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Il guerriero prigioniero |
Diceva Arafat che a Beirut vi erano stati 150.000 soldati israeliani, 1400 carri armati, 4000 mezzi cingolati, più l'aviazione e la marina. Diceva Arafat che a Beirut gli israeliani avevano usato le armi più moderne, più sofisticate. E con precisione enumerava quelle armi, le bombe soprattutto: al fosforo, al napalm, a concussione, a vacuum, a implosione, a fiore...Bombe, queste ultime, sperimentate a Beirut per la prima volta. Quelle a concussione, ad esempio, colpiscono il cervello, lo paralizzano di colpo, e la persona muore senza una convulsione, uno spasimo. Ho visto con i miei occhi diceva Arafat una madre che allattava un bambino rimasta in questo atteggiamento come una statua di cera. E una persona che scriveva rimanere così, seduta, con la penna in mano. Ed era rigido anche lui, Arafat, quando diceva degli orrori di Beirut, diceva della madre di cera e dello scriba di pietra.
Era il novembre del 1982 quando incontrai, insieme ad altri giornalisti e scrittori, il presidente dell'Olp, Yasser Arafat, in Tunisia, nel rifugio di Amman-Lif, dopo la sua recente fuga dal Libano. Ci aveva ricevuto nel suo ufficio di quell'albergo Salwa che era anche una caserma e fortino, a una ventina di chilometri da Tunisi (nell'ottobre del 1985, quel quartier generale dell'Olp verrà bombardato dall'aviazione israeliana, vi saranno 7o morti). L'ufficio di Arafat era arredato con le foto della mecca, della cupola d'oro della moschea Alaqsa di Gerusalemme, di soldati, del generale Abu Walid, ucciso nella valle della Bekaa. Sotto la foto, versetti del Corano, che dicono: Non crediate che i caduti in campo di battaglia siano morti comuni, essi sono dei martiri. Martiri, martiri...Così, questa parola carica di piena dedizione, estremo impegno, fine premiale, salvifico, fa trapassare l'uomo, il combattente, dalla contingenza alla metafisica, dalla ragione alla fede, alla possessione religiosa, al cieco sacrificio di sé per sacrificare altri, i nemici. E' per questo che ragazze e ragazzi palestinesi, soprattutto dopo la seconda intifada, si fanno martiri, disperati e invasati s'imbottiscono di tritolo e si uccidono uccidendo civili innocenti per le strade e i mercati delle città di Israele; è per questo, per possessione religiosa, che soldati israeliani con accanimento sparano su inermi palestinesi, spesso su donne e bambini, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. E' per questo, credo, per possessione religiosa, per fanatismo e disperazione che gli antichi ebrei della fortezza di Masada, assediati dalle legioni di Vespasiano, uccisero mogli e figli e si suicidarono per non cadere in man ai romani, come ci racconta Flavio Giuseppe ne La guerra giudaica. Muoiono le nostre mogli senza conoscere il disonore e i nostri figli senza provare la schiavitù dice Eleazar, il capo di quel focolaio di orrore e di dolore che, e non da ora, il territorio israelo-palestinese, quella terra santa divenuta infernale, in questo nostro presente, dappertutto, in Oriente e in Occidente, la Ragione dorme dentro oscure caverne, mentre insorgono fanatismi che fomentano odi etnici, conflitti religiosi, giustificano guerra, genocidi, legittimano poteri. Ma torno al grande trapassato, alla figura storica che ha dominato la scena politica da almeno quarant'anni, a Yasser Arafat. Ho incontrato ancora, il presidente dell'Autorità della Palestina, nel marzo del 2002, insieme ad alcuni membri del parlamento Internazionale degli Scrittori, a Ramallah, nella sua residenza-prigione della Muqata, dov'era rinchiuso, sotto assedio dall'ottobre 2001, e dov'è rimasto fino a ieri. Eravamo accompagnati dalla portavoce dell'Autorità palestinese a Parigi Laila Shahid. Nell'ufficio di Arafat, ancora una grande foto della moschea Alaqsa. Entrando, riconosce, nel nostro gruppo, i Nobel Wole Soynka e José Saramago. E', naturalmente, un Arafat diverso da quello che avevo incontrato vent'anni prima a Tunisi, invecchiato, sì, ma soprattutto provato dall'assedio, dagli assalti a quella sua prigionia, da parte degli israeliani, finanche con bulldozer e caterpillar. L'americano Russel Banks gli dice del nostro Appello per la pace in Palestina diffuso pochi giorni prima del nostro viaggio, gli chiede quale messaggio vuole affidarci. E Arafat, la voce stanca, il grosso labbro tremolante, risponde: Fra qualche giorno è la Pasqua giudaica, la ricorrenza della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù in Egitto. Sono loro adesso che adesso tendere la mano agli schiavi di oggi, a noi palestinesi. Dite agli ebrei americani che domandiamo agli americani la liberazione dei territori occupati e il riconoscimento dello Stato palestinese. Quando ero bambino, aggiunge, abitavo a Gerusalemme, vicino al Muro del pianto. Per tutta la mia infanzia ho giocato con bambini ebrei. Qui, nel mio ufficio, vicino al mio tavolo da lavoro tengo la menorah, e si alza Arafat, va a prendere il piccolo candelabro a sette braccia e ce lo mostra. C'è sempre in quest'uomo, nei gesti e nelle parole, come a Tunisi allora nella precisa enumerazione dei vari tipi di bombe usate dagli israeliani a Beirut, c'è, in questo memorare la sua infanzia a Gerusalemme, l'intenzione di dire, di ribadire che egli e i suoi palestinesi sono vittime, vittime della potenza e dello strapotere di Sharon e degli israeliani, vittime degli americani, dello strapotere di Bush. Ma noi sappiamo che loro, palestinesi e israeliani, sono stati soprattutto vittime di noi europei, di quel terribile sonno della Ragione che aveva colpito l'Europa dei fascismi e dei nazismi, vittime, i due martoriati popoli, delle nostre colpe. Ci sarà pace infine in quella nobile e prodigiosa terra nel dopo Arafat? Lo speriamo. Ma intanto, prima che il grande palestinese sia morto, l'altro duellante, Sharon, mette le mani avanti e dice che mai Arafat sarà sepolto nel luogo sacro dei palestinesi, presso la dorata moschea di Alaqsa. Ed è questa, da parte di Sharon, un'ennesima violenza un ostacolo alla pace. E, come sempre, in tali situazioni, ci soccorrono le parole dei greci, di Sofocle, in questo caso, della sua Antigone. Né Giustizia, che siede laggiù tra gli dei sotterranei, ha stabilito queste leggi per gli uomini. Non credevo che i tuoi divieti fossero tanto forti da permettere a un mortale di sovvertire le leggi non scritte, inalterabili, fisse degli dei: quelle che non da oggi, non da ieri vivono, ma eterne: quelle che nessuno sa quando comparvero. Vincenzo Consolo L'UNITA' 12/11/2004 |
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