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CINEMA

Bush non avrai il suo scalpo

C'è un'altra America, per fortuna. Un'America che guarda al “fronte interno”: “dopo la vittoria di Bush sono stato sotto shock per alcuni giorni, ma ora mi sento stranamente rinvigorito. Sono pronto a fare qualunque cosa perché i prossimi quattro anni siano i più difficili che un presidente abbia mai vissuto alla Casa Bianca”. Ma, soprattutto, un 'America che guarda al mondo: “Abbiamo grandi responsabilità nei confronti del mondo, e dobbiamo andare alle radici di queste responsabilità, capire da dove sono iniziate. Rievocare la storia di Haiti, come ho fatto in The Agronomist, è un modo di ricordare che non sempre i nostri marines esportano democrazia”.

Jonathan Demme è un pezzo importante di questa “altra” America. E' un regista onusto di Oscar: all'inizio degli anni '90, con Il silenzio degli innocenti e Philadelphia, è stato forse il regista più “caldo” di Hollywood, poi il successo è venuto un po' meno, ma la coerenza – artistica e politica – mai. Ora è nei nostri cinema con un'entusiasmante doppietta: da qualche settimana è uscito The Manchurian Candidate, thriller fantapolitici (ma più “politico” che “fanta”) sull'ingerenza delle multinazionali a Washington; da questo week-end si può vedere (distribuito dalla Bim) anche il documentario The Agronomist, presentato a Venezia 2003. L'agronomo del titolo è lo straordinario Jean Dominique, laureato appunto in agraria ma da sempre giornalista radiofonico militante in quel di Haiti: il film segue la sua vita attraverso una serie di incontri e di interviste che Demme ha realizzato dal 1987 in poi, e solo alla fine ci dà la notizia ferale, l'assassinio di Dominique avvenuto a Port-au-Prince il 3 aprile del 2000. sono passati più di 4 anni e ancora la vedova di Jean, Michèle Montas, aspetta giustizia: il governo del partito Fanmi Lavalas ha fatto di tutto per nascondere le prove, proteggere gli assassini e intimidire i giudici (per saperne di più, consultare l'ottimo sito internet www.theagronomist.com


Jonathan, perché hai deciso di rivelare la morte di Dominique solo alla fine del film?

Quando si gira un documentario, si scopre la natura stessa del film solo al momento di montarlo. Ho lavorato su materiali che coprivano un arco di quasi vent'anni. Inizialmente, pensavo di aprire il film con la morte di Jean e raccontare tutto il resto il flash-back. Poi ho capito che la vera forza di Jean era la sua inarrestabile vitalità, e ho preferito che lo spettatore ignaro lo conoscesse da vivo, per poi essere – credo – ancora più colpito dalla notizia della sua morte. Io ho conosciuto Jean nel 1987, a Port-au-Prince, dove mi ero recato per girare un documentario sul movimento democratico haitiano che si stava liberando dalla dittatura di Duvalier. Qualcuno mi portò a incontrare Jean, spiegandomi che era il padre della radio di Haiti libera, il primo a trasmettere in creolo (e non in francese) per far arrivare le notizie alla gente comune. Fui letteralmente sommerso dalla sua energia, dal suo carisma. Decisi che era uno dei personaggi più affascinanti che avessi mai incontrato e nel '91, quando fu costretto a venire in esilio a New York, gli proposi di girare un film su di lui. Gliene parlai come “un ritratto sul giornalista in esilio”, ma in realtà avevo un piano segreto: sognavo di affidargli prima o poi un ruolo in qualche bel thriller hollywoodiano. Se ci fossi riuscito, sono convinto che avrebbe vinto l'Oscar.

Purtroppo non ci sei riuscito...

Ahimè, no, ma ci sono andato vicino. Qualche anno dopo ho lavorato con Anna Hamilton Phelan, la sceneggiatrice di Gorilla nella nebbia, su un copione che raccontava l'occupazione americana di Haiti. Lì c'era un personaggio per lui, ma sfortunatamente il film non s'è fatto.

Dominique è stato anche il fondatore dei primi cineclub di Haiti. Era un grande appassionato di cinema, e a un certo punto, in un'intervista, ti dice che “la grammatica del cinema è sempre un atto politico”. Tu sei d'accordo con lui?

Sì. E' un punto di vista giusto, ed è curioso che lui lo dica parlando della Strada di Fellini, che a prima vista è un film apolitico. Credo che Jean intendesse che, quando fai un film sulla condizione umana, fai sempre un film politico sul momento storico in cui vivi, sul bisogno di cambiare. Jean era prima di tutto un lottatore. Aveva il fuoco dentro, credeva nell'umanità, le sue azioni erano sempre indirizzate al bene del suo popolo e del suo paese. Pur vivendo in America, in esilio, era sempre duro e al tempo stesso ironico sulle ingerenze americane ad Haiti. Parlando di Reagan, lo chiamava “Ronald” e ricordava che la repressione era ricominciata, ad Haiti, dopo la presidenza Carter, quando – parole sue, parole – “i cowboys erano tornati alla Casa Bianca”. Anche ora i cowboys sono alla Casa Bianca, ed è compito nostro, di tutti gli oppositori, “tenere alta la pressione”, come diceva Jesse Jackson, Bush e i suoi uomini si stanno consolidando, nei prossimi quattro anni faranno un lavoro disastroso dal punto di vista sociale ed economico, il peggiore che un presidente abbia mai fatto nella nostra storia. Ma proprio per questo sempre più gente si opporrà a Bush, e lui farà la stessa fine di Nixon. Almeno spero.

Nei cinema italiani, in questo momento, c'è anche “The Manchurian Candidate”. Lì, sicuramente, è come diceva Dominique: la grammatica del film è un atto politico.

Il denuncia soprattutto il modo in cui i nostri leader usano la paura per perseguire i propri catastrofici progetti. E' anche un grido di rabbia contro i media, contro i giornalisti americani asserviti al governo. Credo che Richard Condon, quando scrisse il romanzo originale negli anni '50, durante il maccartismo, avesse le medesime intenzioni. La satira dell'anti-comunismo era centrale nel libro e nel vecchio film di John Frankenheimer, noi l'abbiamo reinventata, stavolta la macchinazione della “Manciuria” è ordita da una multinazionale. Non avrei mai fatto il remake di un simile capolavoro se non avessimo trovato una chiave per attualizzarlo. Il vecchio “Candidate” (in Italia si intitolava Và e uccidi, ndr) era un film rivoluzionario, che mescolava spettacolo e avanguardia, metteva a nudo i meccanismi della politica, rappresentava la violenza in modo nuovo...io nel '62 ero un teen-ager e non avevo mai visto nulla del genere. Con quel film, Frenkenheimer mi fece capire che il cinema può non solo divertirti, ma anche scoperchiarti il cervello.

Possiamo chiudere con una domanda totalmente diversa?

Prego.

Tu hai lavorato con Neil Young per “The Complex Sessions”, al tempo di “Sleep with Angels”, e per la colonna sonora di “Philadelphia”. Ci fai un elogio di questo meraviglioso cantante?

Mi inviti a nozze. Secondo me Neil Young è uno dei grandi autori della canzone americana, sta alla pari di Bob Dylan, di Cole Porter, di chiunque. Sai, io volevo aprire Philadelphia con una canzone militante, che fosse una speci di chiamata alle armi, che desse il segno di un film che voleva metter fine alla discriminazione contro i gay, i malati di aids...insomma, volevo mettere sui titoli di testa Southern Man, un vecchio pezzo di Neil contro il razzismo. Montai quindi l'inizio del film con Southern Man e lo mandai a Neil, chiedendogli se poi voleva scrivere una canzone nuova. Qualche giorno dopo mi spedì un nastro. Lo ascoltai in macchina e scoppiai a piangere: era Philadelphia, una canzone bella al punto di spezzare il cuore, perfetta per il finale, ma NON militante. Ne parlai con Bruce Springsteen, che era anche lui coinvolto, e lui mi disse: ok, ci penso io. E mi scrisse Street of Philadelphia, bellissima, ma anche lei NON militante. A quel punto pensai: forse questi due cantanti credono nel film e nel pubblico più di quanto ci creda io, e ho smesso di cercare la canzone militante. Il film è uscito con i loro due pezzi, entrambi sono stati candidati all'Oscar, e quando Bruce ha vinto ha “diviso” il premio con Neil. Una soddisfazione enorme. Più degli Oscar che ho vinto io.

Intervista di Alberto Crespi – L'UNITA' – 28/11/2004

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