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Salvate la Voce dell'Amazzonia |
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Arriva una lettera dallAmazzonia, disperata per lumiliazione che offende la ragione. Per caso arriva assieme a una notizia battuta negli Stati Uniti: il presidente Bush annulla la legge Clinton che proteggeva un terzo dei parchi del paese. E le mani delle industrie del legno possono allungarsi su 23 milioni di ettari di foreste. Con riconoscenza da manifestare nella concretezza dei finanziamenti elettorali. Kerry e i democratici tempestano. Gli ambientalisti annunciano cortei mentre a Belem, Amazzonia, solo il silenzio avvolge le parole di Lucio Flavio Pinto, giornalista troppo solo e quasi rassegnato. Lancia una bottiglia con un messaggio che ha laria di un addio. Non sono mai stato così vicino a rinunciare alla battaglia che ha cambiato la mia vita: difendere lAmazzonia. I soliti potenti mi hanno perseguitato imponendo un destino crudele: processi massacranti, chiaramente intimidatori, spudoratamente politici se per politica si intende la difesa degli arricchimenti illeciti e la corruzione della giustizia. Pretendono il mio silenzio per nascondere gli affari.... Lucio Flavio è una voce troppo sola. Da sempre cercano di spegnerla. Ci stanno riuscendo. Ha cominciato 30 anni fa quando nessuno di noi si preoccupava dellAmazzonia in fiamme. Non sapevamo chi era Wilson Pinheiro, leader dei contadini che raccoglievano il caucciù. Gli hanno sparato ed è morto lasciando in eredità mille Chico Mendés, anche loro abbattuti dai colpi dei proprietari infastiditi dallostinazione degli straccioni senza censo che si erano messi in testa di difendere la loro patria verde intralciando il progresso. Lucio Flavio è ancora vivo, spiegherò perché. Ed ancora in libertà, ma una libertà dalle ore contate. Dopo dodici anni di intrighi, una giustizia legata ai poteri forti sta finalmente per seppellirlo in galera. Lanomalia è la prigione nel Brasile di Lula, presidente della speranza. Lula sta animando la speranza fra mille difficoltà, ma il Paese è un continente e lAmazzonia resta langolo confuso dove latifondismo e politici ondivaganti non gradiscono far sapere che il saccheggio continua. Malgrado lentusiasmo di Porto Alegre, le promesse dei generosi, la lealtà dei politici leali, gli affari sono affari. Nessuno rinuncia ai dané. Dietro le nuove forme improvvisamente morbide, la realtà resta feroce soprattutto se lontana dai palazzi del governo. Ecco perché
vogliamo far sapere delle ore disperate di Lucio Flavio Pinto a
Lula da Silva, presidente che non ha mai nascosto la rabbia
davanti a questo tipo di violenza. Nessuno si è arrabbiato per larticolo. Neanche una riga di lamenti. E Lucio Flavio Pinto ha scoperto per caso la querela sfogliando i bollettini ufficiali che annunciano le date dei processi. La prima sentenza lo ha condannato. Si è rivolto ad unalta corte, meno inquinata dalle amicizie degli affari. Adesso il ricorso non si trova. E la ricevuta, con timbro e data, subito presentata come prova di consegna del documento d'appello, non viene ritenuta valida mancando il documento. Intrigo perfetto, ripetuto altre volte: questo, però, sembra il capitolo finale. In mancanza dell'appello la sentenza sta per essere confermata. Pinto ha due possibilità: pagare una multa, sei mesi di stipendio minimo o andare in galera. Il pagare la multa non annulla ma conferma la colpa sporcando una fedina penale rimasta faticosamente immacolata e sommando lultima punizione a sentenze precedenti, maturate nello stesso clima e con le stesse complicità. Diventa la prima pagina di una lunga prigione. Una sola consolazione: Lucio Flavio è ancora vivo e continua a raccontare cosa succede rifiutando accordi segreti. Trentanni fa era arrivato a Belem da San Paolo. Cattedra alluniversità, grande spazio sul giornale O liberal, proprietà della famiglia Majorana sbarcata chissà quando dalla Sicilia. Le sue analisi di sociologo urbano affascinavano i lettori, e moltiplicavano il rispetto degli gli spettatori della più importante Tv dellAmazzonia, rubriche riprese dai netwok di Rio e di San Paolo. Noi che andavamo a raccontare il Brasile siamo saliti a Belem per ascoltare le catastrofi che Pinto annunciava. Sembravano talmente fantastiche da meritare le prime pagine nei giorni svagati destate: Attenzione. Cancellare la foresta fluviale vuol dire programmare il deserto e cambiare il clima, non solo del Brasile. Insomma, fantascienza. Almeno sembrava. Sul giornale, in Tv, e negli interventi scritti per Monde Diplomatique e Washington Post, Lucio Flavio denuncia i disastri che accompagnano il progetto Jari. Sparisce la foresta di una regione larga come il Belgio. Nessuno riesce a capire dove siano disperse le tribù che la abitavano. Quando Paulinho Kayapò, di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti dove lo aveva accompagnato un giovane etnologo americano per testimoniare allOnu sul genocidio del suo popolo; quando viene denunciato da una società che taglia le piante con laccusa di infamare il nome del Brasile e impedire la realizzazione di grandi opere, Paulinho risponde parlando di crimini ecologici. Ha imparato presto il linguaggio dagli etnologi. E il generale-giudice ne è stravolto. Sospende l'udienza pretendendo la perizia psichiatrica: Un indios non può parlare così.... Lo Jarì viene raso al suolo da Ludwing, miliardario americano: si è messo d'accordo con lultimo governo militare per affidare alla sua holding, guidata dallex presidente Richard Nixon, limpegno di fabbricare bistecche per i frigoriferi di Chicago. Un esercito non piccolo - elicotteri di pattuglia - sorveglia le frontiere di una prateria sterminata dove pascolano milioni di bestie. Ogni mattina gli aerei partono con la carne macellata, mentre cartiere galleggianti giapponesi tentano di succhiare cellulosa da una palma speciale. Come aveva annunciato Pinto, senza la foresta non piove. Senza la pioggia non cresce lerba. Senza lerba, allevare carne costa caro. Ventanni dopo lo sanno tutti. Muoiono le palme della carta. Le prime dune di sabbia fanno capire che il disastro è cominciato. E Pinto si scatena: Fermiamo le altre grandi opere. Minacciano lAmazzonia: dighe dellenergia elettrica che avvelenano centinaia di chilometri. I pesci muoiono, le piante appassiscono. Una cassandra: licenziato. Anche luniversità gli toglie la cattedra. E le Tv di Rio e San Paolo si dimenticano delle sue profezie. Ma lui non molla e comincia lutopia. Scrive, disegna e pubblica le inchieste che nessun giornale, nessuna Tv e - per carità- nessun politico ha il coraggio di affrontare. Diventa editore di un periodico la cui testata sintetizza caparbietà e disperazione: Jornal Pessonal, giornale personale. Lo scrive da solo. Da ventanni esce ogni quindici giorni. Lo ricevono abbonati sparsi nel Brasile e nel resto del mondo. Numeri monografici, ogni numero un polverone. Spiega le cose che nessuno vorrebbe sentire. Cominciano le minacce. Allontana moglie e figlie: vivono nascoste nella folla di metropoli lontane. Sfugge ad attentati che hanno l'aria di avvertimenti, ma una sera qualcuno porta a O Liberal il suo necrologio che il giorno dopo appare come se davvero Lucio Flavio fosse morto allimprovviso. Ha laria della minaccia conclusiva: finora l'hai fatta franca, adesso basta. Pinto è un bravo cronista; comincia a cercare e ciò che scopre lo spaventa. Manda una lettera al governatore del Parà, Jaer Badalhao. Erano amici. Gli spiega che copie dello stesso foglio già si trovano nei cassetti del Monde, Washington Post, Pais, Corriere della Sera. Se mi uccidono lordine viene da te e tutti ne trarranno le conclusioni. Ricorda su quale affare spinoso, destinato ad allargare lo scempio, una sua ricerca aveva puntato il dito. Credi davvero volessi farti uccidere o solo spaventarti?: la voce del governatore trema al telefono. Pinto non si lascia intimidire. Puoi giurare che tuo padre non ha dato ordine di farmi sparire? È uno dei grandi proprietari, amico di grandi proprietari legati ai militari che ufficialmente sono i protettori dellAmazzonia. In realtà ne approfittano senza scrupoli. Ricordi lo Jarì?. Succedeva quando ancora Lula marciava predicando le stesse cose: lontano, lontano dalla presidenza. Silenzio del governatore. Da quel momento Lucio Flavio Pinto è provvisoriamente salvo, ma pochi a Belem hanno il coraggio di ammettere la sua amicizia. Nessuno se la sente di invitarlo a parlare o scrivere. Ogni numero della rivista viene coperto di querele. Gli avvocati del Parà, ma anche gli avvocati delle capitali del Sud, non osano difenderlo in tribunale. Lucio Flavio non si è lasciato travolgere. Ha ricominciato a studiare. Laurea in legge, va in tribunale da solo. Sette anni fa viene invitato in Europa. Anche in Italia: università ed ecologisti, soprattutto i volontari di Macondo. Il presidente Scalfaro lo riceve per complimentarsi non solo con lui ma con tutti i vincitori del premio Colomba della Pace assegnata alla comunità di SantEgidio, a Danielle Mitterand, ai testimoni delle pulizie etniche nel Kosovo e a coloro che hanno il coraggio di non nascondere la verità. La sera prima, in Campidoglio, gli stranieri premiati erano tre: due con accanto i loro ambasciatori in festa, ma lambasciatore del presidente del Brasile Cardoso, non si è fatto vedere. Pinto, sempre solo. E la folla accorsa ad ascoltare la parola dei protagonisti, a dire il vero è rimasta delusa. Lucio Flavio non spiega mai come sopravvive quasi nascosto nello spazio insicuro dellAmazzonia continuando a smascherare orrori che coinvolgono interessi miliardari. Ha parlato con la concretezza di chi non indugia nel reducismo dell'esotico. Numeri, diagrammi, soluzioni possibili, pericoli incombenti. Quasi un ingegnere. Voce monotona, parole scelte con cura senza aggettivi. Deve essere il filo di ferro che gli dà la forza di andare avanti, a fargli rifiutare le inutili emozioni. Non sarà contento dell'apprensione che accompagna queste righe. Ma la sua lettera è sconvolgente. Linvito in Italia prevedeva di allungare il viaggio nella scoperta di un Paese che non conosceva: Venezia, Firenze, solite cose. Invece la sera della premiazione, tornato in albergo, trova un telegramma del tribunale di Belem informato chissà come del premio. Con urgenza è stata fissato il dibattito di un processo che aspettava da tredici mesi. Di lì a due giorni deve apparire davanti ai giudici come imputato e come avvocato. Ed è subito tornato a casa. Caro Presidente Lula, dieci anni fa, dopo un viaggio nella corriera elettorale con la quale aveva attraversato l'Amazzonia, appariva turbato dalla violenza respirata nei corpi mutilati da un lavoro senza regole, e dagli occhi spaventati di chi rispondeva a fatica alle sue domande. Bisogna cambiare.... Qualcosa sta cambiando, ma le vendette verso chi insiste nella trasparenza, non perdonano lintellettuale che non si arrende. Per fortuna gli ambasciatori di Lula non sono gli ambasciatori di Cardoso, ecco perché le faranno sapere della lettera di Lucio Flavio Pinto e di come funziona la giustizia fuori Brasilia, sullequatore di Belem. Maurizio Chierici L'UNITA' 19/07/2004 |
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