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Memoria a Senso unico

“Con l’attacco alle Torri Gemelle è cominciata una nuova era. Bisogna rendersene conto subito cambiando anche i progetti di sviluppo oltre che l’operazione dell’Unione Europea. Il governo cominci col sospendere Shengen, ripristinando i confini dello Stato e il nostro territorio come Patria. Qualcuno vuol forse sostenere che si sorveglia meglio un Paese che è privo di confini e di dogane?(...)Siamo tutti più poveri perché il colpo dato all’economia della comunicazione, del turismo, dello scambio non è recuperabile. Ma forse ricominciare a credere in se stessi, nella bellezza della propria storia, nel duro cammino che si presenta a chi vuole essere “uomo” e non suddito, potrà darci un entusiasmo di cui da lungo tempo non godiamo”. Ida Magli, sul “Giornale”. Invito ad arginare il terrorismo, profondità di chi non banalizza come i pappagalli felici nelle cantilene ai quali tanti politici si aggrappano con l’orgoglio d’aver trovato il punto esclamativo dei “senza se e senza ma”.


La Magli è un’antropologa la cui analisi continua ad intrigare. Propone di ricominciare “dalla bellezza della propria storia”, storia che tante volte ha scavato, riesaminando protagonisti e universi in apparenza lontani eppure separati dalla nostra realtà da pareti sottili: le ha abbattute per ridiscuterne i messaggi. E poi le donne di due generazioni (non solo donne) ne hanno ammirato intuizioni ed impegno sociale, e la lettura anticonformista del passato sfidando polemiche a volte non accademiche. Lei, non credente, nel saggio “Storia laica delle donne religiose” lancia un’accusa che scatena temporali: “Cristo ha liberato le donne concedendo l’iniziazione che nel cristianesimo è il battesimo, iniziazione fino a quel momento riservata solo ai maschi”; iniziazione che la Chiesa avrebbe vanificato sottomettendole, emarginandole o deportandole “in lager femminili”. Fino al ’400 solo alle monache veniva imposta la clausura. Ai monaci no. Lo stare dalla parte delle donne ha dunque animato attorno a libri e articoli della Magli, la cultura di un femminismo non tranquillo fino al 1996, quando in un saggio di Baldini&Castoldi, “Per una rivoluzione italiana” la Magli annuncia che “femminismo e marxismo sono ormai finiti”.


Forse cominciava a finire anche l’ammirazione per Antonio Di Pietro: lo adorava come magistrato, ha pianto quando gli amici di un Berlusconi dietro le quinte, lo hanno trascinato davanti ai giudici di Brescia. Lo incoraggiava con fax e telefonate. Voleva entrasse in politica “per combattere contro il potere che ammorba il nostro Paese”.

Poi si è trasferita al “Giornale”, eppure le sue analisi ripropongono la stessa inquietudine quando invita a salvare “l’Europa in trincea” e a non “edulcorare le nostre fedi religiose”, come hanno fatto gli spagnoli, ex difensori dell’onore e che adesso scappano dall’Iraq “con una vigliaccheria che lascia inebetiti”.
Parte da un presupposto condiviso da folle smemorate: il mondo è cambiato solo l’11 settembre, quando la vigliaccheria di sciacalli rintanati nell’ombra ha organizzato un massacro di innocenti sapendo di distruggere l'innocenza di milioni di musulmani innocenti. L’11 marzo di Madrid ribadisce l'orrore del teorema. Per restare “uomini” e non “sudditi”, Ida Magli ci mette in guardia: non esistono musulmani “tiepidi” e musulmani terroristi. Vogliono tutti la stessa cosa: imbavagliarci.

Ognuno ha diritto alla paura, anche un’antropologa la cui analisi si rifugia nelle ansie personali con vuoti di memoria che deformano le conclusioni. Forse perché è una memoria “bianca” e si confonde con le memorie di milioni di “bianchi” distratti da affari, benessere, vacanze o tran tran noioso della quotidianità: solo le bestie dell’11 settembre li hanno svegliati. E l’11 settembre diventa il primo giorno del quarto evo. Come il 12 ottobre 1492, appena Colombo sbarca alle Bahamas. All’improvviso ciò che è successo prima non conta. E sparisce il ricordo dei protagonisti che solo ieri, fulgore degli anni delle democrazie evolute, hanno scelto le stragi come grimaldello della conquista: mercati, approvvigionamento risorse, argine per frenare i milioni di senza niente ormai senza speranza, quindi pronti a tutto.

La seconda distinzione è tra la strage del fanatismo (individuale o gruppi dall’isteria calcolata) e la lucidità delle stragi di Stato. Siamo una società frettolosa, tic tac di telecomandi e telefonini cancellano i fastidi. E la memoria degli eccidi contemporanei che hanno costretto milioni di persone a non essere più “uomini” e a diventare “sudditi”, è un fastidio sepolto dall’allegria del niente televisivo.
Perché non aprire il quarto evo con un altro 11 settembre? Settembre 1973, Santiago del Cile. Il presidente eletto, Salvador Allende, è costretto a uccidersi dal golpe militare organizzato due anni prima. Lo testimoniano i documenti del Dipartimento di Stato resi pubblici dall’amministrazione Clinton negli ultimi giorni della presidenza. Nel 1970 Kissinger ordina di eliminare non solo Allende, anche i generali lealisti contrari alla rivolta armata. Vengono uccisi in agguati costruiti per far ricadere l’ignominia sul “comunismo internazionale”. Si organizzano scioperi lunghi mesi precipitando il paese nella disperazione. Giornalisti di tante latitudini figurano nei conti spese di strane società Usa. Diventano megafoni cari ai golpisti. E i sindacalisti cileni strateghi del disordine possono invecchiare attorno a Washington, pensione Cia.

Arriva Pinochet. Nei cento giorni del dopo golpe vengono fucilate 1.830 persone. Nei diciassette anni della dittatura, i delitti diventano 3.197. Fra i primi morti due ragazzi americani. La loro storia è diventata un film, “Missing”, di Costa Gravas. Scrivevano per piccoli giornali o passavano notizie alle radio di università della California. Quando è stato tolto il segreto, documenti alla mano, la vedova di Charles Horman denuncia Henry Kissinger: dalla sua segreteria è uscito l’ordine per eliminare “due testimoni che avevano visto troppe cose da raccontare negli Stati Uniti”. Invano il giudice Guzman convoca Kissinger a Santiago, in quanto persona informata. Nessuna risposta. Per sopravvivere all’incubo della dittatura militare, un milione di donne e di uomini di un Paese con undici milioni di abitanti, sceglie l’esilio. Dobbiamo considerarli vittime del terrorismo anche se è terrorismo di Stato? O teste calde da eliminare perché dannose alla società delle patrie in divisa? Val la pena ricordare a Ida Magli che i cileni sono bianchi, cattolici osservanti, cultura europea, lavoratori silenziosi e disciplinati. Insomma niente a che vedere con la ciurma dei saladini scansafatiche che minacciano l’Europa impugnando il Corano.

Eppure, oggi nessuno considera questi morti e l’interminabile sofferenza, tragedie di un terrore senza pietà forse perché organizzato da signori in doppiopetto. Memoria fragile o calcolo di una lontananza che non turba le nostre abitudini?

Restiamo in settembre: settembre 1982, Beirut assediata dalle truppe di Sharon. È la prima volta dopo l'agonia di Stalingrado che un esercito industriale soffoca per 72 giorni una grande città dopo aver arato metà paese: 60mila morti, gran parte civili sorpresi nelle case dal blitz. Viene travolto anche un casco blu finlandese: “per errore”. Attacco disegnato il mese di gennaio e poi rimandato due volte: serviva un pretesto e la stupidità degli hezbollah l’ha regalato alla macchina da guerra di Sharon. Tre missili piovono sull’Alta Galilea uccidendo cinque contadini. La guerra parte. Non furtiva come le ombre Vietcong attorno a Saigon: al mattino i cannoni sparano a vista dalle colline che abbracciano Beirut; al pomeriggio bombardano gli aerei, poi tocca alle navi. Si sperimentano armi nuove, proiettili e pallottole ad implosione: sgretolano in silenzio la capitale araba. Aspirano anziché esplodere. E la gente è prigioniera dentro senza acqua, luce, cibo. Morti sotto le macerie.

E per finire in bellezza il massacro di Sabra e Chatila. Con un appoggio disegnato da Sharon, 1.200 persone (versione libanese), 2.000 (versione palestinese) vengono sgozzate in poche ore dai cristiano-maroniti alleati fedeli alle truppe d’invasione. Noi giornalisti siamo lì per caso perché la guerra è ormai finita, Arafat in esilio a Tunisi, ma qualcuno perde il volo e diventa testimone involontario di una mattanza da film dell’orrore. Appena a tre ore di aereo dall’Olimpico dove ricomincia il campionato di calcio. La rivista “Time” dedica la copertina “all’impresa di Sharon”. Il quale si dimette da ministro; qualche mese dopo anche il premier Begin lascia la poltrona. Israele rifiuta il giudizio di una corte internazionale e il generale viene assolto a Gerusalemme. Torna al governo, responsabile dell’emigrazione. Comincia il boom delle colonie imposte con forza in Cisgiordania.

Per non parlare del Salvador, minuscola repubblica delle banane, un’ora e mezzo da Miami: 72mila vittime in una guerra non dichiarata, eliminate quasi una per una dalle squadre della morte, ed è qui che la parola “desaparecidos” diventa la variante dell’altra America ai “lager” e “gulag” della vecchia Europa. I consiglieri militari arrivano da San Antonio, Texas, reduci da Vietnam, Cambogia. L’amministrazione Reagan paga (ufficialmente) sei milioni di dollari al giorno alle forze armate salvadoregne impegnate “ad annientare l’insurrezione comunista”. Organizzatori di campagne politiche e pubblicitarie scendono da Washington per strutturare un nuovo partito più “presentabile” delle lobbies antiquate delle grandi famiglie. Fondatore di Arena è il maggiore D’Aubuisson. White, ambasciatore di Carter, ne prova la responsabilità di mandante dell'assassinio del vescovo Romero e di altri otto religiosi, ma D’Aubuisson semina paura e vince e governa sotto l’ala della Washington repubblicana. Passano gli anni, le ricorrenze si intrecciano: qualche giorno fa, 24 marzo, era l'anniversario della morte del vescovo, e proprio il 24 marzo, Arena, partito che ne ha organizzato l’assassinio, festeggia il quarto trionfo elettorale consecutivo al primo turno. Nuovo presidente Tony Saca, 30 anni, “imprenditore dei media”: radio, Tv e giornali. E i giornali e le Tv che non gli appartengono lo hanno appoggiato con devozione anche perché l’agenzia pubblicitaria di Saca domina il mercato e ne condiziona le fortune.

L’opposizione resta quasi senza voce, regola apprezzata anche da una certa Italia. Concerti al posto dei comizi. E da Miami arriva Alina Fernandez, 48 anni, figlia ribelle di Fidel Castro. Ha parlato per ore in tutte le Tv e su tutti i giornali ripetendo lo stesso ammonimento: “Se vince il centro sinistra farete la fine dei cubani. I loro parenti che abitano negli Stati Uniti possono aiutarli con appena 300 dollari al mese. Fidel impedisce ne mandino di più. A voi toglieranno anche quelli...” Semina la stessa angoscia anni fa distribuita dalle squadre della morte. Perché tre quarti del Salvador tira avanti senza un vero lavoro, baracche che abbracciano le città. Vive coi soldi inviati da figli e mariti, due milioni e mezzo di braccia più o meno clandestine in California. Le rimesse sono la seconda voce del prodotto lordo nazionale. Perderle, è la catastrofe che tutti i giornali, le radio e le Tv (di o con Saca) hanno enfatizzato sui loro tamburi. È vero, in fondo si tratta di piccoli meticci, spesso analfabeti ed impossibilitati a riesumare la bellezza della cultura sepolta nelle piramidi Maya. Non vittime laureate come potremmo essere noi. Ma come è successo a cileni, libanesi e palestinesi, massacri di ieri e di oggi, anche in Salvador è ancora proibito dal mercato decidere se diventare «uomini» o rassegnarsi all’umiliazione dei “sudditi”.

Comprensibile l’apprensione di Ida Magli: questa violenza ci ha raggiunti. E comincia a soffocare. Forse possiamo aiutare i lontani ed aiutarci tra vicini a superare la rassegnazione, non con muri che dividano “le patrie” o guerre preventive o la corsa impudica agli appalti per ricostruire l’Iraq all’ombra di carabinieri volontari. Forse recuperando la memoria. Forse riaggiornando il calendario. L’evo di questa paura è cominciato prima dell’11 settembre.

Maurizio Chierici – L'UNITA' – 29/03/2004




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