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Intervista ad Aung San Suu Kyi |
Intervista
ad Aung San Suu Kyi che da ieri non è più agli arresti
domiciliari imposti dai militari al potere tredici anni fa
Birmania,
il Nobel torna in libertà "Una vittoria, ma non è
finita"
HONG
KONG - Alle dieci del mattino di ieri, silenziosamente, le guardie
che stazionavano davanti alla residenza di Aung San Suu Kyi, leader
del dissenso democratico birmano, hanno fatto ritorno alla loro
caserma. Così, con una mossa a sorpresa, la giunta militare di
Rangoon ha revocato le restrizioni alla libertà di movimento
della leader pacifista, "la Signora" come la chiamano
semplicemente in Birmania, premio Nobel per la Pace nel 1991, agli
arresti domiciliari dal lontano 20 luglio 1989.
Dalle 10 del
mattino di ieri quindi, dopo quasi 13 anni, Aung San Suu Kyi è
libera di uscire dalla Casa sul lago, di comunicare con chiunque, di
fare politica, di vedere i suoi figli. Lei appena ritornata in
libertà non ha perso tempo. Ha subito raggiunto in autoil
quartier generale del suo partito, quella Lega nazionale per la
democrazia (Lnd), che nelle elezioni del 1990, ottenne una
schiacciante vittoria (l´80 per cento dei voti). Il governo
militare annullò il risultato delle elezioni, proibì le
attività dell´opposizione, represse violentemente le
manifestazioni di piazza e i leader dell´opposizione vennero
imprigionati o esiliati. Il parlamento non fu mai
convocato.
L´edizione italiana della sua
autobiografia si intitola "libera dalla paura". Si sente
così, adesso?
«Adesso, per la prima volta da più
di un decennio, mi sento libera. Fisicamente libera. Libera
soprattutto di agire e di pensare. Come spiego nel mio libro, sono
molti anni ormai che mi sentivo "libera dalla paura". Da
quando avevo capito che i soprusi della dittatura qui nel mio Paese
potevano ferirci, umiliarci, anche ucciderci. Ma non potevano più
farci paura».
Appena libera, ha subito dichiarato di
non essere stata sottoposta a condizioni e che la giunta militare al
potere l´ha autorizzata a recarsi anche all´estero. Ci
crede davvero?
«Negli ultimi mesi sono stati liberati
centinaia di prigionieri politici, e i militari mi hanno assicurato
che continueranno a liberare quelli che dicono loro
"non rappresentano un pericolo per la comunità".
Tutti qui vogliono credere, vogliono sperare che questo sia davvero
il segno del cambiamento».
Ora che è stata
liberata, non teme di essere espulsa?
«Deve essere
chiaro che io non me ne andrò. Io sono birmana, ho rinunciato
alla cittadinanza britannica proprio per non offrire scuse al regime.
Non ho paura. E questo mi da forza. Ma il popolo ha fame, perciò
ha paura e così diventa debole».
Lei ha più
volte, e con forza, denunciato le intimidazioni dei militari nei
confronti dei simpatizzanti della Lega per la democrazia. Tutto
questo continua ancora oggi?
«Secondo i dati in nostro
possesso nel solo 2001 l´esercito ha arrestato oltre 1000
militanti dell´opposizione per ordine dei generali. Molti altri
sono stati costretti a dimettersi dalla Lega dopo aver subito
intimidazioni, minacce, pressioni illegali per le quali non esiste
alcuna giustificazione. La strategia d´azione è sempre
la stessa, capillare: unità di funzionari statali
sguinzagliate su tutto il territorio nazionale girano «porta a
porta» per le case chiedendo ai cittadini di lasciare la Lega.
Le famiglie che si rifiutano vengono ricattate con lo spettro della
perdita del lavoro e spesso con esplicite minacce. Molte sezioni del
partito sono state chiuse e ogni giorno i militari controllano il
numero di quanti si sono dimessi».
Il colpo di scena
della sua liberazione, l´ha colta di sorpresa oppure si è
trattato di qualcosa attentamente preparato e studiato dai militari
per questioni di "immagine" internazionale?
«Dal
'95 ad oggi l´isolamento della Birmania si è a poco a
poco allentato, l´Ateneo di Rangoon è stato riaperto, e
forse il livello di vita è leggermente migliorato; ma la
storia della Birmania continua a svolgersi in una quotidianità
fatta di violenze, illegalità e soprusi sia contro i
dissidenti che contro le minoranze etniche. I militari sono sempre
più in difficoltà, sia sul piano interno che su quello
internazionale. Nel frattempo continuano a trafficare droga. La
nazione è praticamente un´immensa cassaforte di cui solo
l´esercito conosce la combinazione. E non sarà facile
convincere i generali a dividere tale ricchezza con gli altri 50
milioni di birmani.
A questo punto quali sono le sue
condizioni per iniziare il dialogo?
«Non accetteremo
nessuna iniziativa - si parla anche di elezioni indette dai generali
- finché non verrà riunito il Parlamento eletto nel
'90. Il mio Paese resta dominato dalla paura».
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