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A sud di Bush, a nord di Lula |
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E' solo il primo capitolo di un confronto annunciato: l'altra America sarà il continente di Bush o di Lula? A Monterrey, Messico, l'assemblea straordinaria dei paesi americani apre uno scenario impensabile un anno fa. Oggi, per la prima volta, la superpotenza deve misurarsi con una realtà che sta cambiando senza rivoluzioni o tormento di guerriglie. Attorno alla cravatta del presidente del Brasile cresce l'impazienza di chi ormai non accetta di adeguarsi in silenzio alla diplomazia di Washington. Manda segnali di contestazione civile, non dirompenti, ma neanche quieti, anche perché l'altra parte del continente raccoglie gli stracci del 44 per cento della popolazione, 220 milioni di abitanti di una specie di cassaforte con ogni ben di dio. E la povertà cresce. Nel 2003 i disoccupati ufficiali in più sono 21 milioni, ma il lavoro di chi figura nell'elenco dei fortunati per quasi la metà copre impegni precari, contratti a termine, nessuna possibilità di programmare il futuro. Bush arriva in un Messico blindato. Per la prima volta nella storia dei due Paesi saranno agenti Usa a garantire la sicurezza degli aeroporti e attorno al muro di legno dell'area protetta dove i presidenti delle americhe discuteranno del trattato di libero commercio, Alca: dovrebbe regolare ogni scambio il prossimo anno dall'Alaska alla Terra del Fuoco. Per difenderci dall'espansione cinese, è la tesi degli uomini del Nord, ma i profughi del liberismo selvaggio imposto dai Chicago's boys nel sud latino, non sono d'accordo. Stanno sgombrando le macerie dell'economia che la cura liberista ha sbriciolato. Bush ha fretta, loro no. Nell'ultimo anno qualcosa è cambiato: Brasile e Argentina con presidenti nuovi. Per il momento non ancora in grado di dar fiato alle speranze promesse. La crisi mondiale non aiuta le sofferenze interne. E si aggrappano alla dignità della non dipendenza assoluta agli ordini degli Stati uniti. Una nazionalismo ragionato, non patriottardo, irrobustisce la loro popolarità. Come scrive la Washington Post, aumenta fra le popolazioni latine la convinzione che ogni disgrazia dipenda dallo zio Sam. La guerra dell'Iraq sta facendo galoppare questo malumore. Domani il primo incontro tra Kirchner, da sette mesi presidente argentino, e il presidente di Washington: si aprirà con una querelle che sconsola il giudizio sulla diplomazia dell'era Bush. Nel discutere la concessione di una proroga al pagamento degli interessi al Fondo Monetario di un'Argentina non ancora convalescente e sempre incerottata, Roger Noriega, cubano di Miami e responsabile per l'America Latina del Dipartimento di Stato, ha rimproverato il ministro Bielsa di essersi astenuto quando doveva votare la condanna a Cuba per violazione dei diritti umani. E di aver invitato anche Castro all'insediamento del nuovo presidente. Intanto Condoleeza Rice, black tiger del clan Bush, riuniva i giornalisti in una conferenza dedicata alla destabilizzazione che l'Avana continua ad esercitare in ogni Paese latino. Passo indietro quasi patetico. Come può Cuba minacciare Stati Uniti o il testo del continente con l'esercito in disarmo, vecchie armi ed aerei di un altro evo dimenticati dai russi in fuga? I suoi alti comandi sono ormai impegnati a gestire taxi, negozi, alberghi per turisti. Restano i problemi interni. Considerarlo uno stato canaglia, è la definizione morale sulla quale discutere, ma ridefinirla cellula pericola come negli anni di Guevara, resta la favola che fa ridere ogni cancelleria dell'altra America. E arrabbiare imprenditori turistici e agricoltori americani pronti a sbarcare all'Avana con vacanzieri e container di grano. Kirchner annuncia di considerare l'incontro di Monterrey una specie di ring: se il contendere è questo, manderò Bush k.o. Un paese democratico non può dar retta ai funzionari inetti del Fondo Monetario. Ogni giorno ho l'obbligo di provvedere alla quotidianità di milioni di persone. Mi misuro con la loro realtà. Il resto sono parole. Prima di diventare presidente, Kirchner era una specie di sindaco di Santa Cruz di Patagonia: 200 mila abitanti. Non ha rinnegato l'indipendenza alla quale abituano le grandi pianure, né il linguaggio gaucho, essenziale e colorito, anche se l'esempio al quale si aggrappa per la grande politica è la strategia di Lula. Quarant'anni di sindacato hanno insegnato al presidente brasiliano concretezza e prudenza. I problemi interni stagnano. L'inflazione ricomincia. I Senza Terra pretendono una vera riforma agraria. La disoccupazione cala, ma troppo poco. I radicali del suo partito sono in rivolta: gli rimproverano ministri imprenditori e gnomi della finanza cresciuti sotto l'ala del conservatore Cardoso. Lula fa l'acrobata nella forbice di chi deve affrontare il disagio di milioni di diseredati e tranquillizzare l'arrivo di capitali stranieri coi lampadari del governo precedente. 50 milioni di suoi elettori dopo un anno presentano il conto, ma la popolarità resta alta anche la sola promessa sulla quale sta lavorando è la lotta alla fame, tre pasti al giorno per tutti: ha coinvolto quell'esercito una volta tanto temuto. Sull'Alca la sua posizione resta quella di sempre: l'idea gli piace, ma il Brasile e ogni altro Paese latino non possono diventare terra di conquista, porta spalancate ai prodotti del nord mentre l'esportazione verso gli Stati Uniti prevede la protezione di 237 prodotti ai quali è proibito entrare: dai cereali all'industria farmaceutica. La capitale del liberismo si difende col protezionismo. Dovremo discuterne ogni capitolo in perfetta parità. Per il momento i segni del nervosismo diventano ripicche banali. I brasiliani che entrano negli Usa devono farsi prendere le impronte digitali? Brasilia risponde con la legge della reciprocità: ogni cittadino nordamericano che va al carnevale di Rio ha l'obbligo di immergere i polpastrelli nel tampone degli aeroporti. Protesta Colin Powell: reazione ingiustificata. Deve spiegarci perché, è la risposta quieta dei brasiliani. Tre mesi fa holding americane legate a società controllate direttamente, o dietro qualche filtro, dal vice presidente Cheney e dal falco Rumsfeld, si sono viste congelare il contratto che assegnava sfruttamento, pipes lines e trasporto navale in California di tutto il gas boliviano. La rivolta degli indios ha messo in crisi il capo dello stato protagonista della vendita, signore boliviano ma con passaporto americano. Brasile e Argentina appoggiavano la protesta. Il presidente è scappato e il presidente della transizione affida a un referendum (si voterà a marzo) la decisione di vendere il gas: quanto e a chi. Per ritorsione le holding Usa annunciano di volersi disinteressare dell'affare aprendo una voragine nelle previsioni di bilancio di un Paese poverissimo. Per destabilizzare e riconquistare, protestano i leader dei movimenti indigeni. Stanno facendo la spola tra l'Avana e Brasilia. Il problema dello sfruttamento del prendere o lasciare tornerà sul tavolo a Monterrey: Lula e gli altri annunciano di non sopportare, ormai, il rapporto dominante dei vecchi affari. Gas e petrolio portano sfortuna. Chevez e il Venezuela stanno vivendo una contestazione ormai endemica. Da una parte il presidente di stampo militare-populista convinto di guidare col suo centralismo una realtà che continua a degradare. Chiamato al potere da un voto quasi plebiscitario la cui speranza era la fine della corruzione, Chavez si ritrova isolato, circondato dai ministri e militari finiti nel regno di chi allunga le mani: rimpasta il governo, combatte i sindacati al soldo degli antichi ladri mentre il ricatto di banche e imprese precipita l'economia. Forse in agosto si voterà per decidere se resta o va a casa ma Chevez ostacola, e l'opposizione appoggiata dagli americani soffia nell'ombra. Ha già guidato un ridicolo colpo di stato disegnato dall'ambasciatore Otto Reich, uomo Cia: fallito, ma non accantonato. E la solita Condolleza Rice fa sapere che la pazienza Usa, del quale il Venezuela è il terzo fornitore di greggio, si sta esaurendo. Insomma, continente in subbuglio anche dove gli Stati Uniti hanno avuto mano libera. Il Plan Colombia ha militarizzato il Paese. Consiglieri e armi per combattere narcos e guerriglie: dodici basi Usa il cui scopo principale è tener d'occhio Panama abbandonata alla scadenza del contratto sul Canale, 31 dicembre 1999. Tre anni di lotte e di sangue, ma non è successo niente se non l'elezione che ha interrotto il bipartitismo storico conservatori e liberali da sempre si alternavano al potere - con la vittoria di Uribe, specie di Bossi che sbaraglia gli avversari predicando la distribuzione di un milione di fucili ai contadini, ma rafforzando fino a diventarne il terminale militare, il legame con gli Stati Uniti. Seconda frattura, l'elezione di Lucho Garzon, sindaco socialista. Lula di Bogotà, città-stato e capitale di ogni problema. Malgrado queste speranze, a Monterrey, Uribe si denuncerà il lento fallimento del Plan Colombia: riconversione dei terreni coltivati a coca. Raccolti che diminuiscono, è vero, però trasferendo le piantagioni nelle nazioni vicine. Risultato a breve: il cono nord del continente latino, ma anche Bolivia, Equador e Perù, per non parlare del Venezuela e di una parte dell'Amazzonia brasiliana, stanno per diventare uno sterminato granaio di polvere bianca. Con relative bande armate, guerriglie, repressioni, corruzione. Nuovi fuochi si accendono. Sostiene Lula: a questo punto il problema riguarda, come mai in passato, i Paesi consumatori, Usa, soprattutto. La rivolta indigena non appartiene, ormai, solo ai diari di Rigoberta Menchu o antropologi o sociologi solidali con minoranze e maggioranze (Guatemala, Equador e Perù) sottomesse agli affari delle oligarchie ladine, per tradizione mediatrici nei rapporti col Nord e protagoniste delle democrazie formali. Il messianismo indigeno sta rinascendo senza illusioni dove il meticciato quasi non esiste. Morales, guida del movimento socialista, e il vecchio Quispe, estremista degli Inca boliviani, son più o meno d'accordo nel predicare una trasformazione radicale dei rapporti di forza. O la maggioranze indigene avranno il posto che meritano, oppure le Ande diventeranno un Vietnam. Anche il governo di transizione favorito da Lula non li convince. Stessa storia in Equador e Perù. Presidenti sui quali gli indios hanno proiettato le loro attese, vengono contestati dalle organizzazioni contadine ormai alla fame. Quasi insopportabile la posizione del presidente Toledo tornato in Perù da università e banche americane. Se la sua faccia da cholo è servita a far scappare Fujimori, il liberismo umano del suo governo non piace a chi ormai è alle corde. Dietro le gentilezze dei padroni di casa della conferenza, tra Messico e stati Uniti la tensione resta. La legge annunciata da Bush per concedere permesso di soggiorno e lavoro a 11 milioni di clandestini, maggioranza cicanos, riscuote l'approvazione tiepida del presidente Fox ma suscita lo sdegno di vescovi, organizzazioni umanitarie e dei sindacati messicani negli stati Uniti. Per Bush era una cartolina elettorale. Sperava di pescare nell'entusiasmo degli stranieri che possono votarlo. Possibilità di un lavoro normale per tre anni con regolari trattenute per assicurazioni previdenziali. Ma dopo tre anni devono tornare a casa per un po' perdendo ogni diritto sul posto occupato. E se l'azienda trema o la crisi generale non si spegne, non torneranno più. E le trattenute ingrasseranno le assicurazioni. Una forma moderna di schiavitù che cancella i diritti, lo slogan dei cattolici di frontiera. Forse è l'illusione di popoli che spesso si illudono: ogni rivendicazione, ogni prospettiva cerca nella concretezza di Lula la possibilità di poter sfruttare risorse sempre negate. Attenzione, avverte ieri il giornale messicano La Jornada, ripetendo la messa in guardia del presidente francese Chirac, copertina de Le Point, a chi si vuol misurare alla pari con gli Stati Uniti di Bush i quali considerano esclusivamente il proprio tornaconto. Chi non è americano stelle e strisce resta per sempre comparsa senza importanza. Se disobbedisce avrà ciò che si merita. Anche la Francia della grandeur ormai lo sa. Dopo Porto Alegre, gli incontri di Monterrey possono misurare la concretezza di tante speranze. Ma anche delle illusioni di un mondo che sembra grande, ma che il Nord continua a considerare il piccolo posto degli affari. Maurizio Chierici L'UNITA' 12/01/2004 |
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