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Le armi uccidono la parola |
Costretto ad andare esule negli Stati Uniti, nel 1931, a causa del fascismo, lo scrittore Giuseppe Antonio Borgese inviava al Corriere della Sera corrispondenze che, raccolti poi in volume, prendevano il titolo di Atlante americano. Erano, quei suoi articoli, osservazioni sull'America, su New York, la città assoluta, sulla verticalità di Manhattan, sull'Empire State Building, che era stato in quell'anno inaugurato, sulla provincia americana...E osservazioni anche sulla lingua americana. Diceva che l'inglese della Gran Bretagna, attraversato l'Atlantico e arrivato laggiù, nel Nuovo Mondo, si era negli anni modificato, era divenuta, quella lingua, un gergo scarno, rapido, funzionale, utilitaristico, mercantile: si era ridotta man mano in una lingua monosillabica. Più recentemente, e detto qui tra parentesi, lo scrittore greco Vassilis Vassilikos, ironicamente osservava che, dal secondo dopoguerra in poi, i presidenti degli States, dal quadrisillabico Eisenhower si erano ridotti man mano al monosillabico Bush. Ma lasciando da parte le ironie, è certo che le modificazioni linguistiche sono spesso la spia, il segno primo che qualcosa di nefasto sta irrompendo in un paese. L'idea di questa gente era di distruggere tutto quanto di fine e di delicato vi era stato in una tradizione poetica di più di sei secoli; deridendo la democrazia, applicavano alla letteratura i metodi più violenti della demagogia. Questa gente, questi distruttori, chi sono? Sono i futuristi di Marinetti. E' il brano sopra citato è tratto da Golia Marcia del Fascismo, ancora di Giuseppe Antonio Borgese. In questo saggio lo scrittore analizza la situazione sociale e il clima culturale negli anni Venti in Italia, in cui è nato il Fascismo, per cui è assurto al potere un omuncolo, un piccolo borghese di nome Mussolini (No, quell'uomo no!, esclamava il vecchio socialista Bissolati durante una conferenza, nel 1919, alla Scala di Milano, indicando Mussolini che, dentro un palco in compagnia di Marinetti, lo disturbava con versacci e urla volgari). In Golia, Borgese dimostra che il primo sintomo dell'insorgenza del fascismo, come di ogni totalitarismo, è la modificazione della lingua; lingua che, dal fascismo divenuto potere dittatoriale, viene ulteriormente modificata. In Italia, il Fascismo nacque sulle modificazioni linguistiche di D'Annunzio e di Marinetti e, divenuto regime, modificò ulteriormente la lingua, creò una koiné piccolo-borghese e burocratica da una parte, eroica e ridondante dall'altra. Mussolini impose, col nero di catrame e caratteri cubitali, sui muri di edifici pubblici e privati di tutto il Paese, una sua antologia di motti dannunziani, di trucidi slogan guerreschi. Questo è avvenuto in Italia col Fascismo. E lo stesso in Germania col Nazismo, come ci ha insegnato il filologo ebreo tedesco Viktor Kemplerer. Da professore all'università di Dresda ridotto a manovale, continuò a scrivere il suo giornale di linguistica, stese il suo libro Lingua Tertii Imperii, la trucida lingua delle iene naziste. Thomas Mann, che ebreo non era né filologo, abbandonando nel 1934 la Germania per esiliarsi negli Usa, forse per difendersi, oltre che dal Nazismo, dalla modificazione della lingua tedesca, si immergeva, durante il viaggio per mare attraverso l'Atlantico, nella lettura del grande archetipo del romanzo europeo, nel Don Chisciotte. Nel libro Una traversata con Don Chisciotte, oltre a scoprire i tesori nascosti, i rimandi ad autori classici nel capolavoro cervantino, Mann tesse l'elogio della lingua del traduttore tedesco, lingua che non è certo quella modificata dal Terzo Reich. Non saprei esprimere fino a quel punto mi entusiasmi la versione di Ludwing Tieck col suo linguaggio sereno, ricco e prezioso dell'età classico-romantica, questo tedesco nel suo stadio più felice. Infelice doveva essere invece lo stadio della lingua spagnola, la lingua di Cervantes, quando nel 1936, all'inizio della Guerra Civile, i falangisti di Franco, all'Università di Salamanca, ululavano al rettore, A Miguel de Unamuno, in una feroce lingua, Viva la muerte!. E lui, don Miguel, rispondeva: sento un grido necrofilo e insensato..., lui, che aveva sciolto un inno alla sua lingua, ...lengua en que a Cervantes / Diòs le diò el evangelio del Quijote. E vorremmo ancora dire, se ne avessimo cognizione, delle modificazioni del russo Puskin e di Tolstoj in Urss, dei linguisti sovietici a cui Stalin, che era Stalin, oppose un suo saggio di linguistica. Vorremmo ancora dire di altre modificazioni che hanno preluso all'avvento dei totalitarismi; modificazioni che hanno annunciato l'età delle catastrofi, il Novecento appena trascorso, il Secolo breve, come l'ha chiamato Eric Hobsbawn. Catastrofi. Sono sì quelle racchiuse tra le sue Sarajevo, come scrive Adriano Sofri, ma che vanno ancora oltre la seconda Sarajevo, oltrepassando il Novecento, arrivano a questo nostro Terzo Millennio. In questo presente in cui ormai tutte le nostre lingue sono state modificate, in cui sono insorte nuove metafisiche, nuovi misticismi, di segno nero o bianco, che denunziano, come negli anni Venti, l'instaurarsi di nuovi totalitarismi. E, primo d'ogni altro, il totalitarismo dei mezzi di comunicazione di massa, il quale ha il potere di seppellire le parole (e le immagini) della verità, di imporci l'impostura, la menzogna. E sotto la melma della menzogna viene seppellita la libertà d'espressione, viene seppellita la civiltà. Totalitarismo, quello dei media, che è feroce, aggressivo, bellicoso. E mette in campo, come simulacro, come ieri metteva in campo la diversità della razza, la categoria metafisica del Male:questo indica come Nemico, questo urla di voler distruggere con le armi. Ma dietro lo spirituale simulacro, sappiamo riusciamo ancora a sapere che vi è la materialità delle fonti energetiche, l'oleosa, sporca materia dell'oro nero, del petrolio. E davanti o sotto le bombe vi sono invece le vite umane, vi sono i corpi inermi, fragili degli innocenti. War, war,war! questo terribile monosillabo urlato ora belluinamente dall'attuale monosillabico presidente degli Usa, la guerra è stata da sempre una barbarie, uno scandalo. Scandalo è stato l'antica guerra narrata da Omero. Ed Efesto, narra il poeta, fabbrica le armi di Achille e scolpisce sullo scudo le scene di guerra, in cui Lotta e Tumulto era fra loro e la chera di morte, / che afferrava ora un vivo ferito, ora un illeso / o un morto tirava pei piedi in mezzo alla mischia, / veste vestiva sopra le spalle, rossa di sangue romano. E poi, nel secondo poema, Omero ci fa capire che quello decennale di Odisseo non è che un viaggio, un nòstos di espiazione della colpa, di rimorso per i morti e per la distruzione di Ilio. Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo... scriveva Salvatore Quasimodo nel '47, nel ricordo ancora vivo degli orrori, delle distruzioni, degli stermini della guerra, della notte più fitta d'Europa, del mondo. Dopo i campi di sterminio e Hiroshima, un'altra guerra esplodeva subito in Corea, ancora stermini si compivano. E Picasso, nel tratto e nella monocromia di Guernica, nella memoria dei Disastri della guerra di Goya, dipingeva i grandi cartoni di Massacro in Corea e de La guerra e la pace. E dopo ancora fu il Vietnam, la Bosnia, l'Iraq, la Serbia, la Palestina, l'Afghanistan... E oggi le bombe sono puntate contro Saddam Hussein, il raìs di Baghdad, contro il popolo iracheno. Ma bisognerebbe ricordare all'altro raìs, a Bush secondo, al presidente monosillabico del paese più potente del mondo, che il tiranno è un uomo senza speranza, che nel suo futuro, che nel suo futuro non ci sono che le Idi di marzo, sul suo cammino i pugnali di Cassio e Bruto. Bisognerebbe ricordare a Bush che se qualcuno dall'esterno lo colpisce, il tiranno si rafforza, fa deporre i pugnali ai congiurati; ricordare che, nella sua nera disperazione, il tiranno vuole soltanto che insieme a lui finisca, si dissolva il mondo intero. Sono stanco che il sole resti in cielo, non vedo l'ora che si sfasci la sintassi del Mondo..., dice Macbeth nel Castello dei destini incrociati di Calvino. Vincenzo Consolo L'UNITA' 29/12/2002
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