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Cambri, un genovese che canta le radici |
Marco Cambri, cantautore atipico, come sono atipici certi calciatori, racconta una bella storia. Sull'importanza delle radici, sulla bellezza del dialetto e sulle scelte che si fanno in un'intera esistenza. La storia di Marco Cambri, genovese, 49 anni, una faccia pulita., è racchiusa in un bell'album, A curpi de pria, a colpi di pietra, che si è prodotto con la band. Nessuno gli ha dato una mano. Le sue canzoni, in genovese, non sono la solita retrospettiva in dialetto, ma una collana di bozzetti come l'iniziale A colpi di pietra che dice mi guardava attenta, con il sorriso tra i denti e la pietra fra le dita, dita perennemente tinte dal succo dell'erba. Cambri, ma lei da dove viene? Sono nato a Quinto al mare, ma in campagna, sotto i bunker. C'era un cannone, lo avevano portato per sparare agli americani, ma non l'hanno mai usato. E oltre al cannone, chi c'era? I contadini che erano mezzadri e coloni, e le suore di clausura. Vivevamo in una famiglia allargata: nonna, nonno, zia, cugine in una casa rurale. Sono nato in quel mondo lì, e ho assimilato certi valori. Però poi se n'è andato, no? Nel '68 ho scoperto la contestazione, studiavo da geometra, e mi sono messo a lavorare con Pina Rando e l'Archivolto. Voleva recitare? No, facevo il tecnico delle luci e guardavo gli altri. Mi hanno insegnato il coraggio di affrontare le persone. E non parlo del palco. Lì ho cominciato a scrivere canzoni. Scrive in dialetto? Sì, l'ho sempre fatto. E quando nell'84 è uscito Creuza de ma di De Andrè è stato un incitamento. Lui e Fossati li conosciamo tutti. Mi sono sempre piaciute le loro canzoni in genovese. E lei ora con chi parla il dialetto? Con mia suocera e con quelli dei negozi, su a Bassi, vicino a Neirone, in Val Fontanabuona. Sto in un posto isolato, in una ex scuola elementare. Posso suonare, fare quello che voglio, ho l'orto... Oltre a suonare, cosa fa Cambri? Massaggi shiatzu. In qualche modo, sono sempre rimasto un manovale. A Genova torna spesso? Sì, per suonare, ma è molto cambiata. Io appartengo ancora alla gente che dalla campagna scendeva a lavorare in porto: gente con una forza tremenda, facevano i camalli e quando tornavano a casa, lavoravano ancora la terra. E la sua popolarità com'è arrivata? Col tempo, piano piano. Si andava in tournée col teatro e mi dicevano: suona qualcosa, le tue canzoni sono così belle. Me l'hanno detto per tanto tempo che alla fine ci ho creduto. Se uno ti ascolta, devi avere qualcosa da dire, altrimenti è ridicolo. In questo disco c'è una canzone d'amore, Rissi, per la mia Giovanna, e una autobiografica, Ninna mi sulla mia solitudine da bambino. Ecco, io sono così. Nulla di più. Intervista di Renato Tortarolo IL SECOLO XIX 10/04/2004 |
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