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MARCO LUPIS
Il Manifesto, 7 maggio 2002

Intervista ad Aung San Suu Kyi


Intervista ad Aung San Suu Kyi che da ieri non è più agli arresti domiciliari imposti dai militari al potere tredici anni fa
Birmania, il Nobel torna in libertà "Una vittoria, ma non è finita"



HONG KONG - Alle dieci del mattino di ieri, silenziosamente, le guardie che stazionavano davanti alla residenza di Aung San Suu Kyi, leader del dissenso democratico birmano, hanno fatto ritorno alla loro caserma. Così, con una mossa a sorpresa, la giunta militare di Rangoon ha revocato le restrizioni alla libertà di movimento della leader pacifista, "la Signora" come la chiamano semplicemente in Birmania, premio Nobel per la Pace nel 1991, agli arresti domiciliari dal lontano 20 luglio 1989.
Dalle 10 del mattino di ieri quindi, dopo quasi 13 anni, Aung San Suu Kyi è libera di uscire dalla Casa sul lago, di comunicare con chiunque, di fare politica, di vedere i suoi figli. Lei appena ritornata in libertà non ha perso tempo. Ha subito raggiunto in autoil quartier generale del suo partito, quella Lega nazionale per la democrazia (Lnd), che nelle elezioni del 1990, ottenne una schiacciante vittoria (l´80 per cento dei voti). Il governo militare annullò il risultato delle elezioni, proibì le attività dell´opposizione, represse violentemente le manifestazioni di piazza e i leader dell´opposizione vennero imprigionati o esiliati. Il parlamento non fu mai convocato.

L´edizione italiana della sua autobiografia si intitola "libera dalla paura". Si sente così, adesso?
«Adesso, per la prima volta da più di un decennio, mi sento libera. Fisicamente libera. Libera soprattutto di agire e di pensare. Come spiego nel mio libro, sono molti anni ormai che mi sentivo "libera dalla paura". Da quando avevo capito che i soprusi della dittatura qui nel mio Paese potevano ferirci, umiliarci, anche ucciderci. Ma non potevano più farci paura».

Appena libera, ha subito dichiarato di non essere stata sottoposta a condizioni e che la giunta militare al potere l´ha autorizzata a recarsi anche all´estero. Ci crede davvero?
«Negli ultimi mesi sono stati liberati centinaia di prigionieri politici, e i militari mi hanno assicurato che continueranno a liberare quelli che – dicono loro – "non rappresentano un pericolo per la comunità". Tutti qui vogliono credere, vogliono sperare che questo sia davvero il segno del cambiamento».

Ora che è stata liberata, non teme di essere espulsa?
«Deve essere chiaro che io non me ne andrò. Io sono birmana, ho rinunciato alla cittadinanza britannica proprio per non offrire scuse al regime. Non ho paura. E questo mi da forza. Ma il popolo ha fame, perciò ha paura e così diventa debole».

Lei ha più volte, e con forza, denunciato le intimidazioni dei militari nei confronti dei simpatizzanti della Lega per la democrazia. Tutto questo continua ancora oggi?
«Secondo i dati in nostro possesso nel solo 2001 l´esercito ha arrestato oltre 1000 militanti dell´opposizione per ordine dei generali. Molti altri sono stati costretti a dimettersi dalla Lega dopo aver subito intimidazioni, minacce, pressioni illegali per le quali non esiste alcuna giustificazione. La strategia d´azione è sempre la stessa, capillare: unità di funzionari statali sguinzagliate su tutto il territorio nazionale girano «porta a porta» per le case chiedendo ai cittadini di lasciare la Lega. Le famiglie che si rifiutano vengono ricattate con lo spettro della perdita del lavoro e spesso con esplicite minacce. Molte sezioni del partito sono state chiuse e ogni giorno i militari controllano il numero di quanti si sono dimessi».

Il colpo di scena della sua liberazione, l´ha colta di sorpresa oppure si è trattato di qualcosa attentamente preparato e studiato dai militari per questioni di "immagine" internazionale?
«Dal '95 ad oggi l´isolamento della Birmania si è a poco a poco allentato, l´Ateneo di Rangoon è stato riaperto, e forse il livello di vita è leggermente migliorato; ma la storia della Birmania continua a svolgersi in una quotidianità fatta di violenze, illegalità e soprusi sia contro i dissidenti che contro le minoranze etniche. I militari sono sempre più in difficoltà, sia sul piano interno che su quello internazionale. Nel frattempo continuano a trafficare droga. La nazione è praticamente un´immensa cassaforte di cui solo l´esercito conosce la combinazione. E non sarà facile convincere i generali a dividere tale ricchezza con gli altri 50 milioni di birmani.

A questo punto quali sono le sue condizioni per iniziare il dialogo?
«Non accetteremo nessuna iniziativa - si parla anche di elezioni indette dai generali - finché non verrà riunito il Parlamento eletto nel '90. Il mio Paese resta dominato dalla paura».



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