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CINEMA

Il cinema, questione di vita o di morte

Lo scorso anno Tarnation è stato la rivelazione della Croisette. Scoperto dalla Quinzaine ci disse di un nuovo regista che si doveva tenere d'occhio. Da allora Jonathan Caouette ha fatto il giro del mondo coccolato dai festival internazionali, e intanto lavora a un nuovo film. Tarnation, ci racconta, è un ibrido di due parole: dannazione eterna e tarnished (macchiata di reputazione, ndr). Ma è anche una parola utilizzata del sud degli Stati uniti per definire l'inferno. Go to Hell, Go to Tarnation. «È anche il nome di uno dei miei gruppi preferiti di molto tempo fa...» dice. Tarnation ha vinto il festival gay di Milano. Caouette lo avevamo incontrato a Gijòn.

Come è iniziato tutto? Quando hai deciso di mettere insieme il materiale che avevi ?

Circa due anni fa. Scrissi una bozza di sceneggiatura con tre titoli provvisori : Tarnation, Lucid e Il giorno in cui scomparvi. Il progetto comprendeva molto del materiale che si vede nel film, anche se si trattava di finzione cinematografica. Quando ho finito la sceneggiatura mi sono reso conto che aveva poco in comune con i miei materiali. Si trattava di due entità completamente diverse tra loro. L'invito al Sundance mi ha obbligato a ridurne la durata da due ore a 88 minuti. È stato molto difficile. Dopo sono arrivati Cannes, Toronto, Los Angeles...È fantastico, il film è passato dalla versione digitale sul mio computer ai 35mm di distribuzione internazionale in un anno.

La musica ha un ruolo fondamentale...

La musica è un personaggio di per sé. Non è solo accompagnamento. Tarnation non esisterebbe senza musica. Tutto è iniziato con la musica. Ho cercato i corrispettivi visivi alle emozioni che mi dava la musica. Il film si apre su un suono, un proiettore su uno schermo che rimane nero. Quel rumore è per me il primo ricordo di ciò che può essere un film. La musica mi ha accompagnato nel montaggio, nella prima versione c'erano dei pezzi di Nick Drake, che «guidavano» il lavoro. Il montaggio musicale aiuta a assemblare rapidamente un gran numero di informazioni e emozioni diverse, permettendo di avvicinarsi a un cinema verità nel suo senso più viscerale.

L'aspetto autobiografico del film è molto evidente.

Filmare per me non è mai stato solo un divertimento. Era un meccanismo di difesa, una questione di vita o di morte. Avevo bisogno di difendermi dall'ambiente che mi circondava e di dissociarmi dagli orrori che vivevo. Il cinema mi ha salvato. Quando non mangiavo o dormivo, lavoravo sui film giorno e notte. Credo che Tarnation sia il primo lungometraggio completamente post-prodotto su I-Movie di Apple (montaggio, effetti, montaggio suono e missaggio). Vicky, la zia del mio compagno, gli ha regalato un computer l'anno scorso. Ho imparato tutto da solo, di notte, a utilizzare il programma. Di giorno lavoravo come portiere di un gioielliere della 5a strada. Ho dovuto licenziarmi per terminare il film. Spero che mi riassumano, hanno una buona mutua.

Come ha reagito tua madre Renée?

Adora il film. È contenta che la sua storia sia resa pubblica. Renée non è schizofrenica. La diagnosi è: disordine bipolare acuto e disordine schizo-affettivo, nel quale la ciclotimia copre la schizofrenia. Detto altrimenti Renée presenta dei sintomi maniaco depressivi anche se non è schizofrenica. È sopravvissuta a prove psicologiche spaventose. Adesso Renée è felice. La nostra relazione cresce di giorno in giorno. Nonostante il caos della vita i nostri legami non sono mai stati così forti. Anche se abbiamo vissuto il caos, la follia e i maltrattamenti emotivi, non ho mai messo in dubbio il fatto che ci amassimo. Sentivo il bisogno di far uscire alla luce la storia di mia madre, era un'urgenza. La storia mostra come sia stata vittima innocente di un sistema sanitario totalmente arcaico, nel Texas degli anni 70, e prova fino a che punto ciò può essere stato letale. È una delle ragioni per cui ho lasciato girare la cinepresa durante la scena della zucca. Non si trattava di sfruttare mia madre, ma di mettere la gente in situazione, di fronte a qualcosa che ignorano e di affermare il più onestamente possibile: «guardate ciò che è successo», per il fatto che un vicino ha dato un consiglio ai miei nonni.

C'è un aspetto «My Own Private Idaho» (Gus Van Sant) in «Tarnation». Ne sei cosciente?

Ho scoperto il lavoro di Gus Van Sant con My Own Private Idaho. Ero affascinato dall'idea che qualcuno si fosse affacciato sul mondo della giovane cultura gay di strada della quale di fatto facevo parte. Avevo 16 anni quando uscì il film, era un periodo della mia vita nel quale pensavo essere il solo a conoscere quel genere di ragazzi. Vedere questi adolescenti problematici e belli che si ritrovavano ad essere omosessuali, senza che ciò fosse al cuore delle loro identità, mi intrigava moltissimo. I film di Gus mi toccano intimamente. Non lo conoscevo prima di Tarnation. Sono stati John Cameron Mitchell e Stephen Winter che gli hanno mostrato il film. Il giorno in cui loro tre hanno firmato il contratto come produttori esecutivi è stato il più bello della mia vita.

Puoi parlare della tua esperienza della spersonalizzazione?

È un po' come doversi sistemare sempre gli occhiali perché le lenti sono messe male. Concentrarsi sull'istante mi succhia un mucchio di energia mentale. Mi chiedo se ciò che mi succede è reale o sognato. D'altronde, adoro tutto ciò che vivo e la gente che mi circonda.

Hai qualche nuovo progetto?

Continuo a amare l'idea di fare tutto da me come per Tarnation, del controllo totale che ciò permette e del rapporto intimo che implica. Credo che molte cose cambieranno nei prossimi anni col fatto che si possa fare un film da soli montandolo col computer. Non so se farò così tutta la vita ma per i prossimi due o tre progetti sì. Voglio lavorare su tre grandi film realizzati tra il 1973 ed il 1977 che hanno in comune un personaggio femminile utilizzato come capro espiatorio, la stessa attrice in ruoli simili in ognuno dei film. Mi piacerebbe fare una specie di remix tra i tre lungometraggi in modo che diventino uno solo. Ne ho parlato col produttore di David Lynch, era entusiasta e ha deciso di produrlo.

Intervista di Roberto Carlotti – IL MANIFESTO – 03/6/2005

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