Non è morto, Bene |
Il
talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può.
Quasi bruciato e esaurito tutto in pochi definitivi episodi tra il 1967 e il 1973, da lui stesso (per fatale economia politica) lasciato cadere osteggiato, obliato, è il cinema/sudario, oltraggiato, lacerato, spezzettato fino al subliminale che è in sé (in una manciata di capolavori cito solo i lunghi da Nostra Signora dei Turchi a Amleto di Meno), a dettargli da vivente la costruzione maniacale da estremo satrapo orientale che sur-ride l'occidente di un tombeau, di un vero e proprio mausoleo, dell'opera registrata in forma di monumento sepolcrale. Nel secolo altrui che è sempre la propria (?) vita, può capitare una o due tre volte un istante come il Lorenzaccio (a me accade forse anche coll'Orlando Furioso ronconide), in cui il teatro incontra il suo doppio ma lo è, in cui non solo il frame della scena o della parola si tende fino a rompersi ma è la nostra cornice soggettiva, tutto il resto del mondo, a (s)confessarsi come limite e a cadere, a ritrovarsi perduto sulla strada più precisa e indicata, sulle corsie dei mulhollandrive moebiusiani e palindromi. Aldilà dei limiti di inizio e fine dei (cinque, geniali) film, Bene trova il cinema nello sbobinarsi continuo delle registrazioni (televisive, radiofoniche), una volta trovato nel cinema il principio stesso del registrarsi dei corpi e del precipitare chimico delle anime, ombra di ombre tanto più lontana dall'origine quanto più sembra aver origine nelle cose e nei corpi filmati/visti. Oltre la propria opera filmica, e pur nei limiti derisori degli infiniti film girati e girabili, con infinito disprezzo majakovskiano per il cinema che si fa, Bene è tra i rarissimi che avvertono l'intensità disperata e automatica del cinema che ci/si disfa, della raccolta inanemente agitata di immagini fisse, ciascuno una catastrofe impensata che il meccanismo si ingegna di ricucire, sintetizzare, esorcizzare in riconoscibile e organizzato spettacolo.. ...sostituire alle
avventure futili che il cinema racconta l'esame di un tema
importante: me stesso. L'orgogliosa e pur sommessa
dichiarazione di Guy Debord (della sua voce) in un Girum Imus
Nocte Et Consumimur Igni è la stessa della voce(opera
beniana. Il maelstrom sempre più rarefatto (verso l'occhio
che no si vede ma forse si è) dei ritorni
teatrali di bene, nelle progressive ridisincarnazioni dei
pinocch(IO)amlet, il circolare ritorno nelle lenzuola dei propri
fantasmi sempre più asciugati...Mi spiacque molto,
l'estate passata, di non riuscire a far vedere a Carmelo i film
di Debord (era occupato al festival di Otranto), a farlo
scontrare con un altro grandissimo a sé
stirneriano, come lui ferocissimo col cinema e quasi segreto e
ritroso nel praticarlo e pubblicizzarlo, come lui straordinario e
estremo nel toccare coll'impersonalità (sempre!)
repertoriale del cinema il punto limite e cieco del dirsi, ovvero
la materia di una voce/sguardo che non appartiene al soggetto.
Così, Bene chiama parentesi eroica proprio
quella cinematografica...(E qui mi scuso. Non volevo scrivere su
un giornale, in questi giorni. Sto facendo quello che non voglio.
Non ottempero all'invisibilità del nato per non
essere nato, come da (un) sempre Bene si definiva. Già
nel 1972, parlando in tv di Keaton: si scopre anche, forse,
che non si nasce mai). Ricordo i suoi sprezzanti anatemi per la
timidezza italomediatica alla morte del suo Deleuze.
E scrivo, co-scrivo forse. Restando convinto che non c'è
da raccontare di una fine. Se mai, del senso politico, oggi ancor
di più (ma rileggersi L'Adelchi o la volgarità
del politico, del 1984, con le pagine più belle mai
scritte sul caso Moro), dello scoprirsi nella dépense
palindroma di un altrui cinema. Nel battito fermo in moto tra un
fotogramma e l'altro. In un presente paradossale che sa già
consumato (e aiuta a consumarlo da sé, di nuovo come
Debord; e anche Bene lascia a derisorio sublime testamento il
restauro/rimontaggio di una cosa televisiva
mai davvero fatta, l'Otello solo girato, plurigirato, ogni camera
un mondo e una registrazione paralleli). E che già si
consumava per esempio nella profezia precisa mosochsadiana del
corpo/sé che si gode incidentato in Capricci,
trentanni prima del crash cronenberghiano e comunque prima di
quello ballardiano...Inizio e fine sempre scontati e mai
esistenti perché troppo visibili. Di nuovo. Non-nati,
non-morti. Abbiate dunque sfiducia in me, lavoratori.
Irrecuperabile politicamente. O meglio: troppo giusto, troppo
preciso. Come Pinocchio che vuol essere gabbato, e non fare il
furbo (il les non-dupes-errent' di Lacan...). La
Biennale del 1989 (così (in)attuale, quest'oggi...),
implosa in un impossibile laboratorio sospeso tra soggetti
impossibili, da Tamerlano al Bafometto Klossowskiano, gesto
artaudiano di una rassegna che per una volta si nega al pubblico
e alla critica rassegnati rassegnanti. ENRICO GHEZZI L'UNITA' 18/03/2002 dello stesso autore:Intervista a Enrico Ghezzi |
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