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Quale risposta immaginano i carabinieri volati a Baghdad per interrogare chi ha sparato a Giuliana Sgrena? Nome e cognome di chi ha ucciso Nicola Calipari? Lottimismo è un optional quasi proibito. La strage impunita del Cermis resta il fantasma la cui memoria ricorda lo scherzo macabro del destino saggiamente evocato dal ministro Fini. Nessun colpevole, nessuna verità. Che finisse così era quasi scontato. Giuliana Sgrena non voleva la guerra e ogni suo ricordo di testimone verrà sbeffeggiato dagli immobili seduti in poltrona. Essere testimoni conta meno dellessere amici di chi conta. Cercare assieme diventa impossibile. Con qualche
imbarazzo per la morte di un bravo poliziotto, ma i buoni
rapporti fra due paesi amici e assieme impegnati nel
conflitto iracheno (come scrivono i grandi giornali
americani) obbligano all'ipocrisia doubleface. Dolore interno
per la scomparsa di un professionista coraggioso; coerenza
esterna per riaffermare la condivisione della
missione che impedisce la guerra civile. Chissà
perché nessuno si è accorto che la guerra civile è
cominciata tanti mesi fa. Caos e paura sembrano
incontenibili. Ma senza andare lontano nel tempo e cambiare continente, torniamo alla strage del Cermis. Il 15 febbraio 1998 alle 15 e 12 una aereo usato per la guerra elettronica nei Balcani - Prowell, predatore - taglia due cavi della funivia che da Cavalese sale al Cermis. La cabina precipita a valle. Muoiono venti turisti. Alle 15,26 l'aereo riatterra ad Aviano. Il rapporto del pilota si limita a cinque parole: Ho sentito una forte scossa. L'inchiesta della procura di Trento deve snidare i silenzi del segreto militare. Impenetrabile, ma qualcosa viene fuori. I voli di addestramento non potrebbero andar sotto ai 1100 metri. Per scendere alla quota minima di 650 è necessario un permesso d'emergenza che non risulta richiesto. Ma i fili tagliati si alzavano appena 150 metri da terra. Come mai la picchiata? Anche la velocità regolata dagli accordi con le autorità italiane non può superare le 100 miglia all'ora. La commissione Usa ammette che al momento dell'incidente le miglia erano 500. Il sospetto di una bravata per scommessa - mi infilo tra un cavo e l'altro - con l'aereo compagno di esercitazione, avvelena la rabbia di chi conta i morti. Anche perché la registrazione video della missione è sparita. Il secondo pilota, Schweitzer, confessa di averla consegnata al comandante Ashby dopo l'atterraggio. Respinto il processo in Italia. È la corte marziale di Camp Lejeune, Nord Carolina, a giudicare i colpevoli. Assolti perché il fatto rientra nella casistica degli incidenti lievi. Solo Ashby viene condannato a sei mesi di prigione per aver distrutto un reperto ritenuto di una certa importanza. Senza spiegazioni, poco dopo torna libero e risale sul Predatore. Immalinconirsi per questo tipo di disattenzione vuol dire essere antiamericani? La mia generazione è una generazione americana. Cresciuta contestando la cultura dei padri con la nuova cultura sbarcata nell'Italia autarchica del fascismo. L'entusiasmo a scuola dei professori liberati ci ha travolti. Sfogliavano libri a lungo sospirati, e poi film la cui leggenda li aveva segretamente raggiunti. Studiavano grandi pittori dei quali i guardiani dell'ortodossia nera proibivano la decadenza; leggevano giornali dove ogni verità accertata aveva diritto alla prima pagina. Aria fresca, messaggio dell'America che aveva slegato la democrazia rieducandoci alla comunicazione corretta. Mario Soldati conservava un manuale dove si insegna il mestiere da giornalista normale, evitando i pistolotti della retorica e l'ossequio verso il signore di Roma e dei proconsoli di provincia. Soldati era uno dei quattro cronisti italiani ad accompagnare l'avanzata da Napoli alla linea gotica. Gli alleati si preoccupavano che la retorica della libertà riproponesse i tasti della retorica del fascismo, duro e puro. Anche la democrazia può scivolare nella piaggeria. Americani ed inglesi hanno affidato la stesura di un decalogo per la corretta scrittura giornalistica a uno scrittore del quale Soldati è poi diventato amico fino a tradurre in film un suo racconto: Graham Green. Mezzo secolo dopo il manuale vale come allora e potrebbe aiutare alla trasparenza dei nostri giorni. Non un giornalismo embedded, ma un prontuario che educa all'indipendenza. Ecco, il nostro amore. E le delusioni d'amore sono più profonde delle delusioni di chi si accontenta dei luoghi comuni. Noi eravamo cambiati mentre le radici economiche della potenza incontenibile stavano cambiando. E cominciano i dubbi di chi si sente tradito, anche se l'amore resiste. La macchina militare americana non confessa errori o deviazioni. Top gun e marines non sbagliano, non massacrano, non torturano. Distribuiscono cioccolata e democrazia con lo stesso sorriso. Vi ricordate quando sono arrivati nel '45? Non importa essere nati dopo. È un mito che accompagna ogni generazione. I buoni sentimenti non cambiano e non è cambiata la mia riconoscenza fino a quando sono entrato in un museo insolito tornando in Vietnam nel 1989. Immagino adesso sia un vero museo, ma quando ho messo piede nel cortile di una casa del villaggio di My Lai, fra le risaie della città di Quang Nai, lavagnette di legno dondolavano appese ai rami degli alberi. Lapidi di bambù coperte di nomi, famiglia per famiglia; 347 persone uccise nella rappresaglia ordinata dal capitano Ernest Medina al reparto del tenente William Calley. My Lai è solo uno dei quattro villaggi bruciati attorno a Quang Nai, dall'operazione cerca e distruggi, inventata per neutralizzare il retroterra del nemico uccidendo tutti gli abitanti. Corpi fatti saltare con la dinamite per confondere le tracce. Tra il massacro del mattino e quello del pomeriggio, il rapporto di Calley a Medina annota una pausa pranzo di due ore. In quel Vietnam i giornalisti non dovevano chiudersi in albergo o rispondere passo per passo ai comandanti militari. Era una stagione di straordinaria libertà. Andavano in prima linea, ascoltavano senza impedimenti i racconti di chi tornava da certe imprese. Seymour Hersh, corrispondente dell'Associated Press riceve la confidenza allucinata dell'elicotterista Hugh Thompson: quel mattino sorvola le risaie di My Lai a bassa quota. Vede un ufficiale che calpesta il corpo di una donna stesa a terra. La finisce con la pistola. Poi guida gli uomini verso un recinto lontano cento metri. Thompson si accorge che nel cortile immobili per la paura si nascondono alcune donne e tanti bambini. Decide di atterrare. Con l'aiuto di due compagni li porta in salvo prima che irrompa il dio della guerra. La cronaca di Seymour diventa un libro, My Lai, Vietnam. Gli fa vincere il Pulitzer, ma scuote la Casa Bianca. Mary McCarthy, scrittrice dall'eleganza sentimentale, dedica un saggio a Medina. Il tenente Calley viene richiamato negli Stati Uniti, processato e condannato all'ergastolo nel 1972. Ma nel '74 torna in libertà e scrive un libro nel quale difende il coraggio dei suoi uomini e la strategia della terra bruciata. Medina resta dov'è: in fondo ha solo trasmesso l'ordine che gli è arrivato dal generale Samuel Koster. Il quale nel congedarsi dall'accademia di West Point, dopo una piccola condanna definitiva e mai scontata, si rivolge ai cadetti gridando: Non lasciate che quei bastardi vi stritolino. Una carriera meravigliosa rovinata dai media, è lo sdegno Tv di un giovane tenente. Davvero i carabinieri che arrivano a Baghdad col foglio del rinvio a giudizio (omicidio volontario e tre tentati omicidi) emesso dai magistrati romani e controfirmato dal ministro Castelli, davvero sono convinti di poter fare giustizia? Maurizio Chierici L'UNITA' 07/03/2005 |
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