Ogni giorno un
dramma lontano allarga la nostra angoscia per l'economia che
trema mentre il governo fa il gioco delle tre carte. Con tanti
problemi non vien voglia di alzare gli occhi verso il futuro,
eppure sarebbe bene farlo. Perché fra quarant'anni metà
della popolazione del mondo vivrà nelle città, e le
abitudini ne saranno sconvolte. Le città restano il
laboratorio dove politica, cultura e confronto sociale hanno
trasformato la nostra vita. E continueranno ad esserlo ma in modo
diverso. Le proiezioni di Anna Tibaijuka, direttrice di
Onu-Habitat, annunciano un panorama che fa paura. Fra
quarant'anni tre miliardi di persone disperse nelle baracche, fra
le immondizie, assedieranno i grattacieli e i giardini delle
belle case e i riccioli dei vecchi palazzi dove la storia elabora
il potere.
Un
miliardo di emarginati già li guarda così. Ogni
anno se ne aggiungono 30 milioni, il doppio degli abitanti di
Tokyo, mentre 270mila stracci impantanati nella terra di nessuno
- né campagna, né città - muoiono di
malattie con tanti nomi da ricondurre a parole semplici: fame,
analfabetismo, abbrutimento della violenza che conclude la
violenza endemica di questo tipo di esistenza. Guerra invisibile
senza caschi blu, dieci volte più micidiale delle
statistiche che contano chi cade sparando, o dei maremoti che
scuotono la compassione.
Ecco
come si trasformeranno le città dove invecchiano i nostri
figli e cresceranno i nipoti. San Paolo, Brasile, è uno
dei prototipi, neanche il peggiore, ma l'inquietudine è
già cominciata. Ricchi-Ricchi, Poveri-Poveri si sfiorano
per strada, si spiano da lontano: aspettando.
Comincio
dai ricchi-ricchi la cui opulenza cresce in parallelo
all'allargarsi delle povertà. Appunti di un viaggio nel
privilegio. Comincia nel condominio che ricorda un gigantesco
mobile dai cassetti aperti in modo disuguale: terrazze più
larghe, terrazze più corte vogliono dire piscine più
larghe, piscine più corte dal primo al trentesimo piano.
La professione del padrone di casa consiste nel mettere d'accordo
affari e politica, impegno dai risvolti d'oro nei Paesi dove la
corruzione è la regola che addolcisce i cortigiani delle
classi agiate. Chiacchieriamo soffocati da un verde che fa
pensare all' Amazzonia mentre la figlia piccola nuota e il
cameriere serve il caffè. Allargo le fronde della siepe,
filtro fra terrazza e realtà, e mi affaccio su una favela
della quale non vedo la fine. Su e giù ai piedi delle
colline di Morumbì dove l'alta società paulista
riposa nei giardini blindati. Si chiama Paraisòpolis,
spiega con allegria l'avvocato faccendiere: città del
paradiso. Centomila abitanti, forse più. Nessuno li ha mai
contati, non vale la pena. Bisognerebbe mandarli via. Tanta
miseria ha l'aria di una provocazione nell'angolo esclusivo della
capitale. L'altra sera sono bruciate due strade. Che pena, povera
gente, ma un posto soffocato da lamiere e cartoni è una
vergogna che dovremo risolvere. Il condominio dalle
terrazze disuguali si appoggia ad una casa con balconi dalle
piscine mignon: risalgono con l'arco di una parentesi fino
all'ultimo piano. Guardano i campi da tennis ben recintati
dirimpetto alla collina dei potenti: Place des Voges stringe
palazzi con mansarde che gonfiano mostruosamente le dimensioni
delle bohèmes parigine. Cancelli dalle punte d'oro. La
piazza è protetta come una cassaforte. Inferriate da
cortina di ferro; anche la portineria ricorda il Charlie Point,
vecchia Berlino. Guardie in divisa, mille monitor. Si entra a zig
zag, tre sbarramenti che impacchettano tre volte i passi di chi
va in visita ad un amico. Poi comincia il paradiso: tappeto di
prati e lo sguardo si allarga nei giardini del palazzo del
governo dello Stato di San Paolo. Non siamo nel cuore dei
ricchi-ricchi. Solo l'anticamera. Dalle loro finestre si ammirano
le auguste dimore. Il comfort di Place des Voges viene
considerato tutto sommato modesto dalla classe che conta: 120
metri quadrati, 600mila euro, in Brasile cifra enorme. Può
sfamare per un anno cinque strade della favela. Appena lontano,
l'edera dei vecchi miliardi protegge i parchi Versailles, Baby
Pignatari e i più ricchi fratelli di banca. Ma le ville
recenti hanno dimensioni accettabili. Una signora italiana è
cresciuta nel cortile della fabbrica che il padre aveva aperto
con pochi operai, anni Cinquanta. Ormai è un gigante.
Nell'eredità, Sandra Papaiz conserva il buonsenso della
famiglia emigrante. Nessuna follia per onnipotenza di denaro.
Rimprovera l'esibizione degli amici attorno, e brontola sulle
figlie che si lasciano trascinare da mode costosissime. Sta per
partire per la casa del week end, a Campos do Jordao, Cortina
sulle montagne che dividono gli stati di San Paolo, Minas Gerais
e Rio de Janeiro. Vanno tutti lì. Cortina nell'imitazione
delle case in legno; Cortina nei negozi e nei prezzi, e un po'
Crans sur Sierre per i ristoranti dell'hotel Frontenac: da Parigi
ha portato i suoi antipasti. Trecento chilometri col traffico
immobile che paralizza le autostrade, val la pena per un fine
settimana? Sorride la signora. L'elicottero è pronto.
Cinquanta minuti e può cominciare il golf. San Paolo è
la città con la più grande flotta di elicotteri
privati del mondo. In un certo senso necessari con un'automobile
ogni due abitanti, dieci milioni di macchine in eterna fila.
Necessità che ritocca l'architettura di grattacieli e
palazzi: come aureole dall'incomparabile bruttezza, le
piattaforme trasformano ogni tetto in eliporto presidiato da
vigilantes Rambo. Nessuno si fida anche in paradiso. Nei
ristoranti alla moda un nastro sottile d'acciaio assicura alle
sedie le borse delle signore. I camerieri le legano prima di
offrire il menu. Orde di scippi incontrollabili. Il ladro dovrà
scappare trascinando il mobilio. Ma i camerieri si arrabbiano
appena l'avventore straniero pretende un'acqua minerale
brasiliana. Solo Perrier e San Pellegrino, signore. I
nostri frequentatori sono abituati così. Sono
abituati a supermercati che non devono somigliare a negozi, ma
agli angoli di un sogno barocco dove il lusso diventa la regola
alla quale è vietato sottrarsi. Ancora una signora dal
nome italiano: Eliana Piva Tronchesi ha inaugurato dieci giorni
fa il supermercato Daslu. La parola supermercato la
infastidisce. Villa Daslu è un palazzo
rinascimentale, logge e cortili che ricordano Firenze. Risponde
alle esigenze di una clientela che pretende il lusso ed è
innamorata delle cose belle. Sparse in saloni e salotti
come oggetti dimenticati sulle librerie, orologi e gioielli
rubano posto agli inutili volumi. Appoggiati con l'aria di chi ha
fretta, vestiti che hanno appena sfilato a Milano e Parigi.
Valentino e Dolce Gabbana, borse di Prada, trionfo di Louis
Vuitton: nella cattedrale del benessere la sua più
grande esposizione del continente. Nessuno cammina da solo. Una
hostess incantevole accompagna ogni curioso. Due dita di
champagne al bar, e perché non assaggiare il piede di
maiale nel ristorante esclusivo? Lo ha disegnato
David Collins architetto di Madonna. E le buste e i pacchi di chi
compra? Nessun problema: un tapis roulant rosa li porta in garage
con l'etichetta incollata come nelle valige degli aeroporti. E i
facchini li sistemano nel bagagliaio. O sui sedili degli
elicotteri: Necessari per non far perdere tempo nel
traffico a chi vuol comprare. Se la facciata grigia
brutalizza nella banalità l'armonia fiorentina, la
dimensione spaventa. Il palazzone si allunga con la maestosità
di un incubo disegnato dagli architetti di Stalin. Massiccio,
cupo, malgrado le colonne palladiane dell'improvvisazione che
cambia secolo. Dentro la musica è un sussurro e l'aria ha
un profumo soave indispensabile a chi vende eleganza perché
il supermercato si affaccia sul fiume Pinheiro, acque marce,
fanghi avvelenati, odori nauseabondi: aggrediscono i poveretti
quando corrono all'elicottero. Non sono abituati a respirare le
fogne come gli abitanti delle favelas attorno.
Ecco
l'altra città. Non val la pena di raccontarla:
intristisce. Tre milioni che tirano giornata. Un milione vive per
strada. Decine di migliaia di bambini segnati dall'aids. Barboni
bruciati dalle squadre della morte della polizia per il fastidio
che svergogna i marciapiedi. Violenza e droga. Il Brasile ne è
diventato il grande consumatore perché il Brasile di
Cardoso, presidente prima di Lula, ha adottato un modello
perverso con l'intenzione di stroncare mercato e consumo. Nessuna
preoccupazione per prevenire e curare i ragazzi che ne sono
oppressi. Sui marciapiedi della loro sottovita, crack o miscele
di colla restano il pane quotidiano. Malgrado gli ammortizzatori
che il governo Lula cerca di allargare, sopravvivono le regole
Usa, dottrina Reagan: repressione, solo repressione. Stanno
cambiando, ma per milioni di adolescenti continua la deriva.
Anche perché il mercato dei ragazzi ha due facce:
spacciatori in cambio di dosi, prostituzione di adolescenti da
offrire al sangue stanco dei turisti d'Europa, quegli italiani in
vacanza a Fortaleza. E poi la fame e la disperazione dei Sem
Terra scacciati dalle piantagioni da un'oligarchia che paga
tribunali e politici rivendicando proprietà fantasma:
l'oro verde della soia val bene venti milioni di randagi. Le
storie si ripetono con crudele noiosità. Massacri attorno
a San Paolo, soprattutto a Rio. Bambini uccisi, corpi lasciati in
bella vista per ventiquattro ore nella vetrina delle strade,
ammonimento per chi infastidisce i commerci rubando mele o pane,
o per chi non accetta le regole dei boss. Anni fa, padre Renato
Chiera, italiano di Cuneo, mi ha trascinato nella sua Casa do
Menor sperduta nel labirinto delle baracche di Nova Iguassu, alle
spalle delle colline che abbracciano Rio. Una bambina dai capelli
biondi, Michele, giocava giochi proibiti. Non aveva bambole e
assieme alle compagne di strada passava la notte dentro i
cimiteri: disseppellendo bambini di pochi giorni o pochi mesi in
un posto dove la mortalità infantile non rientra nelle
statistiche. Cullavano quei corpi fino all'alba. Padre Chiera ha
voluto che lo raccontassi dopo aver ascoltato il racconto di
Michele perché la parola favela infastidisce giornali e
Tv. Solo per Natale ci si può intenerire. La Michele
raccontata dal Corriere diventa un personaggio. Ron le dedica una
canzone, Angeli, e assurge a simbolo quasi famoso ma
dalla vita breve: l'aids se l'è portata via. Pensavo a
Michele nei salotti di Villa Daslu, reparto giocattoli
elettronici, e moto a batteria per i piccoli: a benzina per i
quasi obesi che vanno a scuola. Possono due umanità tanto
lontane convivere nelle stesse città senza rischiare il
finimondo? L'analisi di Luis Gonzaga Belluzzo, economista
dell'università di Campinas, sconfina nella sociologia
partendo dai numeri: Il peccato dei notabili brasiliani si
manifesta con la forma raffinata del nascondere le tragiche
realtà del nostro tempo, favorendo la crescente
separazione tra potere reale e potere democratico. Diritti
di tutti e privilegi di una piccola parte della società:
chi vuol sopravvivere con dignità e chi pretende di
allargare ricchezze già larghe facendo finta di non
vedere. Mancano solo quarant'anni al d-day e certi segni fanno
capire che anche dalle nostre parti voracità e
indifferenza si stanno allargando. Considerato come si vive nelle
città prototipo, sarebbe meglio non far finta di niente.
Maurizio Chierici
L'UNITA' 16/05/2005
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