arrivammo a Savona,
saremmo stati mille albanesi.
Cominciò
subito a lavorare?
Piano
piano. Grazie a un mio amico architetto sono entrato nel cantiere
di Palazzo Ducale, nel pieno dei lavori per le Colombiane del
'92. Io e altri quattro miei amici che avevamo fatto le Belle
Arti fummo impiegati nel restauro, Palazzo Ducale e poi Castello
McKenzie.
Il
rapporto con i genovesi?
All'inizio
erano diffidenti. Sono gente di mare, hanno voglia di scoprire ma
sono molto cauti nell'aprirsi. Adesso posso dire che alcuni tra i
miei amici più cari li ho a Genova, amicizie consolidate
nel tempo.
Il
primo impatto con Genova?
Sono
arrivato un giorno di pioggia, subito mi è sembrata una
città molto scura, con lo smog che aveva lasciato i segni
sulle facciate antiche. Poi ho imparato a conoscerla e a capirla
dal punto di vista storico ed artistico. A Genova avete uno
sviluppo urbanistico molto interessante, in lunghezza, io abitavo
a Savona e la vedevo apparire dal treno, una città che
cominciava e non finiva mai.
I
ricordi più forti di quel periodo?
A
Genova ho vissuto gli anni fondamentali della mia formazione
morale e psicologica. Avevo fatto una scelta molto dura, cambiare
il "luogo" della mia vita, andare in una città
che è diventata anche mia. Quando a Cannes ho conosciuto
Andrea Rocco della Filmcommission lui si è presentato
"Andrea Rocco da Genova", e io "Ilir Butka da
Genova", siamo diventati amici.
Quanto
le è pesato, a lei artista, lavorare nei cantieri?
Non
c'era altra possibilità. Sarebbe stato ridicolo pensare ad
altro, avevo esigenze materiali, dovevo vivere. Un emigrante non
ha spazi nel mondo dell'arte, e io ero un emigrante come tutti
gli altri. Però ho continuato, con degli amici ho
affittato un locale a Savona, abbiamo comprato un forno per la
ceramica, ogni sera dopo il lavoro preparavamo le nostre opere,
abbiamo fatto mostre ad Albisola e a Bologna.
Veniamo
al progetto del cortometraggio "Tirana-Genova. Andata e
ritorno". Acquista un significato diverso dopo l'incidente
in cui ha perso la vita Albert Kolgjegia?
Sicuramente.
Alla sceneggiatura originale aggiungerò un capitolo sulla
vita degli operai albanesi a Genova. Anche se dobbiamo essere
cauti, non strumentalizzare questa tragedia. Mi sono informato su
Albert, abitava in un quartiere alla periferia di Tirana, ma la
sua famiglia veniva dal nord dell'Albania. Albert era un
emigrante che già apparteneva a una famiglia di emigranti,
farò delle ricerche per sapere di più sulla sua
vita, come è arrivato in Italia, come ha vissuto.
In
Albania la notizia della sua morte ha suscitato reazioni?
Indifferenza.
La vera reazione morale è venuta da Genova, è una
conferma della sensibilità della città.
L'arte
può fare qualcosa per l'Albania?
Io
credo di sì. Può rappresentarci al mondo in modo
differente. L'arte, il cinema, la cultura possono far sentire i
nostri giovani protagonisti, offrire spazi alla loro energia,
presentare un'alternativa di vita diversa.
Intervista
di Raffaella Grassi - IL SECOLO XIX 09/12/2003
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