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Vincenzo Consolo

Ci mancano la penna e la spada di Sciascia

“Chi sei?” domanda Danilo Dolci a Leonardo Sciascia durante il dibattito tenutosi al circolo culturale di Palermo il 15 aprile 1965. E Sciascia risponde: “Sono un maestro delle elementari che si è messo a scrivere libri. Forse perché non riuscivo ad essere un buon maestro delle elementari. Questa può essere una battuta, ma per me è una cosa seria”.


No, non è una battuta, perché sappiamo dalle sue "cronache scolastiche", pubblicate nel 1955 nel numero 12 di Nuovi Argomenti, la malinconia, la pena, lo smarrimento e l'indignazione per le condizioni di quei suoi alunni di 5ª elementare, alunni poveri, figli di contadini e zolfatari. Pena e indignazione per le condizioni di Racalmuto, della Sicilia di allora e di sempre, sfruttata e umiliata dai "galantuomini", oppressa dalla mafia.

Inadeguato, inincisivo come si sente nell'insegnare, si mette a scrivere (ma Sciascia aveva già pubblicato, le Favole della dittatura nel 1950 e La Sicilia, il suo cuore nel 1952) e scrivere per lui, impugnare la penna, è come impugnare la spada, l'affilata, lucida e luminosa spada della ragione per dire, denunciare e quindi combattere i mali della società, le ingiustizie, le offese all'uomo, alla sua dignità.

Aveva scritto Sciascia, nella premessa a Le parrocchie di Regalpetra, pubblicato nel 1956, parlando del suo paese, di Racalmuto: “La povera gente di questo paese ha una gran fede nella scrittura, dice - basta un colpo di penna - come dicesse un colpo di spada - e crede che un colpo vibratile ed esatto della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare l'ingiustizia e il sopruso. Paolo Luigi Courier, vignaiolo della Turenna e membro della legion d'onore, sapeva dare colpi di penna che erano colpi di spada; mi piacerebbe avere il polso di Paolo Luigi per dare qualche buon colpo di penna…”, e ribadisce, nella conversazione con Dolci: “Io concepisco la letteratura come una buona azione. Il mio ideale letterario, la mia bibbia è Courier, l'autore dei libelli. Courier definì il libello una buona azione…”. Anch'io "in effetti non ho scritto che libelli".   

Varie volte, in questi anni di politica urlata, violenze verbali, scompostezze istituzionali, saccheggio delle funzioni e dei comportamenti parlamentari, ci è capitato di apprezzare la sobrietà e lo stile del presidente della Camera Casini. Nei suoi comportamenti abbiamo colto un ricorrente imbarazzo verso quella visione "proprietaria" e privata della politica e delle istituzioni di cui sono portatori gli uomini di punta della sua stessa maggioranza e del governo. Anche il rispetto della dialettica parlamentare, delle prerogative dell'opposizione, della distinzione dei poteri come previsto dalla Costituzione, sono stati più volte richiamati, in questi anni, dal presidente della Camera, rendendo più stridente, ad esempio, la differenza di comportamenti del presidente del Senato Pera.

Per questo ci indigna ancora di più quanto è successo ieri, la telefonata (resa pubblica) tra il presidente Casini e il senatore Marcello Dell'Utri, con l'espressione dei "sensi più profondi di stima e amicizia" rivolti dal presidente al senatore di Forza Italia.

Intendiamoci, l'onorevole Casini può incontrare liberamente chi e quando vuole e rivolgere i sentimenti della sua stima a chicchessia, rispondendo, ovviamente, delle sue azioni. Ma il Presidente della Camera Casini non può permetterselo: non può incontrare l'imputato Marcello Dell'Utri, mentre i magistrati del tribunale di Palermo sono ritirati in camera di consiglio per giudicarlo per concorso esterno in associazione mafiosa. E' un segnale esplicito e Casini è persona troppo accorta per incorrere in un incidente di questa gravità. La sua è una scelta voluta, studiata politicamente, con un tempismo che fa coincidere, nelle stesse ore, la camera di consiglio dei giudici palermitani con l'approvazione di una sciagurata riforma della giustizia che imbavaglia e blocca l'azione della magistratura e incrina uno dei capisaldi della Costituzione repubblicana.

Quella di Casini, purtroppo, è una scelta di campo e non può che apparire così all'opinione pubblica, al parlamento e alla stessa magistratura, che non solo non ha trovato ascolto in questi di mesi di confronto col governo e il parlamento, ma è stata individuata come un ostacolo da rimuovere sulla strada di quella privatizzazione della politica, delle istituzioni e della giustizia che anima l'azione della destra e rappresenta il vero incubo del Presidente del Consiglio.

Nessuno può convincerci che quella manifestazione di stima all'imputato Dell'Utri non rappresenti, oggettivamente, una forma di pressione sull'opinione dei giudici di Palermo. Purtroppo è una storia antica e ricorrente della politica italiana e solo casualmente il tribunale in questione, ancora una volta, è a Palermo.

Ma forse no, non è un caso. Quello stesso tribunale, tra due mesi dovrà giudicare il presidente della Regione siciliana Totò Cuffaro, anche lui sotto processo per favoreggiamento alla mafia.

Cuffaro è l'azionista di maggioranza e, fino ai suoi guai giudiziari, l'uomo forte del partito del Presidente della Camera e governa l'unica regione italiana nella quale l'Udc si avvicina al 20% dei consensi.

Nonostante le parole pronunciate e sentite sulla nuova questione morale che investe il Paese, i vertici dell'Udc non hanno mai preso le distanze da Cuffaro, come quelli di Forza Italia da Dell'Utri e nessuno ha attaccato l'altro. Ma mai, finora, era scesa in campo la terza carica istituzionale dello Stato con un messaggio così chiaro nelle ore precedenti il pronunciamento di una sentenza.

Sono davvero brutti tempi per la politica e la democrazia se diventa normale che a a sentirsi senza tutele e fuori posto siano coloro che credono - e ancora agiscono- nella giustizia e nella legalità. 

Vincenzo Consolo – LIBERAZIONE – 02/12/2004




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