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Il Che e Don Milani

Una notizia curiosa fa capire quale tipo di memoria possa essere considerata sgradita. Non importa se è una teoria lontana e se sopravvive nelle piazze quanto l'infelicità anima la protesta. Alla fiera dell'artigianato di Milano, una funzionaria della Ge.fi., filiazione della Compagnia delle Opera ispirata da Comunione e Liberazione, ha costretto i venditori a sottoscrivere un modulo: obbliga a non vendere portachiavi, cartoline e magliette con l'immagine del Che. Gli espositori si adeguano. Non un terremoto, solo il segno della cultura che si vorrebbe distribuire alla nuove generazioni.

Cominciando dai divieti. E Guevara diventa tabù, più o meno come lo erano certi film o le opere di Arthur Miller negli anni del maccartismo americano. Fra la folla dei visitatori qualcuno non si arrende e l'immagine di Korda (fissata il 6 marzo 1960 per caso) si vende sottobanco. Bisbigli carbonari. T shirt ripiegate di contrabbando nelle borse dei reprobi. Per calmare i brontolii, Antonio Intaglietta, presidente Ge.fi., riduce la stupidità della censura, alla solerzia di una collaboratrice “forse troppo zelante nel far rimuovere la paccottiglia”. Definizione che lascia intendere con quali comandamenti vengano educati i funzionari della Compagnia: paccottiglia. Senza dubbio lo è. Ma quanti sogni, o ricordi o slanci sofferti della fede a volte diventano paccottiglia? Nella valigie dei treni che tornano da Lourdes milioni di conchiglie riproducono la grotta dell'apparizione. Solo paccottiglia?


D'accordo su Guevara: non deve essere santificato, solo un simbolo che raccoglie l'insofferenza della generosità senza egoismi che rifiuta lo sgomitare delle carriere per resistere nella fantasia dei ragazzi nauseati dalla plastica Tv. Non sopportano le abitudini di una società dove tutto si può comprare, compresi i volontari politici con busta paga. Forse l'immagine del Che eccita il terrorismo? Può essere una precauzione. Anche a Cuba la foto di Korda era stata accolta tiepidamente dall'ufficialità. La rivista “Revolucion” non l'ha voluta pubblicare: “Meglio Fidel...”. E Korda l'ha appesa nello studio (che era anche la camera da letto) fino a quando Gian Giacomo Feltrinelli, all'Avana per strappare a Castro un libro di memorie, se l'è portata in Italia: regalo ai ragazzi del '68. Il mito è cominciato così.


Guevara non piaceva ai gaulaiter di Mosca negli anni del vicereame. Un rompipalle senza collare diventa mina vagante. Perfino la canzone “Hasta siempre, comandante Che Guevara” non si cantava in pubblica: solo chitarre private. Poi i russi scappano e il Che viene distribuito ai turisti sotto i portici del Nacional. Sembrava libero, invece l'anatema lo ha sorpreso sulla maglietta delle delle bancarelle. Chissà cosa disapprova la Compagnia. Forse la paccottiglia di un guerrigliero che ha imparato Marx girando l'America Latina, non può sfilare il sacrilegio del paragone con le paccottiglie di ogni santuario, eppure un viaggiatore insolito qualche punto di contatto lo ha trovato nei diari messi da parte durante gli anni.


Saverio Tutino è uno dei narratori raffinati del giornalismo in estinzione: si mescolava per capire sfuggendo al cinemascope del soldato Ryan. Generazione perduta di testimoni senza paura: non delle pallottole, non se parlano mai, ma delle idee nelle quali si immergevano, a volte più pericolose di qualsiasi arma letale. La sua grande avventura comincia proprio all'Avana quando Castro è appena arrivato. Un diario lungo come la vita.


Nutre libri che spiegano l'ansia di un comunista che fa il giornalista e di un intellettuale che cerca le radici degli avvenimenti nei quali è immerso. L'Unità lo ha mandato a Cuba nel '62 e lui prova ad “innamorarsi di una rivoluzione antimperialista alle porte degli Stati Uniti”. La sfida affascina i giovani di ogni continente, ma Tutino ha 40 anni, viene dalla Resistenza in Piemonte, ha studiato a Parigi respirando la sinistra francese. Guarda ed interpreta con l'ansia di un corrispondente diviso tra le novità che lo sorprendono e la voglia di capire in quale modo possono cambiare il suo destino. Ricordi che rianimano i dubbi e aprono le utopie: a 80 anni non lo hanno ancora abbandonato.


l'utopia di chi insegue la vocazione dalla parte degli ultimi restando nell'Italia che sgelava dalla guerra; o l'utopia di chi continua ad incontrare protagonisti inaspettati dall'altra parte dell'oceano. Così diverse e così uguali. Lo racconta nell'ultimo libro, “Il rumore del sole”, editore Il Vicolo, prefazione di Lidia Ravera.


All'avana ascolta Ernesto Guevara quando parla ai giovani. Li trova preoccupati e troppo ubbidienti. Il futuro personale continua ad angosciarli. Come ci si deve comportare per garantirsi un posto al sole? Piccolo o grande non importa: un posto. Non lo sanno, e nell'incertezza rivoluzionaria scelgono il silenzio. “Nel clima di quel momento, con un unico partito che orientava il comportamento di tutti, queste osservazioni fecero colpo. Era il 1961 e l'ex guerrigliero, ministro del governo, sosteneva che un giovane, anche se si proclamava con orgoglio comunista, doveva “saper tenere alto il proprio nome individuale”. Bisognava “agire sempre come singoli individui”. I giovani dovevano conservare una speciale sensibilità, insisteva il Che, soprattutto di fronte all'ingiustizia, quindi essere “capaci di disobbedire e di opporsi” ogni volta che vedevano qualcosa che andava male, chiunque avesse provocato quel male: “Saper discutere e chiedere chiarimenti su tutto ciò che non è chiaro”. Per Guevara un ragazzo comunista doveva comportarsi così.


Il suo brontolare ad alta voce ricorda a Tutino il disagio di un compagno della giovinezza: Lorenzo Milani. Avevano frequentato lo stesso liceo a Milano, nell'Italia “in cui Mussolini imponeva il fascismo, un modo di vivere senza pensare”.


Deve essere il rigurgito del passato ad angosciare gli anni 80 del cronista vagabondo che inorridisce quando i famosi dell'isola o i grandi fratelli abbracciano il niente dei record d'ascolto: vivere senza pensare. “Mentre il Che all'Avana preparava le sue guerriglie, Lorenzo si era fatto seminarista accingendosi a lasciare la comodità della sua casa di Firenze per andare ad organizzare un laboratorio di umanità come parroco di Barbiana, borgo di montagna dove avrebbe creato una scuola molto speciale. Più tardi, Milani mi diceva che lui, con la tonaca, faceva per gli altri più di me che avevo in tasca la tessera del partito comunista.


Tutino non era proprio convinto. Ma uno scritto rivolto ai giovani di Barbiana gli fa confusione: “Lorenzo aveva detto cose che somigliavano a quelle di Guevara. “Il ragazzo in seminario va educato alla coscienza della propria dignità di uomo e di cittadino: alla propria responsabilità di persona che pensa con la propria testa, non aspettando gli ordini del superiore”.


Nelle lettere che Milani scrive a Tutino quando a Parigi si occupa degli algerini, insisteva su una idea di resistenza quotidiana, sul piano della giustizia anche a costo di irritare la Chiesa”. Mentre racconta Cuba, Tutino non riesce a liberarsi della memoria del compagno di scuola. “Prima di andare a morire in Bolivia, Guevara aveva scritto proprio queste parole: “Bisogna fare l'uomo nuovo, padrone della propria identità, persona dotata di una maggiore ricchezza interiore e investita di una responsabilità più grande”. Le stesse cose Lorenzo le aveva messe in un progetto per creare un giornale popolare. “Sogniamo un mondo in cui non ci siano più servi né padroni. Per arrivarci bisogna che ognuno abbia l'istruzione sufficiente per conoscere i fatti e i problemi e per cercare il modo di risolverli”. Lorenzo chiamava gli altri “fratelli”: Ernesto, “compagni”, ma era la stessa musica. “Ci basta aver portato i nostri fratelli al nostro stesso livello di libertà”. Libertà è sapere come va il mondo.


Anche Tutino non ha avuto vita facile: pensava troppo da solo. Sceglie “di uscire dall'ambiguità del cacciatore tropicale di notizie sul socialismo e tornare a casa. In Italia avrei potuto verificare meglio che cosa fosse diventata la speranza socialista”. Trova “tutto fermo allo stesso punto. Ogni parte dell'universo era chiusa nei propri problemi e nessuno sembrava provare angoscia riflettendo quanto del nostro destino veniva travolto da quello degli altri.


Che Guevara?, rispondono al giornali. “Fra quattro mesi nessuno lo ricorderà”. Dopo la sconfitta di Guevara, si lega “ad un altro sconfitto, Salvador Allende col quale avevo stretto amicizia prima che diventasse presidente del Cile. Ma L'Unità nel frattempo mi aveva esonerato. Pajetta ripeteva che sembravo più militante del partito cubano che del partito italiano, ed io, per appoggiare l'Allende presidente avevo dovuto pagarmi il viaggio con l'aiuto della Rai e il contributo dei giornali socialisti”. Arriva tardi, appena in tempo per vederlo morire.


Anche Castro dubitava dell'obbedienza che Tutino non regalava a nessuno. E l'amore per Cuba finisce. Sfogliando le date sembrano storie lontane, ma davvero l'obbedienza pretesa è una storia lontana? E quanti giornalisti sono oggi disposti a giocarsi il posto per non imbrogliare i lettori? Dopo il blitz alla fiera dell'artigianato di Milano, anche don Milani non può essere tranquillo.


Maurizio Chierici – L'UNITA' – 13/12/2004




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