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Quando la vita vera è un infinito sketch |
Già lo eravamo,
senza riserve, da molti decenni. Ma l'inconsistenza della comicità
oggi esibita in ogni spettacolo, sul video e fuori, ci ha resi ancor
più «totopeppinisti» che mai. Siamo totopeppinisti
fino alla nostalgia e alla petulanza filologica. Continuano a sedurci
film o pezzi di film refrattari ad ogni decadenza, luminosi nella
memoria. «Te li ricordi, Totò e Peppino, quando parlano
con il vigile in piazza del Duomo?». «E quando rievocano
la prepotenza delle rispettive consorti, proclamandosi devoti di
Landru, ragazzo incompreso, uxoricida per il bene dell'umanità?».
«E quando si travestono da banditi, sbucando da un cespuglio
per inscenare un'impossibile rapina a se stessi, quasi a contatto di
gomito con una sopraggiunta coppia di carabinieri?». E Signori
si nasce? E La banda degli onesti?.
Siamo ghiotti di simili
liturgie. Come il matto delle barzellette che le aveva catalogate in
mente per numero, e gli bastava dire tredici, quarantanove o
centoventuno per far esplodere risate a cascata nella platea del
manicomio, c'intendiamo a gesti con i nostri correligionari. E la
situazione non può che precipitare quando, nei prossimi
giorni, troveremo in libreria una Summa di questi due attori che
hanno segnato mezzo Novecento italiano. Si chiama infatti Totò,
Peppino e...ho detto tutto una cassettavideo edita in cofanetto
insieme a un volume critico ed esplicativo dalla Einaudi, a cura di
Lello Arena, con contributi di Alberto Anile e Roberto Escobar (lire
35.000).
Novanta minuti condensano su nastro «il meglio»
della coppia. Nel complesso, un maestoso tormentone comico. Perché,
in realtà, di questo si tratta. Il ménage de CurtisDe
Filippo, (che unisce un irresistibile comico di rivista a un grande
attore «brillante») non è che una reiterata,
insistita, insaziabile competizione fra due talenti diversi e
complementari. In termini di psicanalisi da drogheria, li si
definirebbe l'Incubo e il Succubo. Il carnefice e la vittima. Il
persecutore e il rassegnato.
Nel primo di questi ruoli siamesi
giganteggia Totò. Fargli da «spalla» è
un'impresa stressante, che ha impegnato schiere di attori. Perché
lui è stato sempre una maschera scenica da duetto. Un duetto
che naturalmente evolveva in un «duello». Con esito
scontato: chi ci si aspettava, infatti, che vincesse? Sulla scena,
quel guitto utilizzava tutta l'imprevedibilità delle sue
contorsioni per nuocere al suo deuteragonista o interlocutore.
Definiva se stesso, sulla scena, «un personaggio aggressivo,
bugiardo, cocciuto, millantatore e ipocrita, molesto come una mosca
cavallina». E lestissimo di mano. Quest'attitudine all'assalto
repentino era frutto di un lungo apprendistato nel teatro di rivista:
qualcuno ricorda ancora le frenesie ginniche che si concedeva Totò
durante le sue sgroppate in passerella al ritmo della marcia dei
bersaglieri. O quando, nei finali, mimava i fuochi d'artificio
facendo a gara con il batterista. Spalla o non spalla, chi si trovava
nei paraggi rischiava molto. L'esuberanza psicologica di Totò,
la sua verbosità creativa, trovavano un corrispettivo in un
fisico a suo modo d'eccezione, addestrato a una sorta di ilare
«Kungfu». Una belva comica.
Negli «a tu per tu»,
che dominano l'epopea vissuta con Peppino, Totò si sublimava.
Non solo tentava di «rubare la scena» al partner, il che
è normale (anche se, data la classe dell'interlocutore, di
rado riusciva). Ma poteva fargli letteralmente di tutto. Nel film La
banda degli onesti le angherie del nobile de Curtis si estendevano al
di là di ciò che si sarebbe visto sullo schermo: arrivò
lo raccontava lui stesso a chiudere di slancio la mano di Peppino
nella fessura di una porta, facendolo infuriare fuori copione. Ed
ecco Totò impegnato a schiaffeggiare sonoramente Peppino così,
senza volere, gesticolando; o a pestargli i piedi sotto una sedia; o
a camminargli sulla schiena o la pancia durante una notte assurda
convissuta nello stesso letto (il de Curtis, appena reduce a piedi
dalla ritirata di Russia, è sudicissimo e giustamente
insonne); o a schiacciargli la mano in un cassetto; o a spiaccicagli
una torta pannosa fra mento, collo e cravatta. Nel proverbiale Totò,
Peppino e la malafemmina, i due sono fratelli, appartenenti a una
rustica, benché facoltosa progenie di napoletani del contado.
Stanno spostandosi su un calesse sdrucito (uno «sciarraballo»,
nel dialetto di entrambi) dal loro podere verso la stazione
ferroviaria: meta finale e mitica come vedremo Milano. Totò
regge le redini. E, quel che è peggio, fa schioccare
trionfalmente la frusta. A ogni schiocco, Peppino urla di dolore.
I
due, uno accanto all'altro. O meglio, Totò sopra e Peppino
sotto. Ma, sotto, Peppino ci sta da Re. Quanto Totò è
sfrontato, altrettanto lui è capzioso nella sua disarmata
remissività. Al fondo del suo stato d'animo sembra di scorgere
una tacita riserva in virtù della quale lui non diventerà
mai la spalla dell'altro. Quasi a dire: senti un po', io adesso ti
lascio sfogare altrimenti, per come sei tu, non fai figura. Poi, si
vedrà. Al termine di ogni esplosione ultracomica, è
infatti Peppino artista di suprema raffinatezza a rimettere insieme i
cocci della recita, ristabilendo quei tempi scenici che il sulfureo
compagno ha rischiato di far saltare. In presenza di Peppino, una
farsa non è mai tale fino in fondo, non fosse altro che per la
sua connaturata malinconia. E' lui, comunque, l'argine. Parla quasi
sempre in falsetto, unico controcanto possibile all'esuberanza
dell'altro. Ripagandone con scetticismo o sofferenza l'aggressività,
suscita il riso attraverso una strada meno ripida ma sicura: i
gemiti.
Mentre viene confezionata la lettera più celebre
del Novecento comico italiano quella che comincia così:
«Signorina, veniamo noi con questa mia addirvi: addirvi, tutta
una parola, mi raccomando» non è facile scegliere a chi
vada assegnata la palma della perfezione. Totò giganteggia
nella fantasia grottescoanalfabetica di chi detta formule epistolari.
Peppino, l'esecutore, zappetta con enorme affanno tra penna, calamaio
e foglio, equivoca su ogni parola già di per sé
insensata, s'asciuga il sudore con gesti da baffuta puerpera di
campagna. Lo spettatore dubita, quasi commiserandolo, che verrà
a capo dell'impresa. Ce la fa. Come scrivano, riesce impagabile.
Più
in generale, quando sembra che Totò abbia stravinto nel
confronto, ecco che il partner ottiene, per tramiti meno clamorosi,
il suo riscatto a spese del fratello o del cugino (nel tandem le
parentele sono cangianti, ma sempre strettissime). Totò è
lunare. De Filippo resta ancorato al nostro pianeta, benché ne
capisca poco. Il suo segreto è il patetico. S'è scelto
la parte di una, sia pur incongrua, ragionevolezza. Dei due fratelli
Capone proiettati nell'avventura di sbarcare a Milano per sottrarre
alla perdizione il nipote Teddy Reno, che nella lettera citata è
«uno studente che studia» Peppino è il minore
d'età, il meno scapestrato, l'amministratore avaro. Al
contatto con un mondo metropolitano inconoscibile, Totò se ne
costruisce uno a proprio arbitrio (Il Duomo che diventa il municipio,
e la Scala che se ne sta rinchiusa all'interno del Duomo). Peppino
scuote la testa. Incredulo. Grifagno. A tratti appare inconsolabile.
Ma non si astrae dagli eventi, tutt'altro. Maestro delle titubanze
verbali e della balbuzie comica in una non dimenticata serie tivù
per bambini degli anni Sessanta, impiegava delle mezz'ore per ridurre
alla parlata napoletano il vocabolo «ogniqualvolta»
interviene validamente a confondere le acque. Ma sempre con
compostezza, con struggente buonafede. Lo contrassegna un patrimonio
ignoto al suo partner: una dignità da difendere. Non importa
che in questo compito, o missione, fallisca sempre. Ma è la
sua trepida compostezza a fungere da reagente. Fa da calmiere alla
comicità di Totò. E insieme la innesca, la aiuta a
risplendere.
Totò ha un viso a trapezio, un fisico fuori
scala e senza centro. E' avventuroso come le sue stesse sembianze
richiedono. Si atteggia a poliglotta: («Noio vulevon savuar
l'indriz», oppure, a scelta: «Escus mi, s'il vu plè,
plise, da quant tamp voio stat a Roma, in Romagna, in Romania?».
Peppino è il meridionale<\->standard di mezza età:
un fattore, un impiegato del gas, il signore della porta accanto. Può
fare anche il «principale»: lo è, difatti, sia in
una sua bottega di barbiere (mentre Totò funge da catastrofico
ragazzo spazzola), sia nel ruolo ricoperto in quella ditta di affari
semi<\->legali intestata ai due cugini omonimi: Posalaquaglia &
Posalaquaglia. Abituati a fare, a pagamento, i testimoni oculari in
incidenti che non hanno visto e di cui non sanno nulla, gli capita di
deporre in un'aula di Pretura contemporaneamente a favore e contro
due clienti in contrasto fra loro. Il fattaccio, una fucilata sparata
forse per sbaglio, è avvenuto il 24 maggio nei pressi di
Ciampino, dietro alcune «fratte». Esordisce Peppino nel
disperato tentativo di dare ragione a tutti: parti in causa e
pretore. S'impiglia e raggomitola in una «tartagliata»
sublime, si finge in preda allo spavento e così, evocando per
assonanza Silvio Spaventa e Silvio Pellico, confessa di essersi
confuso («Mi sono imbrogliato, signor pretore, sono un uomo»)
e finisce pigolando e quasi singhiozzando au
ralenti. Totò, per parte sua, emette qualche vocabolo
insensato ma poi, memore del 24 maggio, data dell'episodio
giudiziario, intona a voce spiegata e con vivo consenso in aula la
canzone del Piave, il quale mormorava eccetera.
Vengono trasferiti
entrambi a Regina Coeli. La parola «fine» ci vieta di
assistere ai rapporti carcerari fra i due, che potevano essere
sublimi. Ma ci basta ciò che ci hanno offerto: la loro
fantasia al servizio dello sketch di esistere.
Nello Ajello LA REPUBBLICA 25/10/2001
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