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I bambini senza vetrine

Cominciano i giorni delle favole. I bambini non sono tanti, eppure davanti alle vetrine del Natale sembrano una folla più larga dei bambini che rotolano nelle periferie dell'altro mondo. Vetrine annegate da regali che rivolgono un invito a padri assenti o a madri sfinite dai treni pendolari, metrò e lavoro: comprate, per riempire la solitudine dei vostri ragazzi. Giochi elettronici o vecchi cavalli di legno e libri ricamati che provano a far concorrenza alla Tv. Sognare, leggendo, è il futuro intelligente che aiuta a crescere i padroni del 2000.

Nelle favole dei buoni sentimenti spunta la ferita di una favola triste: “Gugù”. Sta per pubblicarla un piccolo editore, Goree. La sua malinconia fa capire cosa nascondano le belle parole che ieri hanno festeggiato la giornata internazionale dei diritti dei bambini.

Ventiquattro ore di pubblica solidarietà durante le quali 776 bambini sono morti di fame, malaria, tubercolosi, guerra e ogni altra cosa inventata da adulti benestanti, per lo più battezzati. Insomma, è andata bene, appena tre bambini in più della media dell'ultimo mese; tre piccoli feriti iracheni che non ce l'hanno fatta. Davanti alle vetrine illuminate nessuno ha il coraggio di spiegare ai bambini delle vetrine come muoiono i bambini senza vetrine. Perché muoiono e in che case o marciapiedi o campagne bruciate delle guerre se ne sono andati senza lasciare la memoria di un nome. Per sempre, solo numeri. Fanno sospirare le madri delle nostre città le quali non sanno cosa dire dopo il sospiro. Natale, momento d'allegria: se mai lo spieghiamo a feste finite. E i figli di questi padri e queste madri non capiranno mai la contabilità che spegne i numeri di tanti compagni lontani.

La favola triste è stata scritta da un maestro che ha educato alla scrittura i non ragazzi di un'altra stagione: Alberto Manzi. Fra i banchi, ma anche in Tv con “Non è mai troppo tardi”. Lo ha ricordato sulla Stampa Massimo Gramellini, a proposito di un'altra contabilità che per caso incrocia la notizia della favola triste obbligandoci a frugare il passato per scoprire come gli italiani con banda larga e Ponte di Messina, continuino a somigliare agli italiani dalla valigia di cartone.

Siamo usciti dal fascismo con due milioni di analfabeti. Altri nove milioni di ex balilla compitavano il nome con la penna che tremava nella fatica della firma. Poveretti, si diceva. Sfogliavano il giornale sillabando senza capire anche perché, finita l'autarchia, nuove parole arrivavano ogni giorno sulle nostre labbra. Impossibile inseguirle. Un filone di pensiero sosteneva che il fascismo era sopravissuto oltre l'immaginazione grazie all'ignoranza che rendeva i meno fortunati dipendenti da autorità impegnate a non far sapere. Gli analfabeti sanno solo ciò che gli altri raccontano. Non potendo controllare, quindi scegliere, si fidavano dei pifferai. Sessant'anni dopo nel paese di Sky e digitali terrestri, telefonini e balocchi, doppie case e doppie macchine, gli analfabeti sono diventati sei milioni. Ventinove milioni gli illetterati che forse firmano senza tremare, ma tremano con un giornale in mano.

Contadini del Sud, Basilicata al primo posto, ma dei 4 milioni di abitanti del Piemonte, 611 mila balbettano e i 14 800 che vivono in Val d'Aosta non hanno mai aperto un libro. Le adunate fasciste restano ricordi in bianco e nero, la disinformazione è affidata ai gerarchi Tv. Grovigli di voci si contraddicono senza spiegare. Analfabeti e traballanti come risolveranno le equazioni degli sbarramenti della nuova legge elettorale? Due per cento nella città vicina, quattro per cento nel loro villaggio, otto per cento più in là. I dolori della guerra di Mussolini avevano aperto gli occhi a chi non poteva leggere per sapere. Hanno ricominciato a guardare in faccia la realtà quando il paese è tornato un paese normale. In quell’Italia il maestro Alberto Manzi educava alla democrazia i profughi illetterati del fascismo, cogliendo l'esempio di don Lorenzo Milani: ai ragazzi della scuola di Barbiana il prete troppo solo imponeva ruvidamente l'obbligo di leggere e scrivere per “decifrare le prose complicate dei padroni”, quindi essere in grado di rispondere. Coi ragazzi si può, ma per gli adulti che scivolano nella vecchiaia, cosa fare ? Ecco “Non è mai troppo tardi”, trasmissione per analfabeti di una certa età, nove anni sugli schermi Rai, 72 paesi l'hanno copiata. Storie di ieri.

Ma curare gli analfabeti oggi è più complicato. Il telecomando cancella la noia dell'imparare aprendo fughe immonde nelle isole di qualche famoso. Nutriti artificialmente dalla Tv, gli analfabeti 2000 non sopportano discorsi complicati. Ogni qualche minuto deve succede qualcosa: un gol, un delitto, una risata, altrimenti che divertimento è? E gli illetterati che sanno appena firmare si adeguano e obbediscono. Se il maestro Manzi fosse vivo sarebbe disoccupato. Perché l'analfabetismo di carta è complicato dall'analfabetismo elettronico. Ormai nelle anticamere degli ospedali i cartelli invitano a prenotare gli esami clinici con messaggi on line. Sempre on line, senza muovervi di casa mentre gela l' inverno, vi manderemo i risultati. Iscriviti a [email protected] Leggono e si spaventano le facce di una certa età. Abbassano gli occhiali: cosa vuol dire? Metà degli italiani non lo sa pur vivendo nel paese fortunato del Cavaliere.

Non sono soli. In Burkina Faso c'è un computer ogni mille persone, 38 ogni mille nel Cile che la leggenda dei Chicago's Boys ne enfatizza l'avanguardia economica. Il 91 per cento di chi dialoga elettronicamente vive nelle regioni industrializzate, qui, attorno a noi che siamo il 19 per cento della popolazione mondiale. Gli altri devono portare pazienza. Anche fra i bianchi benestanti chi ha più di cinquant'anni continua a togliersi gli occhiali scuotendo la testa. Culture lontane ai ragazzi di altri tropici. L'elettricità è un optional troppo costoso e il computer diventa sopramobile inutile. Crescono senza sapere. Ecco perché ascoltando Kofi Annan, segretario Onu che inaugura a Tunisi il meeting mondiale su internet, intenerisce l'ottimismo: “Non si tratta di dare un computer ad ogni bambino come fosse un oggetto magico, perché la magia è dentro ad ogni bambino”. Noi dei paesi felici subito lo richiamiamo all'ordine: distribuire i computer alla folla dei poveri è una buona idea, ma voi paesi poveri arrangiatevi da soli: per il momento siamo impegnati in altre spese. Kofi Annan rinfodera la magia, la stessa magia che accompagna la favola triste del maestro Manzi. Il quale, lasciata la Tv, va a far scuola in America Latina, foreste del Brasile e Amazzonia peruviana schiavizzate dai padroni della gomma.

Lo racconta in un romanzo appena uscito: “E venne il sabato”. Ma gli ultimi fogli dimenticati nel cassetto sono i fogli di “Gugù”, favola che dovrebbe finire negli zaini delle scuole. Dialoghi di bambini randagi nelle immondizie delle città mostro. Baracche senza regole nelle quali incontrano il primo essere umano che non fa paura. Vagabondo un po' matto. Diventa il solo adulto col quale i randagi riescono a comunicare. La sua magia civile li salva dalla raffinatezza delle torture quotate alla borsa nera: traffico d'organi. Quando i più avventurosi cominciano a sparire nelle cliniche immacolate, aria condizionata e infermiere dal sorriso gentile, il vagabondo li va a cercare. Un po' di loro riappare sui marciapiedi col torace segnato da cicatrici blu, o un occhio chiuso perché il bisturi lo ha portato via. Qualcuno non torna: ai padroni delle città serviva un cuore, e il cuore si può rubare seppellendo il ragazzo. Quasi tutti si salvano, solo il vagabondo muore per salvarli. E la favola continua com'era cominciata: nell'allegria di chi non sa. La raccomando ai genitori che il lavoro sfinisce. È il modo non brutale per far sapere ai loro ragazzi cosa succede dietro le vetrine bene illuminate.

Maurizio Chierici – L’UNITA’ – 21/11/2005




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