Il
90% della musica araba parla d'amore ma la realtà che
viviamo non è fatta di buoni sentimenti.... Incontro
con il trio di Tel Aviv, di scena all'università 15 anni
dopo la Pantera Tre ragazzi palestinesi
al microfono a fare rap. E a farlo bene. L'altra sera li ho visti
in azione. Con il loro colore verde oliva della pelle, la sciarpa
palestinese al collo, ondeggiavano al ritmo di cassa e rullante e
incitavano un migliaio di studenti e studentesse romane nella
facoltà di lettere alla Sapienza: Fanculo...,
gridavano, Occupazione!, rispondeva il pubblico. Ci
sanno fare, pensavo, e non potevo fare a meno di commuovermi.
Pensavo a quanti loro coetanei, magari vicini di casa, non hanno
trovato altra forma per esprimersi che quella di indossare una
cintura esplosiva e farsi saltare in mezzo ad altri giovani
israeliani. Pensavo chissà se arriverà mai una
terza intifada, ma questa volta con i corpi che bruciano e si
uniscono al tempo della musica invece che a quello del tritolo. I
tempi cambiano e cambiano anche le forme della comunicazione
politica. La scorsa settimana abbiamo avuto la gradita visita di
una piccola truppa di nuovi combattenti, i Dam, un gruppo di rap
palestinese con passaporto israeliano. Abitano a Lod, cittadina
israeliana a 20 km da Tel Aviv, dove convivono ebrei e arabi
musulmani e cristiani. La loro casa discografica si chiama 48
records e si riferisce chiaramente al 1948, l'anno della
catastrofe per i palestinesi, quando furono cacciati
in massa dalle loro terre. Il nome Dam, invece, vuol dire
eternità in arabo, ma anche sangue
in ebraico, e in inglese è l'acronimo di Gli Arabi
Controllori del Microfono. Sono effettivamente in una
posizione di vantaggio rispetto ai loro fratelli che vivono nei
campi profughi: possono viaggiare, incontrare altre persone nel
mondo, cosa che dovrebbero poter fare tutti. Ma non dimenticano
le loro origini.
Ci ritroviamo in un aula dell'università
di Roma per un incontro pubblico organizzato dal collettivo
Studenti contro la guerra che ha organizzato il
viaggio. C'è il Danno del Colle der Fomento,
ci sono io, ci sono i Dam. È una lezione particolare: Il
rap come linguaggio di resistenza. I tempi cambiano ma i
luoghi tornano, e così torno a parlare di rap sulla stessa
scalinata che aveva visto l'ascesa dell'Onda Rossa Posse durante
i tempi dell'università occupata dalla Pantera.
Esattamente 15 anni fa. L'aula è piena il pomeriggio e
soprattutto sarà strapiena la sera per il concerto. A
seguire questa insolita lezione si mescolano studenti e
studentesse curiose, amanti dell'hip-hop e sostenitori della
causa palestinese. Quando attaccano i fratelli Tamer e Suhell
Nafer, di 26 e 21 anni, e Mahmoud Jrere di 22 anni, li incalziamo
con le domande.
Come avete iniziato a rappare,
riprendendo una cultura che nasce dall'altra parte del
mondo?
Abbiamo iniziato nel 1998. Il 90% della musica
araba parla d'amore ma la realtà che viviamo non è
fatta di buoni sentimenti, così ascoltavamo 2 Pac e
sentivamo le sue stesse emozioni. Abbiamo cominciato anche noi a
esprimere i nostri sentimenti su quel tipo di ritmo. Le nostre
influenze sono miste, usiamo basi del rap americano ma anche
strumenti musicali tradizionali. Quanto ai testi, noi combattiamo
molte battaglie. La nostra è una città dove circola
droga in quantità con tutti i problemi relativi, ma questo
non è niente in confronto alla coscienza che abbiamo di
essere differenti dagli israeliani. È una condizione di
vero apartheid. Quando sei ragazzo hai il primo impatto a scuola,
lì realizzi che sei differente, quando nei programmi
scolastici si sostiene la propaganda sionista. Poi capisci anche
tutto il resto, cosa significa divieto di costruire,
impossibilità di avere licenze edilizie, distruzione di
case, esproprio della terra.
Dove fate i concerti e
qual è l'aria che si respira alle vostre
esibizioni?
Ovunque possiamo suonare noi suoniamo. Sia
in Israele che nei Territori occupati, anche se spesso è
difficile passare ai checkpoint e veniamo rimandati indietro. Ci
esibiamo nelle scuole, nei locali, nelle università, alle
manifestazioni, ai campi estivi. A volte affittiamo un camion per
creare sound system che girano per le strade. La maggior parte
dei nostri concerti sono gratis, ma in Israele facciamo pagare
6-7 euro: spesso sono benefit per mettere su un centro di
computer a Gaza, o per i prigionieri politici.
Avete
rapporti con rapper israeliani?
Noi cantiamo in arabo,
in inglese e anche in ebraico, in questo modo facciamo arrivare
il messaggio anche agli israeliani e creiamo un ponte con loro.
Ci sono rapper israeliani con i quali abbiamo collaborato
scrivendo delle canzoni insieme. Con altri invece che non sono in
grado di capire il nostro grido di protesta ci siamo scontrati
anche fisicamente. Ma non esistono gare di freestyle e non ci
siamo mai potuti combattere con insulti in rima.
Con la
vostra attitudine di rap politico riuscite a stare nel mercato
discografico?
È molto difficile riuscire a
produrre dischi nella nostra situazione. Ci abbiamo messo 4 anni
a produrre il nostro primo disco, che uscirà a giugno.
Abbiamo fatto tutto da noi e non abbiamo ancora chi ce lo
distribuisce. Ma non rinunciamo a quello che vogliamo dire. Se il
palco è importante, la scrittura è la cosa
principale. Per noi ogni parola deve essere chiara, il messaggio
deve arrivare perché sentiamo la responsabilità
della lotta di un popolo. Vogliamo rilanciare la cultura
palestinese. Quando pensi alla musica araba, pensi a quella
libanese o siriana o ad altro, ma non a quella palestinese. Nella
mappa della musica e dell'arte noi vogliamo costruire un'identità
palestinese.
Le radio israeliane passano i vostri
pezzi?
Le radio di destra ogni tanto, quelle di
sinistra preferiscono solo pezzi d'amore. In radio siamo esclusi,
a parte qualche amico dj. Siamo conosciuti perché cantiamo
alle manifestazioni e per questo motivo ci mandano spesso in
tv.
Come è stata recepita la vostra musica dai
combattenti palestinesi?
Ci siamo fatti conoscere nel
nostro mondo e tutti i palestinesi ci hanno incoraggiato ad
andare avanti per questa strada. Anche Arafat ha ascoltato una
nostra canzone e ci ha fatto i complimenti. Ci seguono molti
bambini, e per noi questa è la soddisfazione più
grande.
Subite repressione in quanto band musicale?
Un
giornale è arrivato a scrivere che il Mossad dovrebbe
interessarsi a noi e controllare quello che facciamo. Ma non
possono fare niente contro la nostra musica. Noi non cantiamo
l'odio e non istighiamo alla violenza, noi parliamo di diritti.
Chiediamo la libertà e per questo non possiamo essere
messi a tacere.
Intervista di Militant a IL
MANIFESTO 27/04/2005
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