Luomo
dagli occhi che illuminano - ma anche rivelano - il Brasile (os
olhos che alumbran o Brasil, così ha scritto un
importante giornale di quel paese) ha compiuto lo scorso giugno
sessantanni. Chico Buarque de Hollanda un mito della bossa
nova, un immagine gentile insieme colta e popolare della cultura
brasiliana sta girando lEuropa, senza chitarre e spartiti
ma con gli immancabili scarpini per giocare a calcio in ogni
posto, per presentare Budapest (traduzione di Roberto
Francavilla, Feltrinelli, pp.140, 13 Euro), il suo terzo romanzo
dopo Disturbo e Benjamin, rispettivamente del 1992
e del 1996. Budapest è la storia di un
ghost-writer, José Costa, e delle sue implicazioni dentro
una vita duplicata: è sempre il doppio di qualcun altro
per cui scrive discorsi, biografie, romanzi; è la storia
di un doppio amore per sua moglie Vanda e per lamante
ungherese Krista, è la storia di due luoghi, due città:
Rio de Janeiro e Budapest, ma soprattutto è la storia di
una fascinazione per una lingua, lungherese, che per essere
correttamente parlata chiede che José Costa si liberi di
quella madre, il portoghese. Mutare identità è
mutare il codice che dice il mondo, i sentimenti. Per questo il
protagonista che si sente fuori fuoco nella sua esistenza
brasiliana e commette anche il peccato di presunzione, ai suoi
occhi prima di tutto, rivelando a sua moglie dessere il
vero autore del romanzo che lei sta leggendo con passione, si
sente chiamato da quella lingua misteriosa e da una relazione con
Krista, che è metafora della relazione con la stessa
lingua ungherese. Budapest è insomma un bel
romanzo, ricco dironia e di trovate, scritto con una
maturità di scrittore che sorprende e incanta.
Comè
nato questo incantamento per la lingua ungherese?
Intanto
il protagonista, Costa, era già completamente affascinato
dalle lingue, dalle parole, lui vive sempre dentro un mondo un
po irreale che è dato dalle regole di una lingua.
Quando decide che deve dimenticare il suo paese decide che deve
dimenticarne anche il vincolo più importante, così
decide che deve dimenticare quella lingua a favore di unaltra,
di un altro sistema mondo, la più estranea possibile
rispetto alla sua lingua madre. Quella lingua che una volta nello
scalo aereo aveva come sognata diventa la sola possibilità
per la sua fuga, il suo annientamento da brasiliano.
La
storia di Budapest è così prima di tutto la
storia di una liberazione da unidentità in favore di
unaltra, ma il ghost-writer Costa continua però a
portarsi dietro una grossa fetta della sua vita, il fatto di
voler essere anche nella nuova lingua uno scrittore per gli
altri. Il Costa perde la C e prende la K ma sempre con
lambizione di celarsi dietro gli altri, di vivere
nellombra.
Lui
trova che è così grande il piacere che prova nella
scrittura, la sua vanità di scrittore è tale che la
gloria sarebbe un danno alla sua stessa vanità, vuole
essere uno scrittore anonimo. Questo non è lontano dal
sentimento che molti scrittori provano quando scrivono il libro,
nessuno sa niente, mentre lo scrittore scrive e vive dentro quel
mondo, e io stesso per due anni ho avuto un grosso piacere a
scrivere questa storia che non potevo raccontare a nessuno, se
lavessi fatto avrei perso qualcosa di quel piacere intimo.
Quando il libro esce si scioglie un po la forza interna di
uno scrittore, il suo piacere e la sua ossessione. Per uno
scrittore che veramente ama le sue creazioni linteresse
principale è il proprio godimento mentre la storia va
facendosi. Io quando scrivo, scrivo per leggere.
Il
libro ha un andamento e un contesto quasi totalmente notturno,
dove tutto è come attutito da un silenziatore che
distanzia, Budapest è una sorta di notte a tratti
febbrile, un vaneggiamento, un sogno.
È
così, io non conosco Budapest, la città, non ci
sono mai stato e un po come se lavessi sognata
Come
il protagonista che per molto tempo anziché attraversarla
la scorre sulle mappe?
Sì
sulle mappe. Ho voluto lasciar abbastanza evidente il fatto che
non sono intimo di questa città e perciò tutto
quello che accade nella parte ambientata a Budapest ha un clima
onirico. Il protagonista ad un certo punto scorrendo lo sguardo
sulla mappa di Budapest dice che quella è la mappa
della città come lui è la mappa di un uomo.
Budapest,
questa città che è raccontata nel libro sembra una
Rio de Janeiro in negativo - o viceversa - laltra parte,
due città complementari ma opposte. Due universi in cui
fai scorrere un tratto saliente della vita brasiliana: lamore
per il calcio che nel romanzo, nascosto ma non troppo, diventa un
vero omaggio allUngheria calcistica.
Questo
è un omaggio totale perché il mio primo fascino per
lUngheria da bambino fu la visione che proprio alla tivù,
ero in Italia, ebbi della grande squadra magiara ai mondiali
svizzeri del 1954. Vidi gli ungheresi battere il brasile 4-2 e
noi in Brasile abbiamo un gioco, di bottoni, il calcio-bottoni e
ciascuno ha la sua squadra, il Flamenco, il Fluminense, il
Corinthians: i miei calciatori a quel tempo lì erano
Puskas, Kocsis, Hidegkuti e la mia squadra di calcio-bottoni
lUngheria. Sono tutti lì quei calciatori venuti
dalla pianura ungherese, li ho messi nel libro come nomi degli
scrittori, dei poeti ungheresi che Costa incontra, alla fine del
libro non avevo ancora messo tre calciatori e allora li ho messi
come i tre editori, Budai Lantos e Lorant con cui lavora il
protagonista. Ho così schierato tutta la squadra. Girando
il mondo vedo la passione che la gente ha per il calcio, ancor
più nei paesi meno sviluppati, e mi dico che fatto
straordinario che 22 uomini che rincorrono un pallone possano
diventare una chiave di conoscenza, di avvicinamento tra gente di
tutto il mondo, un modo di parlare con i ragazzi di strada a Rio
come in Marocco.
A
proposito di identità e di futebol lUngheria del
54, immeritatamente perde quel mondiale, ed è
liniziò della fine: poi ci fu linvasione
sovietica, la fuga di molti di quei campioni e quasi la fine
dellUngheria calcistica. Ci sono insomma delle sconfitte
che non portano gloria ma cementano identità, comè
successo al Brasile nel 1950 che in casa perde il mondiale con
lUruguay. Cosa ne pensa?
Ha
ragione ma ci aggiungerei anche la sconfitta, sempre del Brasile
nel 1982, e dellOlanda nel 1974. Credo perfettamente che ci
siano sconfitte più importanti delle vittorie. Non credo
alla vittoria ad ogni costo, tutti gli innamorati del calcio, ed
io lo sono profondamente, pensano che giocare un bel calcio è
già una vittoria. Vincere giocando male non costruisce
identità, a me non importa del Brasile campione del mondo
nel 1990, quella squadra non mi dice niente, invece la squadra
dell82 è un momento a cui si ancorano sentimenti,
cose perdute.
Costa
è un ghost-writer, Chico Buarque cantante è ricorso
ad un eteronomo per «bucare» la censura della
dittatura, il Brasile condivide la lingua con il più
grande costruttore di eteronomi, Fernando Pessoa, ha mai pensato
di scrivere i romanzi con un altro nome?
Ci
ho pensato, soprattutto allepoca del mio primo romanzo,
volevo forse essere un po come José Costa. Per quel
libro ero in Norvegia e alla decima intervista un giornalista mi
chiese Ma è vero che lei fa anche della musica?.
Lì ero pochissimo conosciuto e lui non aveva la minima
idea del mio lavoro precedente e questo mi fece piacere perché
mi poteva giudicare solo come romanziere.
Chico
Buarque è stato un modello per unintera generazione,
oltre che come artista anche come uomo libero che si opponeva
alla dittatura ventennale, un modo di opporsi che direi
«estetico» senza le rabbie dei pamphlet ma con la
leggerezza ferma di fare il proprio lavoro. La dittatura del
Brasile non è stata brutale ai livelli di quelle cilene,
argentine e uruguayane - molti ne ignorano pure lesistenza
- per questo è forse ancora più difficile spiegare
cosa significasse vivere in Brasile in quegli anni, dal 1964 al
1985. È così?
Certamente,
la dittatura del mio paese pur commettendo delitti fu meno
sanguinosa delle altre, fino quasi a stemperarsi negli ultimi
anni. Ma la cosa più terribile di un paese sotto i
militari, sotto la dittatura, al di là della sua
efferatezza, è il senso di paura, dincertezza che
pervade tutta la vita pubblica e le singole esistenze di ogni
individuo. Quando ero in Italia negli anni Sessanta mi dicevano
di non tornare perché non potevo sapere cosa mi sarebbe
successo. Il pericolo di una dittatura non totalitaria è
che chi scrive canzoni, romanzi, film possa limitarsi lui stesso,
possa autocensurarsi perché non è netta la linea di
demarcazione tra il lecito e il proibito, ma se si sa sfruttare
questa situazione è anche unopportunità. Per
esempio io sapevo che i testi col mio nome sarebbero stati
censurati e allora scrissi con un altro nome, Julinho da
Adelaide, il mio samba Acorda amor (una coppia di amanti
allirruzione allalba della polizia urla Chiama
i ladri, chiama i ladri, ndr). Cera la possibilità
di un esercizio dellintelligenza che non era possibile in
altri paesi sudamericani. Sono stati comunque anni terribili
proprio per questa mancanza di prospettive future, stai
allestero e non sai quando potrai ritornare nel tuo paese,
tra la tua gente, e intanto ti domandi se non stai sbagliando a
non tornare; fuori magari sei accolto bene ma a lungo andare
resti agli occhi di tutti un esule, uno che non è più
di là ne sarà mai completamente di qua.
La
generazione della famosa marcia dei centomila a cui tu
partecipasti nel 1968 è oggi al governo. Con Lula come
vedi e vivi questa stagione di novità democratica con il
tuo collega Gilberto Gil ministro della cultura?
Io
non ho niente a che vedere col governo di Lula, ho partecipato
alla sua elezione e pubblicamente alla campagna elettorale, ma
non voglio avere niente a che fare col governo. Sono tifoso di
Lula ma mi tengo lontano dallattività politica, dal
partecipare a circoli di pensiero, è una maniera che non
mi appartiene. Quando mi è sembrata necessaria ho svolto
la mia militanza ma non sono un intellettuale consigliere del
presidente. La politica giorno per giorno non mi interessa.
Conosco un solo modo di far politica: fare il mio lavoro,
scrivere, questo è il mio contributo alla cultura del
paese.
Intervista di Michele De Mieri
L'UNITA' 16/03/2005
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