Carter,
un altro Chavez; Carter, comprato da Chavez.
Lungo le mura di cinta dei ricchi condomini de Las Mercedes e di
El Rosal, le rancorose e un po' ingenue scritte dell'opposizione,
che non perdona all'ex presidente degli Stati uniti di aver
legittimato il referendum che ha confermato con 5 milioni e
800.000 voti Hugo Chavez alla testa del Venezuela, ricordano
ancora il voto del 15 di agosto. Ma sono già scolorite e
nessuno ha avuto più voglia di rinnovarle. Anche le
manifestazioni della Coordinadora Democratica sono diventate rare
e poco affollate. I borghesi di Caracas restano chiusi nei loro
quartieri e conducono la vita dei separati in casa, ancora
stupefatti che fuori dal loro quadrilatero, dove hanno ottenuto
fino al 95% del consenso, ci sia chi ha potuto votare
diversamente. In qualche modo, si capisce perché ritengono
che il voto sia stato truccato: loro non conoscono nessuno che
appoggi il governo bolivariano. Quelli - il popolo delle favelas
- sono un mondo a parte, un'altra specie, forse nemmeno
umana.
Il trionfo amministrativo
Nel
frattempo - il 31 di ottobre, lo stesso giorno in cui in Uruguay
venivano sconfitti ambedue i partiti che da 150 si spartivano il
potere e veniva eletto il progressista Tabarè Vasquez e in
Brasile Lula perdeva le grandi città di S.Paolo e Porto
Alegre ma vinceva ovunque altrove - in Venezuela si è
votato anche per i sindaci e i governatori dei 22 stati federali:
il Mvr (il chaveziano Movimento per la V Repubblica ) ne ha vinti
20 e ha incassato la schiacciante maggioranza dei sindaci. Una
catastrofe», ha commentato Eduardo Fernandez, presidente
del Copei (la Dc venezuelana che con la socialdemocratica Ad si è
alternata al governo per decenni): Avevamo due milioni di
voti e governavamo 120 comuni, ora ne abbiamo 200.000, e 24
comuni.
Ma lucidamente, Fernandez ammonisce i suoi
partner della Coordinadora a smetterla di parlare di brogli e ad
accusare, come un tempo il nostro Saragat, il destino
cinico e baro, qui chiamato cisne negro. Come
dimostrano le due vittorie negli stati di Zulia e in quello molto
turistico di Nuova Sparta, quando i voti ci sono, non c'è
modo di rubare le elezioni, dice. La verità,
aggiunge, è che in sei anni siamo passati da un tracollo
all'altro: oggi Chavez è molto più forte, sia
dentro il paese che internazionalmente, l'opposizione molto più
debole sia dentro che fuori. Pompeyo Marquez, il noto ex leader
del Mas, un tempo influente partito della sinistra, oggi quasi
inesistente, sembra il solo a insistere sulla vecchia linea,
ormai abbandonata dai più.
A conferma del duro
giudizio autocritico di Fernandez, arrivano negli stessi giorni
tre altre docce fredde: le foto di Chavez che si abbraccia con
Zapatero, il cui ministro degli esteri, Moratinos, ha appena
rivelato di avere le prove che il precedente governo spagnolo
aveva sostenuto i golpisti di Caracas; il rifiuto del presidente
de El Salvador, non certo di sinistra, di concedere asilo
politico (e di continuare a dare ospitalità nella sua
ambasciata di Caracas ) a due graduati della polizia municipale,
complici dei complottatori, perseguiti per le sparatorie di quei
giorni drammatici; il ritiro dell'asilo a un altro golpista
dell'aprile 2002, il presidente della Confederazione dei
lavoratori, da parte del Costa Rica.
Sebbene il solco che
divide la società venezuelana sia ben lungi dall'esser
colmato e nonostante solo qualche gesto simbolico indichi una
normalizzazione nei rapporti fra governo e opposizione, Hugo
Chavez si è senza alcun dubbio rafforzato: presso il suo
popolo, i poveri, che sono però l'80% del paese. Che ha
conquistato soprattutto con le missiones, i programmi
sociali straordinari che hanno come obiettivo l'inclusione di
tutti coloro che sono stati esclusi dal sistema sociale nell'area
dell'educazione, della salute, dell'abitazione,
dell'alimentazione. Progetti rudimentali che però
funzionano. Se si va in un barrio popolare la sera si scopre così
che tutti - i bambini ma anche i genitori e i nonni - sono a
scuola per conseguire il diploma di licenza elementare che hanno
mancato; e in ognuno sorge uno strano, piccolo edificio a due
piani, un modulo ottagonale di mattoni rossi: si tratta del
barrio adentro, l'ambulatorio, dove si visitano e si
curano gratis gli abitanti del quartiere. Se ne occupano 10.000
medici cubani prestati al Venezuela, in città
ognuno di loro vive al piano di sopra, in campagna in una capanna
come gli altri, e quando servono apparecchiature più
sofisticate, o ricoveri ospedalieri, spediscono a Cuba i malati:
il trasporto aereo costa assai meno dell'ospedale privato, la
sola soluzione locale. Fra qualche anno torneranno in patria i
giovani mandati a studiare nelle facoltà di medicina
dell'Havana e così un ricambio, altrimenti impensabile,
sarà possibile. Nel barrio esiste anche la casa
dell'alimentazione, dove una donna scelta dal comitato di
quartiere è incaricata dall'amministrazione pubblica, che
fornisce le derrate, di cucinare per i bambini di strada e i
vecchi abbandonati.
Populismo? Sì - risponde
ironico Chavez - io mi occupo del popolo. E a chi lo
critica, accusandolo di sperperare le entrate del petrolio per
distribuire risorse, anziché per costruire una struttura
economica moderna ed efficiente, risponde che l'esperienza prova
come nessun modello di sviluppo possa funzionare se non c'è
un soggetto socialmente non marginalizzato, culturalmente
attrezzato e dunque sovrano nel pieno senso della parola.
Insomma: sottratto al degrado, al disimpegno, all'atomizzazione e
al ricatto che ne consegue. Fra tutti gli investimenti - ecco
l'ipotesi su cui lavora Chavez - il più urgente, premessa
per ogni altro che voglia essere efficace, è quello per il
capitale umano. Perché senza sviluppo sociale non può
esserci neppure sviluppo economico.
La forza dei
barrios
La forza del movimento bolivarista sta nella
struttura politico-sociale che si è costruita nei barrios,
grazie a un grande salto di coscienza, a uno sforzo, molto
inventivo, di auto organizzazione. L'idea, come tutte quelle di
Chavez, è semplice e al tempo stesso inoppugnabile: il
solo modo di combattere la povertà è dare potere ai
poveri. In questo senso, le missioni non hanno solo
per scopo di alimentare, istruire, curare, ma di favorire la
prima, essenziale inclusione: quella, organica, nella gestione
pubblica. Qui, il processo viene chiamato democrazia
partecipativa ma è parecchio di più delle
analoghe esperienze già tentate in Brasile e in qualche
modo ripetute persino in Italia in alcuni comuni di sinistra. Non
si tratta, infatti, solo di codecidere il bilancio preventivo del
governo locale, ma di costruire embrioni di un nuovo stato in
formazione.
Il progetto è ambizioso e subito sorge
l'interrogativo del rapporto fra queste istituzioni di base in
via di formazione e la democrazia rappresentativa. Il passato
dice che gli abusi sorti dalla confusione fra i due terreni
dell'esercizio del potere, e la progressiva eliminazione della
seconda, hanno generato mostri. Per ora, tuttavia, le elezioni
tradizionali a suffragio universale non sono state toccate e se
Chavez può spingersi ad altre, più avanzate
sperimentazioni, è perché, comunque, di elezioni,
dal 1998 ne ha vinte ben cinque. E già parla di come
condurre la campagna elettorale del 2006, quando scadrà il
suo mandato presidenziale. Sebbene Fidel resti nel cuore dell'ex
colonnello e ogni manifestazione cominci con un omaggio al
querido pueblo cubano, del modello dell'Havana, qui
in Venezuela, almeno per ora non c'è traccia. Ma Chavez
non manca di irridere ai proclami sul grande ritorno della
democrazia in America latina e commenta, ironico, i dati del
paludato Latinobarometro: in realtà, la
fiducia nella democrazia rappresentativa è caduta in
questi anni un po' ovunque, per via dei fallimenti dei governi
liberisti seguiti alle dittature.
Del socialismo parla di
rado, ma alla Conferenza internazionale degli intellettuali,
convocata all'inizio di dicembre a Caracas, ha finalmente
sfiorato l'argomento per dire due cose sagge: che non tutto
quanto è stato fatto in suo nome era da buttare via, e che
però in suo nome si sono commessi molti
errori.
L'esperienza venezuelana è naturalmente
molto facilitata dall'esistenza di una grande ricchezza,
concentrata e statale: il petrolio. Per scovare le risorse
necessarie a finanziare i programmi sociali, qui non occorre
dunque né procedere a pericolose nazionalizzazioni, né
a un altrettanto rischioso indebitamento pubblico. In altri paesi
latinoamericani, questo straordinario vantaggio non c'è. E
tuttavia anche qui non è facile muoversi entro i margini
resi ristretti dai condizionamenti internazionali, senza
arrendersi alle difficoltà, come su molti terreni sta
accadendo in Brasile, e tuttavia senza scivolare nelle
scorciatoie cubane. Il primo a non suggerirle, del resto, sembra
essere proprio Fidel, consapevole della irripetibilità
della storia cubana. Il divenire rivoluzionario cubano degli anni
Sessanta non può ripetersi oggi in altri paesi della
regione. Con quella venezuelana c'è solo una coincidenza:
nessuna delle due rivoluzioni ha ricalcato altre esperienze, ha
scritto l'ambasciatore dell'Havana a Caracas, il noto sociologo
Germàn Sanchez Otero.
Qualche rischio, tuttavia, si
delinea: il terrorismo è arrivato anche qui, uccidendo un
uomo prezioso, il giovanissimo procuratore generale Danilo
Andersen che stava istruendo il processo contro i golpisti del
2002. La destra gongola, sperando nella destabilizzazione che
questo cancro sempre fa insorgere, e paragona all'americano
Patriotic Act la legge subito varata dal parlamento per garantire
maggiore sicurezza. Che qualche restrizione di troppo certamente
introduce, ma in realtà mette in primo piano soprattutto
il reato di vilipendio del capo dello stato, che esiste in tutte
le nostre legislazioni e che qui, dove il mercato dei media resta
quasi interamente nelle mani dell'opposizione che abusa di tale
potere in modo insultante, era forse più che necessario.
E' sempre bene ricordare che, durante i giorni del golpe, le Tv
venezuelane, mentre il popolo scendeva in strada e Chavez,
liberato da una parte dell'esercito rimasto fedele, veniva
reinsediato a Villa Miraflores, non fornirono informazione alcuna
e nelle ore decisive l'emittente più importante continuò
a proiettare Tom&Jerry. Ora, dopo il referendum, le
trasmissioni sono un poco meno smodate ma democratizzare il
potere dei media senza introdurre censure, resta un problema
aperto.
Monopolio tv d'opposizione
Al quasi
monopolio dell'informazione scritta e parlata, Chavez oppone oggi
un canale statale, Canale 8, francamente noiosissimo
e però anche uno straordinario esperimento, affidato a una
giovanissima giornalista, Bianca Eachut, che proviene dalle Tv
comunitarie, sorelle abbastanza diffuse in America Latina delle
nostre street Tv: Viva Tv. Un'emittente che evita la
voce narrante del commentatore per dare il microfono direttamente
alla gente, così applicando un principio costituzionale
che da noi nemmeno la sinistra riconosce ancora come decisivo: il
diritto alla comunicazione, e cioè a rappresentarsi e non
solo a essere rappresentati, un diritto che è assai più
ricco del diritto all'informazione, per la cui attuazione lo
stato fornisce spazi e risorse, dandoli in gestione alla società
civile. Si tratta - dice Bianca - del modello comunicativo
della democrazia partecipativa e protagonistica che sta rendendo
visibile una società prima invisibile, perché
censurata.
E poi c'è il Venezuela visto
dall'estrema periferia, ai confini con la selva amazzonica della
Columbia e del Brasile, al di là dell'Orinoco che taglia a
nord il continente, tuttora la sola via non aerea di
comunicazione abbordabile. A Porto Ajacucho, capitale
dell'Amazzonia venezuelana, l' appena eletto governatore indigeno
ci dice: è la prima volta che nel mondo agli indigeni
viene riconosciuta la titolarità del territorio in cui
vivono, la legittimazione della loro lingua, il diritto di
disporre come credono delle istituzioni. E questo non post
mortem. Sono i diversi gruppi etnici che hanno ridisegnato
le mappe e hanno ottenuto che a ciascuna comunità venisse
data la terra, prima dello stato, in proprietà collettiva,
dove ora stanno sorgendo piccole cooperative per la
trasformazione dei prodotti agricoli che accrescono - mi dice
fiero il presidente di quella di Ayrumecha - il valore aggiunto
delle merci.
Immagini da socialismo reale? Siamo
tutti così scottati che si ha paura a dire che quel che
sembra andar bene va bene.
Certo, quella che sta vivendo
il Venezuela è una rivoluzione senza rivoluzione. Eventi
che come sappiamo sono anche pericolosi, ma producono rotture
salutari, liberano energie creative e quadri, consentendo di
compiere grandi balzi storici. Qui non è così,
tutto, certo, troppo è affidato a Hugo Chavez Frias e ai
suoi amici venuti quasi tutti dall'esercito. Il loro passato di
militari li rende molto più accorti di quanto fu Allende:
Siamo un regime pacifico, ma armato, avverte
sorridendo il presidente, implicitamente alludendo al Cile e al
fatto che loro sanno bene che i golpe sono sempre dietro
l'angolo. In compenso, manca la lunga accumulazione politico
culturale dei processi rivoluzionari del passato, così
come dei partiti che hanno potuto sperimentarsi in lunghe fasi di
dialettica democratica.
Luciana
Castellina IL MANIFESTO 21/12/2004
seconda
parte
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