Lo incontriamo alla fine di
gennaio sul lot della Warner, a Burbank, dove da quasi
trent'anni mantiene l'ufficio della Malpaso, la casa di
produzione che prende il nome da un fiume vicino alla sua Carmel,
nella California settentrionale. Arriva nella hall dello Steven J
Ross theatre accompagnato da un paio di assistenti, alto,
dinoccolato, sorridente e cortese, come un gentleman di una
Hollywood di altri tempi. Settantaquattro anni portati bene ma
che si vedono tutti nelle rughe attorno agli occhi leggendari con
cui ci fissa. Gli facciamo i complimenti per le nomination agli
Oscar ricevute da Million dollar baby (uscirà nelle
sale italiane il 18 febbraio) e gli spieghiamo il senso del detto
in bocca al lupo che trova molto divertente
insistendo per farsi insegnare anche la risposta. Crepi il
lupo dice con un accento impastato di americano.
A
questo punto della sua carriera ricevere una nomination è
ancora un fatto emozionante?
Fa sempre piacere perché
vuol dire che il tuo film è preso in qualche modo sul
serio. Quando fai un film non lo fai per una sala vuota, speri
sempre che la gente lo veda e se qualcuno lo critica in maniera
positiva è una cosa bella, tanto più se viene
compreso fra i cinque candidati.
Delle sette nomination
ce n'è una che le fa particolarmente piacere, di cui va
più fiero?
Sono fiero di tutte perché un
film è un lavoro collettivo, di un gruppo di persone che
fanno una cosa assieme e quindi è importante ogni
riconoscimento, sia quelli cosiddetti tecnici, come
il montaggio anche se io non lo considero certo tale, che quelli
principali, la regia e gli attori. Fa piacere.
In
passato lei è stato nominato come migliore attore, ma non
ha mai vinto. Quest'anno la concorrenza è particolarmente
forte, penso a Jamie Foxx. È un caso particolare perché
in un certo senso compete con Ray Charles che era un suo caro
amico...
Non lo considero come una competizione
agonistica, si viene votati in un gruppo, ma non la vedo come una
gara contro gli altri. L'ironia naturalmente è che
conoscevo Ray molto bene avevo lavorato con lui negli anni '70 e
lo avevo intervistato per Piano Blues, un documentario che
ho fatto circa un anno fa. Ray stava già poco bene ma
quando ci siamo messi a parlare di musica e delle nostre
rispettive ispirazioni - io e lui avevamo la stessa età -
allora è come rinvenuto, come se non stesse più
male affatto. In realtà però non stava bene e dopo
di quella volta no ha più rilasciato interviste.
Tornando
all'Oscar, pensa davvero che riflettano il meglio del cinema?
Ma
davvero non credo, è un terno al lotto. Ogni anno ci sono
della grandi performance che non vengono neppure nominate. Un
sacco di bei film hanno vinto e tantissimi grandi film hanno
perso e molti film brutti si sono portati a casa una statuina non
c'è giustizia. C'è una battuta del mio personaggio
ne Gli Spietati, verso la fine del film che dice:
meritare non c'entra niente e con l'Academy è
un po' così. Dipende molto dall'interpretazione della
gente. L'anno scorso siamo stati fortunati a venire nominati con
Mystic River ma tutti erano abbagliati dalla mole del
Signore degli Anelli, l'Oscar è andato a quella
trilogia e giustamente, nel senso che avevano rischiato parecchio
in un progetto che se fosse fallito sarebbe stato molto
costoso.
A proposito di battute dei suoi film, in
Cacciatore bianco, cuore nero lei fa dire a John Huston
che i film non si fanno per il pubblico, l'unica maniera di
essere coerenti è pensare che nessun li andrà mai a
vedere, mi sembra di capire che lei non la pensa proprio
così...
No, no, sono d'accordo con Huston, o
almeno con quello che racconta di lui Peter Viertel nella sua
biografia, che devi fare un film per ciò in cui credi, ti
piace la storia e hai fede nella storia e quindi a un certo punto
devi dire bene lo faccio, e se qualcuno lo vede bene
ma se non ci va nessuno non te ne puoi fare una colpa, l'hai
fatto perché ci hai creduto, in definitiva è questo
l'unico metro con cui giudicare un film. Di certo non perché
hai fatto un sondaggio tra 16 dodicenni e hai scoperto il tipo di
film che vorrebbero andare a vedere. Il cinema secondo la
demografia è purtroppo un metodo molto in voga negli
studios: ecco i dati, ecco i trend, abbiamo un bel modello
computerizzato del pubblico tipo. Non ci credo o almeno non è
il mio metodo.
Non e' l'unico dogma hollywoodiano che
non rispetta. L'happy ending ad esempio, e Million dollar baby
è stato criticato perché finisce male...
non crede ai lieto fine?
Non necessariamente. Non lo
escludo se è la storia giusta e ha quel feeling, ma ci può
essere anche un finale amaro o entrambe le soluzioni, dipende dal
film. Ho fatto l'una e l'altra cosa, alla fine ogni storia ha una
vita propria e tu la presenti secondo come ti senti al momento di
raccontarla, in questo caso la sentivo così.
Come
si spiega il fascino del pugilato come fonte di un genere
cinematografico e letterario, da Città amara (Fat
City di Huston) a Joyce Carol Oates?
Forse è la
semplicità di un evento atletico essenziale
dove una persona deve prevalere su di un'altra, perché
contrappone due individui non due squadre. Ci possono essere
migliaia di spettatori, ma in realtà tutto si svolge sul
ring, una piccola arena dove si evidenziano il trionfo della
vittoria e l'angoscia della sconfitta, una chiarezza
che si presta al cinema.
Parliamo dell'Italia e della
sua decisione di venirci negli anni `60, la sua collaborazione
con Sergio Leone, la considera una svolta decisiva alla sua
carriera, la nascita del suo personaggio in qualche
modo?
Ci penso spesso. Raccontavo l'altro giorno a
qualcuno di quando la United Artist decise di fare una riedizione
del Buono, il brutto e il cattivo con materiale aggiuntivo
e quindi dovetti tornare a fare il doppiaggio, uno di quei
director's cut, e così mi sono ritrovato a fare dei
loop di dialoghi di quando avevo 30-35 anni, più
giovane di quanto sia mio figlio oggi! Ricordo soprattutto di
quel tempo, la prima volta che venni in Italia, ero ancora un
totale sconosciuto, la mia serie (Rawhide, ndr) non era
mai andata in tv. Mi incontrai con Sergio il quale fino allora
aveva fatto un unico film, il Colosso di Rodi, anche se
era stato a lungo assistente alla regia. Fu un esperienza unica
con tante incognite, in un paese dove non mi conosceva nessuno,
al massimo mi riconosceva per strada qualche turista inglese
perché Rawhide era già conosciuta. Andammo
in Spagna a girare e lì fu la stessa cosa, ero solo un
tipo qualunque che faceva il pistolero, nessuno pensava che
avrebbe potuto avere un seguito e invece...
Temo che
ormai farebbe fatica a trovare un posto dove non la
riconoscano...
Voglio dire che fu una grande cosa. A
volte decidi una cosa su due piedi, decidi di buttarti e
rischiare, ascolti la vocina che ti parla nell'orecchio e che ti
dice: Dai, fallo. E non so per come o perché
ma alla fine è andata bene.
Luca Celada IL
MANIFESTO 14/02/2005
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