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Ha un bel vocione, è sanguigno, ama il vino, le donne e le burle, smadonna, quando recita S'i fosse foco, arderei 'l mondo di Cecco Angiolieri vi par che se fosse fuoco arderebbe lui lo mondo, snocciola un canto dell'Inferno di Dante che vi par di precipitare tra i dannati, è corposo, lo chiamano Carlo Monni. Conosciutissimo in Toscana, si scapicolla per i teatri, per ogni sagra e festa dell'Unità che lo invita per i suoi monologhi del recitar ridendo, viene dalla gran tradizione degli stornellatori in ottava rima e da Boccaccio, è la voce del podere, di un mondo contadino in via di estinzione. Ha lavorato con Ronconi, con Carlo Cecchi, era Vitellozzo nel film Non ci resta che piangere, è attore versatile, ma il Monni più vero è roba per chi non ha la puzza sotto il naso, perché questa è la sua cultura: sapere con laria ruspante di chi non sa. Avete presente il Benigni dell'Inno al corpo sciolto? Ecco, Monni viene da lì e da quella zona che lui battezza Champs Les Bisance (Campi Bisenzio, nella piana fiorentina, considerata dai fiorentini la periferia della periferia), da quelle zone emarginate inquadrate da Bertolucci nel film Berlinguer ti voglio bene. Film dove lui era il quasi-vitellone maschilista che, alla casa del popolo, esclamava: Pole (può, ndr) la donna competere con l'omo? No. S'apre il dibattito. E da qui si può partire, con questo attore immeritatamente misconosciuto fuori dai confini toscani. Monni, lo sa che quella battuta, magari parafrasata, in Toscana è ancora citata? Era presa pari pari dalla realtà, da quei tentativi di dibattito che si facevano nei circoli delle campagne dove, nei primi anni '70, parlare di femminismo era come parlare dalgebra. Venivamo da campagne dove, se non si pagava, fino a una certa età non si trombava, quello sviluppo delle donne ci pareva difficile da capire. Comunque fare quel film fu più che altro una festa, a pranzo s'andava alla vecchia fattoria bevendo vino bono, mica quel maledetto tavernello che danno ora nei set apposta perché poi tu non ne beva. Il film con Benigni era pieno di quei personaggi popolari, un po' ai margini, che fanno anche il suo repertorio. Dove li pesca? È vero, alcuni personaggi del film erano proprio presi da quelle campagne. Come uno, soprannominato Buio, che diceva trombata anziana trombata sana. Durante le riprese ogni mattina mi chiamava e diceva: Monnino 'niamo, si va a fare un po' di cinematografo. E io racconto di personaggi vissuti dalle nostre parti, dalla personalità pittoresca, che vedevo fin da ragazzo. Era un mondo prima della tv. Ora racconto di un personaggio tipico, Cambi Remo. Chi è? Era un ciabattino. Viveva in modo anarchico non perché fosse colto o politicizzato, ma per il senso di libertà che il tramontano (il vento, ndr) gli portava direttamente nel cervello da Monte Morello (il monte sopra Sesto Fiorentino e Firenze, altro ndr). Lui aveva capito che per vivere gli bastava fumare sigari, far merenda e fare tre paia di scarpe alla settimane, mai quattro sennò, diceva, gli toccava despositare soldi in banca. Lui era più a sinistra del Pci, gli amici lo spingevano ad andare a votare, lui diceva no, poi una volta andò, si chiuse nella cabina elettorale, fece un monte di croci sulla falce e martello e si firmò Cambi Remo. Lei come ha cominciato? Ho sempre fatto
l'attore: prima nelle festicciole gratis, in tutti i borghi ne
facevano, come quelle dell'Unità. Si diceva bischerate e
si saliva sul palco. Anche Benigni iniziò così,
dalle sue parti c'era una campagna forte, viva, era intorno alla
metà degli anni '70. Si prendeva spunto da gente che aveva
originalità di cervello, che veniva dalla cultura orale,
dai racconti di passanti che dormivano nelle stalle d'inverno.
E Bukowski? Lo considero il più grande sulle situazioni amorose, dice che è l'amore quel che conta così come per Dante è l'amor che muove il sole e le altre stelle. Forse è vero, come personalità mi avvicino allo scrittore americano. Bukowski inneggia anche ai piaceri dell'alcool. Lei va per osterie, però oggi si diffondono i cosiddetti, eleganti e freddi wine bar. Certo che io vo da un'osteria a un'altra, ma nei wine bar no, è una civiltà che degenera, porta male, il vino diventa subito poco bono, non sono posti per intenditori. Il vino non si può bere con la cravatta, non dico vestiti male, ma d'inverno ci vuole il giubbotto, d'estate la maglia o la camicia a maniche corte e pantaloni corti sennò non ti fa mica bene. Ci sono attori di oggi ai quali si sente particolarmente affine? Mi trovo bene con qualcuno della nuova genìa, attori comici come Paci e Ceccherini: sono moderni, nascono da un humus simile al mio, vengono dalle lande di Scandicci, hanno una formazione da bar e trattoria. È vero poi che funzionano meglio dal vivo che al cinema. Prima ricordava di venire dal mondo contadino, dalla cultura della tradizione orale. Esiste ancora? Siamo agli sgoccioli. C'è ancora un po' di questa gente nei paesi e nei poggi dove c'è vita sociale, ma in città no, non ce n'è più, oggi c'è la tv che convoglia 10 milioni di audience e che mi fa un effetto intestinale. E tutta quella gente che vedo dentro uno studio tv mi ricorda tanto quando lavoravo in fabbrica. Intervista di Stefano Miliani L'UNITA' 12/06/2004 |
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