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Mi ricordo l'altro Camilleri |
Il
bello di questo mestiere sta nel fatto che potenzialmente
puoi incontrare chiunque. Ma questo mestiere non ti obbliga a
intervistare qualcuno in particolare. E questa è una garanzia
(per chi scrive, e per chi legge).
Parlerò di Andrea
Camilleri. Il tema proposto infatti è intrigante: scrivete di
qualcuno - raccontandolo, descrivendolo - che avete avuto modo di
conoscere solo attraverso il vostro mestiere di giornalista. Qualcuno
- questo è sottinteso - che non avreste mai avuto l'occasione
di incontrare se aveste fatto tutt'altro lavoro.
Per entrare in argomento, forse, potremmo azzardare che un giornalista può sostenere di cominciare a conoscere veramente qualcuno solo dopo averlo intervistato, dopo averne catturato, anche se in mezzo pomeriggio, anche se di fronte al tavolino traballante di un bar, nella affollata sala d'aspetto di una stazione, nella quiete del salotto buono di casa sua, l'attenzione, il filo del discorso, la trama dei ricordi, la logica dei suoi pensieri su un determinato argomento. Incontrandolo a tu per tu, oltre lo spettro deformante dell'ufficialità, meglio ancora se alle prese con la quotidianità, alla quale non sfugge neanche chi è destinato a entrare nella memoria dei posteri (e non tutti gli intervistati avranno questo privilegio).
Un giornalista conosce tantissima gente, ma solitamente la conosce di vista, di fama, o di nome. La conosce di sfuggita. Di molte personalità, o personaggi, o protagonisti di una vicenda specifica, può avere sentito parlare infinite volte, letto quanto hanno detto o scritto, ma solo la scintilla dell'incontro diretto provoca quell'inevitabile salto di conoscenza destinato a arricchire intervistato, intervistatore e lettore. Sempre che lintervista sia una buona intervista, che l'intervista abbia un suo significato andando incontro alla curiosità del pubblico e che, di conseguenza, si avvicini alla quota di sbarramento rappresentata da quella manzoniana venticinquina di lettori. Insomma: un conto è il gossip, altro conto un'intervista.
Al di sotto del genere intervista si collocano la raccolta delle dichiarazioni e le frequentazioni telefoniche con la personalità, ma non si può parlare di autentica conoscenza, pur essendo, quelle appena elencate, altrettante forme di giornalismo.
Veniamo al punto. Quando mi è stato chiesto da questo giornale di parlare di un mio incontro che non mi sarebbe stato possibile se nella vita non avessi scelto di fare il giornalista, ho risposto senza esitazione che avrei parlato di Andrea Camilleri. Per la semplice ragione che incontrare e intervistare lo scrittore di Vigàta è stata un'unica esperienza, che si è consumata tutta nell'arco di tre ore di un pomeriggio del luglio del 2001: il testo integrale venne pubblicato dallUnità il 19, in occasione dell'anniversario della strage di Via d'Amelio, uccisione di Paolo Borsellino insieme con uomini e donne della scorta (e proprio quell'anniversario rappresentò lo spunto per incontrarci). Intervista, quella, senza preamboli, senza anticamere, senza la trattativa su data e orario dell'incontro che spesso condizionano fastidiosamente incontri come questi. In perfetta e, per tanti aspetti, inspiegabile sintonia. Poi, che da quel primo incontro ne sia venuto un altro, con conseguente nuova intervista per questo giornale (14 novembre 2003), e, prima, un libro vero e proprio (La linea della palma, Rizzoli editore) è altra storia.
Ho accennato al motivo per cui oggi
la mia scelta sia caduta su Andrea Camilleri. Resta da capire perché,
a suo tempo, fui spinto dalla curiosità professionale di
andarlo a trovare. Rispondere a questa domanda, per me, è
assai facile.
Andrea Camilleri è lo scrittore più
popolare in Italia, subito dopo il Papa. Già questo aspetto,
da solo, valeva bene una lunga chiacchierata. Ma mi rendevo anche
conto che proprio lo scrittore laico più popolare d'Italia,
quello che aveva inventato il poliziotto Montalbano, era anche lo
scrittore italiano più oscurato, più taciuto, più
tenuto lontano da occhi e orecchie indiscreti, proprio da quei
circoli intellettuali e da quegli ambienti editoriali che se lo
contendevano. E se lo contendono ancora adesso.
Dalla testa, antica e moderna assieme, di Andrea Camilleri, era scaturito Montalbano, poliziotto dal volto buono, in quel di Porto Empedocle. E questo gli veniva riconosciuto, andava bene, benissimo. Tutto burro che colava. Questo faceva moltiplicare a dismisura le tirature, alimentare il mito e lievitare l'evento (le vendite). Poteva bastare. Insomma: punto e basta. Idee politiche? Idee politiche di Camilleri? Chissà.
Eppure non ci voleva molto a
capire, da dichiarazioni che trapelavano qua e là, su questo o
quel quotidiano o quel settimanale, che Camilleri era scrittore
letteralmente incompatibile con l'Italia berlusconiana, con la sua
arroganza, con la sua povertà (assenza?) di valori, con il suo
cinismo, con la sua spregiudicatezza demolitoria di tutto quanto gli
italiani avevano costruito in oltre mezzo secolo di storia. Diciamo
Italia berlusconiana. Ma dovremmo scindere, dicendo: Silvio
Berlusconi, e un Italia che, per qualche anno, venne letteralmente
plagiata dalleterno golpista del vorrei ma non posso.
A
mio giudizio, ci sono due ragioni a spiegazione non,
ovviamente, a giustificazione di questo oscuramento sapiente e
impalpabile. La prima è che lascesa di Camilleri, come
scrittore italiano popolare, è andata curiosamente a
collocarsi proprio nel momento in cui Berlusconi stava costruendo le
fondamenta del suo teatrino funambolico. Crescevano a dismisura i
fondali di regime (dopo la rovinosa caduta del 1994), e Camilleri era
messo lì, nel mezzo, quasi a fare ombra, comunque da intralcio
potenziale per gli ingegneri della Casa delle Libertà tutti
impegnati a tirare su litalietta degli Schifani e dei Miccichè,
dei Cicchitto e dei Bondi e degli Scajola, dei Nania, dei Gasparri e
dei La Russa, dei Giovanardi e dei Calderoli e dei Maroni.
Camilleri, allora, un po come
il Mario di Thomas Mann nel Mario e il mago che
poteva spezzare lincantesimo del mago Cipolla, svelare alla
folla i trucchi dellincallito prestigiatore, denudarlo
concettualmente, metterlo alla berlina, ridurlo al silenzio. La
seconda: mettevano paura le radici antiche e profonde di una vecchia
Sicilia, quelle che, venendo da molto lontano, non trovavano posto
nella ventiquattrore di un commediante venuto a recitare il suo
numero usa e getta.
Ecco perché lo scrittore
siciliano doveva restare, agli occhi del grandissimo pubblico, solo
lautore del personaggio Montalbano. Tanto è vero che,
prima di quella intervista allUnità, è
impresa davvero difficile trovare sui quotidiani un testo che
riassuma per intero le posizioni politiche di Camilleri in quella
fase.
E proprio vero che ci
vuole orecchio, per dirla con la canzone di Enzo Jannacci; si
capiva lontano un miglio che un siciliano come lui sarebbe stato in
condizione se solo qualcuno glielo avesse chiesto di
riempire pagine e pagine sullargomento mafia e lotta alla
mafia. Per carità. Peggio che andar di notte. Quel governo si
stava accingendo, per bocca di un suo ministro, a battere tutti i
record più negativi di centocinquanta anni di storia italiana
con laffermazione che con la mafia sarebbe stato conveniente
convivere. Quindi anche questo Camilleri
Montalbano accetterebbe mai di convivere con la mafia? andava
troncato, zittito, disperso, qua e là, fra qualche quotidiano,
qualche settimanale.
A proposito di cose di mafia, resta
insuperata, nella nostra intervista, la descrizione che diede di
Bernardo Provenzano, il latitantissimo gran capo dei capi di Cosa
Nostra: Come lo immagino? E questo che mi affascina:
avere un potere, un grosso potere, e vivere dentro una grotta
però ha lidea del potere. E plurimiliardario.
Provenzano è la quintessenza del modo di dire siciliano: u
cummannari è megghiu ca futtiri. Il distillato, il
condensato assoluto: tu lo metti a brodo e dai da mangiare a mezza
Sicilia, con il brodo di questo suo cumannari è megghiu ca
futtiri. Lo immagino come una capra. Che non rumina solo mentalmente.
Si terrà leggero, o forse mangerà il capretto infornato
con le patate
suo malgrado è diventato un simbolo.
Ma non è finita. Cè un Camilleri pacifista, contrario alla guerra, sensibile alle ragioni del mondo arabo, indignato con lesibizione muscolare contrabbandato come lotta al terrorismo internazionale. Montalbano ordinerebbe mai un bombardamento a tappeto, indifferente alla natura dellobbiettivo da colpire?
Cè ancora un altro Camilleri, contrario alla blindatura dei confini europei di fronte alla marea montante dellimmigrazione di popoli che vengono da altri mondi perché hanno fame, cercano lavoro, sfuggono a regimi dittatoriali, carestie, epidemie mortali. Neanche questo Camilleri, ovviamente, poteva essere considerato politicamente corretto. Ce lo vedete Montalbano che sulla banchina di Porto Empedocle vestendosi di autorità e impugnando un megafono, vieta l'attracco a una nave di disperati?
Infine, questo scrittore, che oltre
a essere il più popolare, è anche tra i più
scomodi, in gioventù ebbe persino simpatie comuniste.
Giunto
a questo punto, credo di essere riuscito a rendere almeno l'idea del
perché, in quel luglio 200l, cercai Camilleri per
quell'intervista. Rileggendola, mi accorgo che contiene, sia pure
entro i limiti imposti dai ritmi di un quotidiano, la sintesi dei
tanti aspetti del Camilleri- pensiero (sociale e
politico, s'intende, non avendo, quell'intervista, alcuna pretesa
letteraria). Mi accorgo anche -e il discorso non vale solo per questa
intervista ma per tutti gli incontri che fra noi ci sarebbero stati
in seguito - che il punto di vista dello scrittore di Porto Empedocle
regge all'usura del trascorrere degli anni.
Cerco di spiegarmi meglio. Ascoltando Camilleri, soprattutto sulle questioni di natura internazionale, sull'argomento di guerra e pace, sull'America di Bush, sul terrorismo, qualche volta mi assaliva il dubbio che le sue affermazioni fossero indiscutibilmente suggestive, ma leggermente apodittiche, insomma non altrettanto in grado di «indovinare» con precisione gli sviluppi futuri delle situazioni.
Commettevo - ora me ne rendo conto
- un errore marchiano. Rileggete, per esempio, ciò che
profetizzò sull'Iraq e confrontatelo con le cartoline
da Baghdad che ogni sera ci propongono i nostri telegiornali. Più
che di bombe intelligenti, destinate a esportare la
democrazia, dovremmo parlare di previsioni intelligenti,
destinate a indovinare che il peggio doveva ancora accadere (e il
peggio sta ancora accadendo oggi, se è per questo).
Voglio
adesso riproporvi solo qualche riga di quella intervista di tre anni
fa. È la risposta di Camilleri a questa mia domanda
sull'Italia berlusconiana: C'è speranza, o ha ragione
Indro Montanelli?.
Camilleri: Ha ragione Montanelli. Per me è un amaro calice, e lo devo bere sino alla feccia. Se questa esperienza del governo Berlusconi non viene patita, e non dico vissuta, gli italiani non se ne renderanno conto. È stata data fiducia al fascismo sin quando non ci fu la guerra. Non succederà una guerra e non lo auguro a nessuno. Però si sapeva che le promesse non sarebbero stati in grado di mantenerle. Ora hanno trovato questo comodo alibi dei sessantaduemila miliardi di buco, un buco che siccome non c'era dovevano inventarlo. A ca nisciuno è fesso, dicono a Napoli: lo sapevamo. Mi chiedevo che cosa avrebbero inventato per non mantenere le promesse. Adesso lo so. E se lo sono inventati bene, con una cifra che è come un blob. Ma se fosse vera, non puoi dire: nel 2002 sarà tutto a posto. Dovresti dire: vi imporrò lacrime e sangue. E se non lo fai, vuol dire che non è vero niente. Non c'è cosa più terribile della disillusione degli italiani: prende forme spaventose. Si era appena agli inizi della nuova avventura del mago Cipolla.
Tremonti non c'è più.
Il buco dei sessantaduemila miliardi non c'è mai stato. Hanno
continuato a ripetere che avrebbero mantenuto le promesse. Le
promesse non sono state mantenute. La disillusione degli italiani ha
iniziato a prendere forme spaventose (quattro milioni di
elettori che alle ultime elezioni gli hanno voltato le spalle, non
devono essere apparsi al mago Cipolla una forma spaventosa
della disillusione degli italiani?). La verità ha
cominciato a farsi strada. Non era vero niente, appunto. E gli
italiani lo hanno capito, appunto. Direte che tutto era prevedibile.
Non è proprio così.
Esattamente tre anni fa, mentre
l'Unità pubblicava quell'intervista, l'Altra Italia era
letteralmente annichilita di fronte alle dimensioni del trionfo del
centrodestra. E si preparava a una lunga e sofferta elaborazione
del lutto. Il vecchio scrittore di Porto Empedocle, invece,
aguzzava la vista. L'avere attraversato il ventennio fascista - in
questo come Montanelli, con la sua profezia del calice amaro - deve
avergli fatto acquisire i benefici anticorpi che tornano utilissimi
ogni qual volta un'Italia, immemore e zuzzurellona, spinge sulla
ribalta il suo commediante di turno per godersi il numero
che farà.
Per concludere. Ma ditemi voi se trovate normale
che uno come lui non sia invitato mai in televisione per essere
intervistato in prima serata? Ditemi voi se trovate normale che in un
paese in cui si improvvisano opinionisti i personaggi più
strampalati, di Camilleri si debba poter dire solo che è lo
scrittore che ha inventato Montalbano?
Credetemi sulla
parola. L'ho conosciuto. In lui, c'è molto di più. Per
questo fanno di tutto per oscurarlo (e spesso ci riescono).
Saverio Lodato L'UNITA' 23/08/2004
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