Le fortune
dell'economia possono precipitare in pasticceria. Rallentato
dagli applausi, Lula chiude l'incontro fra dodici governanti
latini e i paesi del Golfo guidati dall'Arabia Saudita.
Preoccupati gli americani. Condoleezza Rice aveva insistito per
mandare suoi osservatori, ma non ce l'ha fatta: Grazie,
no. I giganti del petrolio hanno preferito saldare
un'amicizia commerciale, ma anche politica, senza la cautela che
l'orecchio del potente avrebbe imposto. Chiedo a Fabio Feldman,
ministro di Stato dell'ambiente negli anni della presidenza
Collor del quale si considera creatura politica, se l'abbraccio é
il segno di un paese che sta tremando per le oscillazioni
iperboliche del greggio. Lo fa sospettare l'improvvisa fraternità
voluta dal Brasile coi signori del Golfo. Neanche per idea.
Il petrolio non è il nostro problema. Vent'anni di
esplorazioni lungo le coste ci hanno portato alla quasi
autonomia, indipendenza consolidata dall'alcol che alimenta la
maggior parte delle auto del paese. Energia rinnovabile, grande
successo, alternativa quotidiana ai combustibili fossili.
Al riparo dagli umori politici
dell'Opec e degli altri paesi produttori, i prezzi restano
stabili. E deboli. Un litro di alcol costa il 60% meno di un
litro di benzina che in Brasile non è cara se rapportata
alle nostre tasche. Le incognite si legano alle fortune contadine
del raccolto in parte razionalizzato dalla meccanizzazione degli
stati del sud, con una sola eccezione in apparenza frivola: se le
diete vengono trascurate, se la golosità dei paesi
industriali pretende più gelati, più torte e
pasticcini, insomma, tanto zucchero, i produttori di alcol
valutano la convenienza. E i prezzi della pompa possono
rincarare.
Il
Brasile era rimasto a secco nel fatidico 1973 dopo la guerra del
Kippur e la serrata dei paesi arabi. Domeniche a piedi in Europa,
ma ogni giorno della settimana era drammatico nel
paese-continente allora in alto mare nella ricerca del greggio:
non sapeva come andare avanti. Ecco l'idea di succhiare energia
dalla canna da zucchero. I passeggeri che a fine anni Settanta
inconsapevolmente prendevano un taxi ad alcool, dopo il primo
scatto del tassametro frugavano sotto i sedili per capire dov'era
il cabaret delle paste dimenticate da un cliente distratto.
Meccanica improvvisata, sperimentalismo a volte conturbante. Si
scendeva quasi ebbri dall'altra parte della città. Era il
medioevo di una tecnologia ormai evoluta. Le grandi fabbriche si
sono adattate. Dalle catene Crysler, Fiat, Mercedes, Toyota,
Volkswagen escono automobili che bruciano l'alcol al posto della
benzina. Nessun profumo avvolge i viaggiatori. Gli impacci che
tormentavano le vetture restano il ricordo di un passato sepolto:
difficoltà nell'accensione, serbatoi e marmitte che
rapidamente deterioravano, i motori continuavano a tossire.
Trent'anni
di passi non veloci ma instancabili hanno rivoluzionato il pieno
al distributore. Da principio la soluzione sembrava una miscela
che aggiungeva alla benzina il 25-30% di alcol. Continua a
funzionare. Ma con una tecnologia detta Flexfuel, ormai le
fabbriche mettono sul mercato fuoriserie ed utilitarie dal doppio
serbatoio: quello dell'alcol è grande, la benzina prende
un piccolo posto, specie di riserva, non si sa mai. Le difficoltà
dei primi anni non riguardavano solo la meccanica: ogni litro di
alcool produceva dieci litri di Vignoto, mostarda di pasta di
canna scaricata nei fiumi: l'inquinamento era allarmante.
Ricerche e lunga sperimentazione l'hanno trasformata in
fertilizzante. Un po' per costrizione, un po' per genio
abbiamo a messo a punto una tecnologia sofisticata dallo sviluppo
pulito nel rispetto dei protocolli di Kyoto.
La
meccanizzazione del mare di canna che copre lo stato di San
Paolo, primo produttore del Brasile che è il primo
produttore del mondo, ha provocato un terremoto sociale. I
tagliatori di canna scendevano a San Paolo dal Nord Est dove la
siccità resta l'eterna maledizione dopo che la foresta è
stata tagliata per allargare le piantagioni del cacao. Gli
eserciti degli stagionali col machete sconvolgevano le abitudini
delle piccole capitali dello zucchero sparse nella campagna.
Uomini che a stagione finita tornavano a casa con discreti
gruzzoli lasciandosi alle spalle figli e famiglie clandestine.
La meccanizzazione ha aumentato la produzione
cancellandoli, ma senza risolvere il problema di una manodopera
che non sa come sbarcare il lunario. La modernizzazione
- lo dico tra virgolette- ha recuperato una parte degli
stagionali. Se ne riconoscono i diritti quasi fossero operai di
fabbrica anche se è una strana fabbrica che lavora pochi
mesi. Il sindacato li protegge. Nel Nord il tempo si è
fermato e la realtà resta l'affanno di sempre: continuano
a tagliare a mano, vivono alla giornata. Chi fabbrica l'alcol nel
latifondo tradizionale impone rapporti socialmente inaccettabili.
Ma i problemi continuano anche nel sud: ciò che resta sul
campo viene bruciato per permettere l'aratura e liberare le
piantagioni dai serpenti. Nuvole di fumo soffocano i villaggi
attorno provocando malattie respiratorie. La parola cancro
inquieta le statistiche.
Il
traffico nutrito dall'alcol inquina meno delle auto a benzina?
L'impatto atmosferico è incomparabilmente migliore.
La carburazione non libera monossido di carbonio, né
polveri leggere, ma la nostra è solo l'esperienza di un
paese tropicale senza aria fredda e dall'umidità
sopportabile: manca il rodaggio nei paesi dal clima diverso. La
ricerca continua; la tecnologia che ha fatto il miracolo cerca di
inventarne altri. Ho ragione di sperare che l'alcol diventi uno
dei combustibili del futuro. Il Giappone ha trascinato i
suoi esperti a studiare piantagioni ed impianti. La Cina chiede
di importare alcol brasiliano. Purtroppo anche il traffico
ingorga dall'alba alla notte le autostrade urbane di San Paolo.
Cinque milioni di automobili, una ogni due abitanti, immobili per
ore nel sole di un autunno mai così bollente. Solo nel
municipio principale della città vivono 10 milioni di
persone; raddoppiano nell'abbraccio della grande capitale.
L'effetto serra resta il problema di un inquinamento termico
insopportabile. Il Feldman ministro ha cercato otto anni fa di
dimagrire il traffico con targhe che ogni giorno escludono un
settimo del parco auto. Il navigare da un quartiere all'altro fa
pensare con apprensione cosa potrebbe succedere se tutte, proprie
tutte, le vetture in garage fossero per strada.
La
canna da zucchero non è la sola a immiserire i polmoni
delle foreste: La soia comincia a diventare un problema. La
esportiamo in Europa, paesi arabi, Giappone. Se non fosse per i
sussidi con i quali gli Stati Uniti sostengono la loro
produzione, saremmo il paese guida del mondo. Ma l'ecosistema ne
risente. Mentre ricerche e tecnologia hanno aumentato la
produzione per ettaro, limitando l'espansione dei terreni
coltivati a canna, la soia resta nella fase della conquista. Il
mercato moltiplica le promesse, esportazioni che volano, le
piantagioni si allargano.
Si
allargano dove? Torna l'angoscia del verde bruciato perché
l'aria non è quotata in Borsa: soia e canna da zucchero
sì. Non scompare solo la foresta: Il serrado è
la savana brasiliana divorata dall'espansione agricola. Soia,
soprattutto. Il settanta per cento del serrado dello stato di san
Paolo è sparito negli ultimi anni. In Mato Grosso,
Boa Vista e in ogni stato del nord, sertao e foresta si sfiorano
e si confondono. La grondaia dei sertao testimonia porzioni
enormi di foresta bruciata: è rimasta una savana che
aspetta l'avanzamento delle piantagioni. Contadini del Sud (molti
di origine italiana) risalgono il paese inseguendo la nuova
fortuna: soia, sempre soia. All'economia del Brasile la
foresta non rende niente. Legno pregiato in balia di madereiros o
grandi proprietari distratti. Allora si brucia dopo aver tagliato
mogano e ogni altra pianta preziosa. I numeri non sono sempre
bene aggiornati, ma ogni anno spariscono trentamila chilometri
quadrati di foresta: arriva la soia.
Come
ambientalista cosa propone? Marina Silva, ministro
dell'ambiente di Lula è una donna battagliera ma isolata
nel governo. E lo sopporta male. Ha lavorato con Chico Mendes,
sindacalista dei raccoglitori di caucciù, ucciso dalle
milizie del latifondo quindici anni fa. Anch'io non saprei quali
pesci pigliare: la questione è complessa. Se l'alcol per
le automobili ci ha salvati dal dissanguamento delle importazioni
di petrolio, la soia garantisce l'equilibrio nella bilancia dei
pagamenti con l'estero. Cosa scegliere? Il futuro del Brasile e
del mondo sui quali incombe l'effetto serra per le foreste che
spariscono sono minacciati in un futuro sempre meno lontano. Ma i
conti si fanno ogni anno. E la soia li salva. Il dottor
Fabio Feldman ritrova le parole del suo maestro Fernando Henrique
Cardoso, intellettuale venuto dalla sinistra per diventare
presidente di destra: Come condannare la concretezza delle
scelte dovute aggrappandosi alla sociologia degli ambientalisti
radicali?. Par di capire che ambientalista radicale non lo
sia mai stato.
Maurizio Chierici
L'UNITA'- 13/05/2005
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