Arriva
una lettera dallAmazzonia. Triste, disperata. «Mi
rivolgo allopinione pubblica, perché sappia».
Racconta la violenza di una storia lontana che ricorda tante
storie italiane: dal lodo Mondadori agli altri processi Previti.
E la disavventura del suo protagonista perbene somiglia alle
disavventure di giornalisti e testimoni che a casa nostra si
impegnano a denunciare lo scandalo delle varianti miliardarie di
piani regolatori; aree agricole trasformate in aree fabbricabili
e la trasparenza negata da giunte comunali dal cuore di mattone.
Cementizzano le città distruggendo le aree sopravvissute
ai saccheggi sventolando le bandiere di «modernità e
progresso». La protezione politica agli ingordi e il
finanziamento delle campagne elettorali sono la merce di scambio
preferita del modulo italiano. Senza morti e feriti, solo
l'imposizione del silenzio. Con le buone maniere di una
democrazia così diversa dal Far West Amazzonia. Ma chi
continua a parlare è sempre perduto. Da noi e da loro.
Racconta
una storia perfino molto triste la lettera imbucata a Belem.
Malgrado forum, marce di solidarietà e bandiere verdi, il
giornalista che per primo, 30 anni fa, ha denunciato la
distruzione dell'Amazzonia, per 30 anni è stato lasciato
solo in balia di una giustizia maneggiata da politici legati a
grandi interessi. Forse il ministro Castelli può prendere
appunti: sogni che si realizzano in un mondo che potrebbe
diventare il nostro. Lucio Flavio Pinto è il protagonista
simbolo di una resistenza dimenticata. In solitudine ha svelato
saccheggi, incendi, traffico di schiavi, scandalose relazioni tra
magistratura, governatori e i signori della soia, ladri di mogano
e califfi delle centrali elettriche che avvelenano fiumi e
foreste. Ha perso la cattedra all'università di Belem, è
stato licenziato dal giornale e dalla Tv dominante, O Liberal,
proprietà di Romulo Maiorana, figlio di un contrabbandiere
di origine italiana: possiede il monopolio dell'informazione.
Decide la vittoria o la sconfitta politica di chi vuole. E arriva
ad aggredire fisicamente il solo giornalista senza collare che
racconta tutto, proprio tutto, e non dà tregua a chi copre
i grandi furti, appannando un po(solo un po), il
potere della comunicazione illimitata. Minacciato di morte, Pinto
nasconde moglie e figlie a San Paolo. Ma continua. Nessun
avvocato del Parà accetta di difenderlo, e il sociologo si
laurea in legge e va in tribunale da solo. Finalmente è
stato condannato per aver divulgato sul suo «Jornal
Pessonal» laccusa apparsa sul «Libro bianco
sull'appropriazione illegale di terreni in Brasile»
compilata dal ministero dello Sviluppo Agrario del governo
federale. Il ministero dichiara che Cecilio do Rego Almeida è
responsabile del «più grave tentativo di
appropriazione indebita di terre pubbliche del Paese». Ha
rubato unarea «tra i cinque e i sette milioni di
ettari» nella valle dello Xingu. Sulle carte della Riforma
Agraria e di ogni altro ente pubblico quei sette milioni di
ettari continuano ad essere considerati «proprietà
dello stato», ma usando i vuoti nel catasto dello stato del
Parà, un notaio di Altamira ha giurato in tribunale di
avere le prove (purtroppo perdute) che l'immensa foresta
appartiene al gruppo Almeida. Nel Parà è ammesso il
giuramento del notaio come «prova provata». E il
magistrato giudicante ha ritenuto oneste e costruttive le
informazioni, confermando per sempre la proprietà ad
Almeida. Per «disattenzione» si è poi scordato
di informare il pubblico ministero che indaga sulla truffa
Almeida. Il quale pubblico ministero lo viene a sapere, per caso,
quattro mesi dopo quando le possibilità di appello sono
scadute e la sentenza è passata in giudicato. Prima di
scegliere una soffice pensione, Joao Alberto Paiva, giudice
rispettato dalle persone perbene, rinvia a giudizio Lucio Flavio
Pinto «per aver scritto un articolo che stravolge la realtà
e offende il signor Cecilio do Rego Almeida». Il quale si
costituisce parte civile: con Lula presidente meglio trincerarsi
dietro una barriera di sentenze per proteggersi dalle azioni che
prima o poi il governo scatenerà, ma sul serio, sempre che
questo governo venga confermato alle elezioni del 2006.
Altrimenti è fatta. La tragicommedia non finisce qui.
Pinto deve essere condannato. Cè un ostacolo: la
titolare del processo per diffamazione, è la signora Luzia
do Socorro Silva Dos Santois. Da otto mesi studia la denuncia di
Almeida e le prove che Pinto le ha fornito. Ma proprio alla
vigilia del dibattito in aula, chiede una licenza: deve
partecipare a un corso di aggiornamento lontano dal Parà.
La sostituisce il giudice Amilcar Roberto Becera Guimaràes.
Non sa nulla del caso. E' il 16 giugno. Il 17, un venerdì,
riceve gli atti del processo. In un baleno si fa un opinione e
poche ore dopo emette la sentenza. Sei pagine di condanna con
rimproveri pesanti al povero giornalista. Amilcar Roberto Becera
Guimaràes scrive che le tesi di Lucio Flavio Pinto sono
state sollevate «al solo scopo di torturare il giudice,
obbligandolo a un infruttifero lavoro manuale». Pinto
ripete vecchi luoghi comuni, non importa se sono atti ufficiali
dello stato federale. La colpa grave è definire «Cecilio
do Rego Almeida il più audace fra i pirati fondiari».
Condannato a 8 mila reali di indennizzo, 3 500 euro, ai quali
aggiungono interessi di mora del 6 per cento ogni anno a partire
dal 2000, quando l'articolo è stato pubblicato; più
il 15 per cento di onorari per gli avvocati. Pinto ha due
possibilità: pagare la multa, sei mesi di stipendio minimo
o andare in galera. Il pagare non annulla ma conferma la colpa
sporcando la fedina penale rimasta faticosamente immacolata fra
tante trappole, una coda di pene sospese destinate a rinascere
dopo la prima condanna. La bocca è davvero chiusa. Il
pacchetto degli avvocati di Almeida contempla l'assistenza degli
studi legali di New York. Ha la convinzione che nessuno potrà
portargli via 7 milioni di ettari di foresta. Per tornare ai
paralleli italiani: l'improvviso girotondo dei magistrati è
stato deciso dal presidente del tribunale di giustizia dello
stato di Parà, giudice Milton Nobre. Autorità
venerabile, compagno di caccia della famiglia Maiorana. Il giorno
dopo la sentenza che umilia Lucio Flavio Pinto pare sia andato a
caccia proprio con Amilcar Roberto Becera Guimaràes. Come
direbbe Emilio Fede: cosa c' è di strano se due magistrati
accettano linvito di un amico e passano la domenica a
sparare assieme ? «Vorrei che la gente sapesse».
Lucio Flavio non chiede niente a nessuno, ma qualcosa bisogna pur
fare.
Maurizio Chierici
L'UNITA' 04/07/2005
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