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Vincenzo Consolo

La nuova peste di Palermo

Ed eccomi ridotto qua, bloccato non so per quanto tempo, in Parlamento, in un'angusta stanza dell'ospedale, specializzato nelle malattie infettive, di via Gucciardone, n° 41 bis. Ridotto, per una sentenza cruda dei medici, dopo mesi e mesi, anni, d'indagini, d'analisi, d'esser infetto, ed infettivo, a causa della vecchia e sempre nuova epidemia palermitana, qualcosa di simile alle peste o al colera.


Ora io dico, o signori palermitani, che a rispetto della sentenza di quei cerusici severi, io mi sento bene, benissimo, pieno d'energia, di vigore, malgrado la mia non più giovane età (“Ah, sei un cavallino, un torello1” mi urla, mentre gene, la mia squinzia di qua). Chiedo, o signori palermitani: in che modo e quando io posso essermi infettato? Sì, certo, io, Don Rosolino Utridogghio, imprenditore, uomo d'affari , dirigente del più grande Affare italiano, pur risiedendo al Nord, in Continente, torno spesso, giusto per affari, qui in Sicilia, torno nella mia cara e bellissima città d'origine, in Palermo e, col cuore puttanello che mi ritrovo, voglio dire generoso come sono, faccio favori a tutti, amici e amici degli amici, frequento picciotti e capi d' ogni famiglia, rama, quartiere o borgo: Porta Nuova, Corso dei Mille, Brancaccio, Belmonte, Ficarazzi, Acqua dei Corsari, Bandita...Come posso sapere, o signori palermitani, chi tra tanti mi passò l'infetto?


Ammesso che infettato io sia. E sono ridotto ora, vi dicevo, in questa angusta stanza d'ospedale, in questa cella carceraria, chiuso qui ogni giorno e notte senza possibilità di ricevere visite d'amici e di parenti, di uscire in cortile per una boccata d'aria. Ma non me ne fotte un cacchio! (scusate la parola è grossolana), perché ho qui in con me in camera i miei libri, i miei classici greci e latini, che imparai da ragazzo a frequentare e amare alla scuola dei preti, dei colti Gesuiti. Ho con me, per consolazione, Socrate e Platone, Virgilio, Tacito e Cicerone fino al “De l'esprit des-ois” di Montesquieu. Questa la mia consolazione. E un'altra, il guardare giù in cortile dalla finestra. Finestra, puah, chiamiamola piuttosto bocca di lupo, stretta com'è e con l'inferriata. Ma riesco a guardare giù ugualmente. E vedo, in quello spazio di cemento, picciotti che vanno a gruppi o soli su e giù, su e giù, senza sosta. Ne riconosco tanti, di quei picciotti, tanti a cui ho fatto favori, ho dato lavoro e nella grande Milano degli affari, al servizio del mio principale e amico, fra i più grandi e i più ricchi imprenditori del mondo.


Mi rattristo però, a guardare giù, e quindi ritorno a leggere il Fedone, l'allievo e fedelissimo seguace di Socrate...Ma subito m'incazzo e penso a quel fedendone che m'ha tradito, che ha detto a quei medici (cornuti!) che ero infetto, io, don Rosolino Utridogghio, specchiato di virtù e cultura, io, un appestato!


Vincenzo Consolo – L'UNITA' – 24/12/2004




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