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ANDREA CAMILLERI

La realtà virtuale? Un déjà vu del fascismo

La deformazione delle notizie, dei fatti, è sempre stata un tratto saliente dei regimi autoritari. Oggi, venuti meno questi, almeno nel mondo occidentale, la realtà non sembra essere cambiata molto. Appare sempre più virtuale e modellata secondo le esigenze dei potenti. C'è insomma un filo rosso che lega la vecchia propaganda di regime a quello che oggi i media e i politici raccontano, per esempio, sulla guerra in Iraq o sul conflitto mediorientale, facendo scempio della verità. Per tutte queste ragioni di strettissima attualità, Andrea Camilleri ha pubblicato recentemente Privo di titolo (Sellerio editore, pp. 295, euro 11,00), la storia di un finto martire fascista e di una città intitolata a Mussolini, quest'ultima del tutto virtuale ma della cui esistenza il duce credette per un certo periodo grazie ad un ingegnoso fotomontaggio. Il tutto ovviamente ambientato nella Sicilia di Camilleri. Per farci raccontare la genesi di queste due storie, talmente incredibili da giustificare la scelta di un titolo "non titolo", siamo andati a trovare l'ottantenne "inventore" del commissario Montalbano nella sua bella casa di Roma, in via Asiago, proprio di fronte agli studi di Radiorai. “Non hanno una grande insonorizzazione e così spesso sento i concerti che trasmettono” dice lo scrittore, che non appare infastidito da queste note che arrivano di tanto in tanto. Nel suo studio ci sono copie dei suoi romanzi tradotti nelle lingue più varie. Dall'ebraico al portoghese - “ma si tratta di un'edizione brasiliana” precisa Camilleri - al greco, solo per citarne qualcuna.

Poi il racconto di come è nato Privo di titolo. “La storia la narro già nel primo capitolo di questo romanzo. Ci sono io, vestito in divisa fascista, che vengo convocato in questa grande adunata nel ventennale del sacrificio del martire. Lì vedo il cosiddetto assassino ma poi la cosa mi passò di mente. Ci sono tornato sopra quando ho letto un libro, Fattacci di gente di provincia, che l'autore, il giornalista nisseno Walter Guttadauria, mi mandò. Me lo mandò perché io avevo scritto Il birraio di Preston, che si svolgeva a Caltanissetta, e lui mi inviò la vera storia di quello che era successo in occasione della prima teatrale dell'opera, realizzata sempre a Caltanissetta. Il libro era pieno di fatti interessanti tanto che, con il suo permesso, saccheggiai un episodio che poi misi in un Montalbano. Ma una parte importante di questo libro era sul fatto di Gigino Gattuso, martire fascista.

Le tornò così in mente quell'episodio vissuto realmente in gioventù...

Sì, e scoprii che c'erano dei sospetti molto seri sulla versione dei fatti che era stata accreditata. Gigino Gattuso non era stato ammazzato dal feroce comunista, che io avevo visto piangere nel '41, ma bensì, per errore naturalmente, da un altro camerata durante l'aggressione al comunista. Si direbbe oggi da fuoco amico. Ora, tutto questo non venne chiaramente fuori durante il processo del '24, con il fascismo saldamente al potere perché aveva superato la crisi Matteotti. Però in quel processo si ribaltarono le conclusioni del primo. Nel primo, appunto, si disse che era omicidio volontario, nel secondo invece si disse che l'assassino aveva "agito in stato di legittima difesa e quindi se ne ordina l'immediata scarcerazione e la restituzione dell'arma illegalmente detenuta".

Una vera e propria retromarcia...

Si trattò di una sentenza di comodo che mise in libertà quello che fino a quel momento era stato considerato un assassino al punto che lui stesso si considerò tale. Perché la cosa strabiliante è che il Ferrara credeva di aver realmente ucciso il giovane. Ci furono due colpi partiti contemporaneamente ma quello che uccise il fascista era stato sparato in realtà dall'altro camerata. La conclusione è che, essendo il fascismo imperante, ed essendo l'unico martire fascista siciliano, si sfruttò questo povero ragazzo ammazzato a diciotto anni da un suo compagno, e lo si trasformò in un simbolo della fede fascista della Sicilia. Gli vennero intitolate scuole, aule magne, tutto. Anche se il processo mise questi dubbi fortissimi.

Una storia intrigante per uno scrittore come lei...

Infatti mi ha tentato molto, anche perché in contemporanea stavo leggendo l'incredibile storia di una città inesistente se non nelle fotografie, che è Mussolinia. Nel '24, proprio mentre si svolgeva il processo, venne fondata una città nei pressi di Caltagirone, intitolata a Mussolini. Si costruirono due torri, si spianò un po' di terreno e Mussolini, quando arrivò nel '24, mise la prima pietra, che però non fu la prima perché appunto c'erano già le torri. Sei anni dopo il duce se ne ricordò e chiese a che punto fosse la costruzione della città. Tutti piombarono nel panico perché, nel frattempo, non esistevano più neanche le due torri, in quanto erano state smantellate dai pastori per costruire delle case. A quel punto realizzarono un fotomontaggio e glielo mandarono. A Mussolini il fotomontaggio piacque moltissimo, tanto che ne mandò una copia alla Sonzogno casa editrice perché inserisse Mussolinia nelle cento più belle città d'Italia. Ma non finisce qui. A Caltagirone, gli avversari dei fascisti che erano al potere, realizzarono una cosa meravigliosa. Fecero un secondo fotomontaggio facendo credere che nella città era arrivato il mare che si trova a 95 chilometri di distanza. E nel retro c'era scritto "Duce, siamo riusciti a portare il mare a Mussolinia". Mussolini capì l'inganno e così Caltagirone, che era in lizza con Enna per diventare capoluogo di provincia, perse la contesa.

Perché l'idea di mettere queste due storie insieme?

Perché oggi viviamo in un mondo nel quale non sai qual è la linea di demarcazione tra realtà virtuale e realtà vera, e le storie che ho raccontato sono un primo rozzo, ma riuscito, tentativo di alterazione della realtà. Per quanto riguarda l'oggi, all'età venerabile di ottant'anni sono sconvolto da quello che succede. Le televisioni, che fino ad un certo momento sono state fabbriche del consenso, oggi hanno fatto un salto in avanti e sono diventate fabbriche del credere. Del credere in che cosa? In una fede di comodo. E lo abbiamo visto nella guerra all'Iraq. All'Onu gli americani mostrano del materiale in base al quale Saddam Hussein avrebbe avuto armi di distruzione di massa. Armi, che, secondo il primo ministro britannico Blair, sarebbero state capaci di distruggere una città europea in 48 ore. Quindi c'è la necessità della guerra preventiva prima che questo dittatore pazzo scateni l'apocalisse, costi quel che costi in vite umane. Dopo di che veniamo a sapere che queste armi non c'erano. Colin Powell dice "sono stato ingannato". Ingannati in realtà siamo stati noi. Però, malgrado questo, il presidente Bush viene rieletto con quella maggioranza che aveva solo sognato nelle prime elezioni. Quindi è diventata una fede difficile da sconfiggere assai di più di una fede religiosa, perché è una fede di comodo.

La difficoltà a leggere la realtà per quella che è passa anche attraverso la rilettura della storia in chiave politica. Che cosa ne pensa?

Un revisionismo storico che sia un sano revisionismo, è ammesso, è giusto, è doveroso. Tu non puoi sentire sui fatti della storia una solo voce. Ne devi sentire anche altre. Che si facciano le trasmissioni televisive su Cefalonia, per cancellare un lungo silenzio su un fatto straordinario che ha caratterizzato l'esercito e non i partigiani, è giusto e parte da una giusta revisione storica. Ma quando il revisionismo parte da un presupposto politico è già un errore storico. Cioè l'oggettività storica è andata a farsi benedire. Ecco perché io ho scritto questo libro. L'ho scritto per dire "guardate che le radici di tutto questo non nascono ora, ma parecchio tempo addietro".

Intervista di Vittorio Bonanni – LIBERAZIONE – 15/04/2005


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