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Figli del vuoto

Ogni vacanza se ne va lasciando un segno. Ricordi o tentazioni, soprattutto nostalgie.
È insolita la nostalgia che l’estate ormai bagnata suggerisce: voglia di rimettere in piedi il servizio militare di leva per combattere la noia con la naja. Gente qualsiasi in divisa: succede in Svizzera, Stati Uniti e altri posti. Accanto ai supermen, uomini di ferro e d’azione, le facce normali delle quali la gente politicamente si può fidare. Sembra uno di casa e ogni casa la pensa in modo diverso.
Equilibrio del pluralismo. E poi la voglia di una barriera tra idiozia e realtà ispirata dalle cronache di questi giorni. Bisogna capire il disagio dei ragazzi di Genova che bruciano la città. A dire il vero non proprio la città, solo un po' di cassonetti. Se non fosse per il colpo di carabina contro la finestra del Pm responsabile dell'aver precipitato la squadra alla serie C (violando non so quanti diritti umani) la reazione dei tifosi era stata considerata "moderata" perfino dal Corriere.
Paragonata all'Iraq l'analisi è perfetta. Anche chi gioca al piromane dando alle fiamme auto e moto parcheggiate a Roma non lascia feriti. Solo ferri abbrustoliti la cui rovina invita a meditare sull'effimero degli oggetti cari ai nostri desideri. Una certa attenzione meritano i disadattati ai quali la noia ispira l'impresa delle pietre scaricate in autostrada. Invenzione che dà un tono a questa estate sotto tono. C'è un morto, d'accordo, ma ogni conquista deve pur pagare il suo piccolo prezzo. Bisogna dire che esistono talenti naturali e imitatori malaccorti. Quelli che vogliono buttare il treno fuori dai binari è un'armata Brancaleone che si fa arrestare con le sbarre nel sacco. E i giovani allievi delle zolle terra-muschio pateticamente lanciate fra le ruote dei gitanti, confermano che il fascino degli esempi resta una seduzione irresistibile per gli scapricciati alla ricerca del guinnes del disastro. Servirebbe un addestramento appropriato. Prima di diventare qualcuno devono farne ancora di strada. Insomma, figli del vuoto: sociale, familiare, spirituale. Anche la scuola scardinata dal girotondo di precari pagati come netturbini, non sempre insegna a diventare uomini e donne aperti al dialogo con gli uomini e le donne che incontrano ogni mattina.
A volte le notizie fanno alzare gli occhi dai libri che stiamo sfogliando: Soldatini di piombo di Giulio Albanese. Lo pubblica Feltrinelli. Un prete giornalista (collabora all'Avvenire e all'Espresso e ha fondato la Misma, agenzia alla quale fa capo la rete delle informazioni di ogni agenzia missionaria sparsa nel mondo) racconta i suoi viaggi fra i ragazzi-soldato dell'Africa Nera. Ogni tre o quattro mesi, dopo Timbuctu e il mondo degli animali, vediamo qualcosa in Tv. O ne parlano i giornali quando Veltroni torna sconvolto e non trattiene la vergogna: come possiamo dimenticarci di loro? E torna il silenzio. Sparano da quando hanno otto anni. Sparano davvero: pallottole e granate, non i sassi e il muschio dei nostri mollaccioni. Bruciano i villaggi dove vivono le loro famiglie, non cassonetti davanti alla stazione. Disobbedire vuol dire essere condannati a morte dal santone ribelle che dopo aver parlato con dio, ordina ai compagni di giochi e di armi di "giustiziare" il compagno disobbediente.
L'Africa brucia in modo diverso dai guerriglieri del nostro sabato sera. Brucia perché gli eserciti regolari se ne fregano dei ragazzi quando qualcuno attacca. Li usano come scudi o come killer. Guerre fra mostri con vittime colpevoli di essere nate lì. Nate a Falluja, in Cecenia, a Baghdad. Anche a Gaza. Anni fa il ministro dell'emigrazione Sharon fa arrivare da ghetti russi e polacchi chi sogna la terra promessa. Mantiene le promesse con terra, casa e sussidi sfollando chi abitava prima. Adesso i ragazzi piangono nelle processioni dell'esodo, strappati dai giardini dove sono cresciuti. Un sogno distrutto dal primo ministro Sharon a cui va il merito di salvare la pace in Medio Oriente. Ha recuperato la ragione anche perché gli Stati Uniti gliel'hanno imposto, purtroppo aggiungendo al vecchio dolore dei ragazzi che trent'anni fa avevano lasciato Gaza scacciati con le armi, il dolore dei ragazzi che adesso vanno via scortati dalle stesse divise, mostrando gli stessi occhi vuoti, trascinando valige che il tempo ha solo un po' cambiato. Non importa se palestinesi o israeliani, chi c'era prima e chi è arrivato dopo: il dolore dello sradicamento resta lo stesso. La pace pretende il loro sacrificio.
Chissà perché i senza nome sono costretti all'eterno sacrificio, e i protagonisti dei disastri non perdono mai la poltrona. E magari sospirano il Nobel della pace.
Tragedie quotidiane che appaiono e poi svaniscono sommerse da altre tragedie, ma gran parte delle nuove generazioni o non se ne accorge o le considera così lontane dalla beata quotidianità da non restarne impressionati. O indignati. O preoccupati. Quindi non imparano a fare confronti tra la loro morbidezza e la vita agra degli altri posti. Gli Sms o le foto dal telefonino delle vacanze invitano alla smemoratezza. Nella marea dei notiziari on line i massacri trovano un angolo solo dopo i mille morti. Li abituiamo a comprare ma a non sapere e non pensare. Per fortuna c'è chi rompe la plastica con volontariato, studi seri, impegno sociale e religioso, non importa la religione. Ma il numero resta sottile anche se da Colonia le interminabili dirette Tv vogliono far credere il contrario.
Ecco perché in questa estate dalle caserme vuote (per la prima volta senza reclute: restano a casa sostituite dall'esercito dei professionisti) torna la strana nostalgia per l'esercito di leva. La mia generazione ha indossato la divisa con rabbia considerando i 18 mesi di naja 18 mesi buttati via. Solo il tempo ha fatto capire che non era proprio così. Negli anni sessanta 340mila reclute attraversavano l'Italia: dalla Sicilia a Como, da Treviso a Lecce. Essere lontani dalla protezione familiare accendeva malinconie dall'apparenza insormontabile. Lontani dai dialetti coi quali si era cresciuti. Ridotti ad un numero senza nome e cognome. Disciplina che puniva gli sbadati. E discorsi interminabili non solo sul come difendere la patria coi fuciletti del tempo, ma sul significato della parola patria: capacità di convivere pacificamente ed essere solidali evitando discriminazioni e fanatismi, evitando, soprattutto, la patria della retorica e dei gagliardetti, o degli eroi coi quali il fascismo aveva ammobiliato l’Italia e che adesso qualcuno prova a rianimare.
A scuola nessuno ci aveva mai parlato così. Il buonsenso scendeva dalle modeste arringhe di capitani un po' annoiati, eppure in piedi, sull'attenti, sotto la bandiera che ogni mattina si alzava nel cortile della caserma. Ne ascoltavamo le parole quasi fossero lezioni morali dettate dal cielo. A poco a poco perfino i laureati-furibondi ammettevano che c'era qualcosa di buono. Senza contare che gli italiani si mescolavano, non virtualmente nella Tv o nei telefonini, ma scontrandosi con parlate incomprensibili, cibi sconosciuti e ragazze così diverse dalla ragazze lasciate a casa da precipitare il mistero nell'amore.
Fare i militari oggi è una professione tecnica che la guerra elettronica impone agli eserciti. Inquadro, origlio, controllo, punto e automaticamente l'incrocio radar fa partire il colpo. E i sentimenti delle reclute d'antan diventano i tanghi del passato. Eppure il buonsenso di chi viene da famiglie qualsiasi e sta fuori casa un anno per imparare qualcosa che possa permettergli di tutelare la società dalle aggressioni o dalle catastrofi; imparare ad obbedire, imparare ad ascoltare le noiose prediche morali su droga e aids, su ricchezza e povertà che solo la Tv manda in onda dopo mezzanotte, vuol dire capire come sia stupido crescere nel mondo degli spot. La vita noiosa dei giorni trascorsi in caserma può aiutare le generazioni disorientate a trovare un minimo di spina dorsale. Naja che diventa scuola di vita e non di guerra; barriera contro le sciocchezze che corrono libere in ogni nostro abbandono. Anche nella tutela del territorio contro il terrorismo, accanto agli specialisti-robot che sospettano di ogni sussurro, l'essere gente in mezzo alla gente potrebbe rinsaldare buonsenso e comunicazione. E rinforzare la sicurezza. Con esperienze pedagogiche: vedere la partita della domenica accanto ai carabinieri costretti a girare le spalle ai calciatori per tener d'occhio gli indisciplinati che picchiano sugli spalti, può far capire agli aspiranti ultras come qualcuno sia costretto a pagare con tensione e fatica il loro divertimento. Un anno con la divisa militare diventa la terapia che aiuta ad evitare le sterili anticamere di master e seminari. Riempiono il vuoto del non lavoro quando gli studi sono finiti. Meglio un anno da alpino che la frequentazione dei corsi costosissimi di scienze delle comunicazioni, magari Mediaset, o i seminari prezzo-medio fioriti in ogni università. È vero che allungano gioiosamente la goliardia oltre i 30 anni ma non portano da nessuna parte. Quando padre e madre hanno finito i soldi, i ragazzi faranno domanda per diventare postini. Senza contare che sparendo il servizio militare obbligatorio, sparisce lo screening medico di massa del quale non si parla mai ma che è stato per mezzo secolo uno dei primi indicatori d'allarme sul pericolo droga e altre malattie.
Ogni anno la chiamata di leva disegnava la mappa sanitaria delle nuove generazioni, sollecitando prevenzioni per il ritorno della tubercolosi o l'impotenza di ragazzi in crescita ai quali una serie di nuove abitudini umiliava la virilità. Con gli ospedali in fibrillazione, casse vuote, infermieri che non si trovano, adesso non sapremo più niente. L'esercito dei professionisti è un esercito inossidabile e i figli qualsiasi vengono lasciati a casa. Con quale utilità sociale e a imparare cosa ?


Maurizio Chierici – L’UNITA’ – 22/08/2005




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