Il cuore rosso del sogno americano |
Caro
Furio, mi hai chiesto di ritrovarti un mio vecchio saggio sullo
storico «flirt» tra la sinistra italiana e gli Stati
Uniti. Avresti dovuto averlo, perché era stato preparato per
un convegno, alla Columbia University, nel gennaio 1980, «L'immagine
americana in Italia e l'immagine italiana in America», diretto
da Giovanni Sartori e di cui tu sei stato l'organizzatore. Il mio
testo, insieme ad altri interventi, era stato pubblicato come «Il
mito americano di tre generazioni antiamericane». In
Comunicazione di massa 3, 1980 (che tu allora dirigevi) e poi è
stato ripreso da Laterza, in un volume a più voci intitolato
La riscoperta dell'America, del 1984. Del mio scritto dovrebbe
esistere anche una traduzione inglese pubblicata da qualche parte, ma
non riesco a ritrovarne traccia nei miei archivi. In ogni caso io non
parlavo tanto agli italiani, quanto agli americani, ed è per
questo che mi diffondevo in notizie su personaggi come Pavese,
Vittorini o Pintor.
L'avevo scritto perché immaginavo che
per molti americani l'immagine della sinistra italiana fosse quella
di militanti che manifestavano per il Vietnam contro «Johnson
boia», e volevo far capire loro come almeno tre generazioni
della sinistra italiana (forse persino molti che inneggiavano
all'Unione Sovietica) erano cresciute all'ombra di un «sogno
americano», e se qualcuno si era documentato per dovere
d'ufficio sulle traduzioni del Diamat, la maggioranza era cresciuta
(e si era aperta a ideali di libertà) leggendo i narratori
americani, vedendo film americani, ascoltando musica americana (prima
jazz e poi folk) e coltivando una immagine mitica e affettuosa
dell'America. È un paradosso, ma è storia. Forse non lo
è stata per qualche vecchio «compagno» che ha
pianto per la morte di Stalin, ma lo è stata per la grande
maggioranza degli intellettuali (traditori come sempre - e come
giusto che siano, pronti ad alimentare le contraddizioni all'interno
del loro stesso gruppo). Immagino che parte di questa storia possa
suonare nuova anche a dei lettori italiani, e forse è giusto
ricordarla. La citazione che segue è tratta da «l’Unità»,
3 agosto 1947, all’alba della guerra fredda. Vi ricordo che
«l’Unità» era il quotidiano ufficiale del
partito comunista italiano, a quei tempi fortemente inteso a
celebrare i trionfi e le virtù dell’Unione Sovietica e a
criticare i vizi della civiltà capitalistica americana: «Verso
il 1930, quando il fascismo cominciava a essere “la speranza
del mondo”, accadde ad alcuni giovani di scoprire nei suoi
libri l’America, una America pensosa e barbarica, felice e
rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e
insieme giovane e innocente. Per qualche anno questi giovani lessero,
tradussero e scrissero con una gioia di scoperta e di rivolta che
indignò la cultura ufficiale, ma il successo fu tanto che
costrinse il regime a tollerare, per salvare la faccia... Per molta
gente l’incontro con Caldwell, Steinbek, Saroyan, e perfino col
vecchio Lewis, aperse il primo spiraglio di libertà, il primo
sospetto che non tutto nella cultura del mondo finisse coi fasci... A
questo punto la cultura americana divenne per noi qualcosa di molto
serio e prezioso, divenne una sorta di grande laboratorio dove con
altra libertà e altri mezzi si perseguiva lo stesso compito di
creare un gusto, uno stile, un mondo moderno che, forse con minore
immediatezza ma con altrettanta caparbia volontà, i migliori
tra noi perseguivano... Ci si accorse, durante quegli anni di studio,
che l’America non era un altro paese, un nuovo
inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con
maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti...
La cultura americana ci permise in quegli anni di vedere svolgersi
come su uno schermo gigante il nostro stesso dramma... Parteggiare
nel dramma, nella favola, nel problema non potevamo apertamente, e
così studiammo la cultura americana un po' come si studiano i
secoli del passato, i drammi elisabettiani o la poesia dello stil
novo».
L’autore di questo articolo era Cesare Pavese,
già autore famoso, traduttore di Melville e altri scrittori
americani, comunista. Nel 1953, introducendo la raccolta dei saggi di
Pavese, morto suicida, Italo Calvino, allora membro del partito
comunista (che lasciò ai tempi della vicenda ungherese) così
espresse il sentimento che la intellighenzia di sinistra provava nei
confronti degli Stati Uniti:
«L’America. I periodi di
scontento hanno spesso visto nascere il mito letterario di un paese
proposto come termine di confronto, una Germania ricreata da un
Tacito o da una Staël. Spesso il paese scoperto è solo
una terra d’utopia, una allegoria sociale che col paese
esistente in realtà ha appena qualche dato in comune; ma non
per questo serve di meno, anzi gli elementi che prendono risalto sono
proprio quelli di cui la situazione ha bisogno... E davvero, questa
america dei letterati, calda di sangui di popoli diversi, fumosa di
ciminiere e irrigua di campi, ribelle alle ipocrisie chiesastiche,
urlante di scioperi e di masse in lotta, diventava un simbolo
complesso di tutti i fermenti e di tutte le realtà
contemporanee, un misto di America, di Russia e d’Italia,con in
più un sapore di terre primitive, una incomposita sintesi di
tutto ciò che il fascismo pretendeva di negare, di escludere».
Come era potuto accadere che questo simbolo ambiguo, ovvero questa
civiltà contraddittoria, avesse potuto affascinare una
generazione intellettuale cresciuta nel periodo fascista, quando
l’educazione scolastica e la propaganda di massa celebravano
soltanto i fasti della romanità e condannavano le cosiddette
demoplutocrazie giudaiche? Come era potuto accadere che al di sotto e
al di là dei modelli ufficiali, la generazione giovane negli
anni Trenta e Quaranta si creasse una sorta di educazione
alternativa, un proprio flusso di contropropaganda di regime?
Vorrei
tracciare a vasti tratti la storia di tre generazioni di italiani
che, per diverse ragioni storiche e politiche, in qualche modo si
consideravano o avrebbero dovuto considerarsi anti-americani; e che,
in qualche modo, da soli, contro o addirittura a sostegno della loro
ideologia antiamericana, hanno elaborato un Mito americano. Il primo
personaggio della mia storia firmava i suoi articoli, negli anni
Trenta, come Tito Silvio Mursino. Annagramma di Vittorio Mussolini,
figlio del Duce. Vittorio apparteneva a un gruppo di giovani leoni
affascinati dal cinema, come arte, come industria, come modo di vita.
Vittorio non si accontentava di essere il figlio del Capo, il che
sarebbe stato sufficiente a procurargli le grazie di molte attrici:
voleva essere il pioniere dell’americanizzazione del cinema
italiano. Nella sua rivista “Cinema” egli criticava la
tradizione cinematografica europea e asseriva che il pubblico
italiano si identificava emotivamente solo con gli archetipi del
cinema americano. Vittorio non era un intellettuale e neppure un
grande uomo d’affari. Il suo viaggio in America, per gettare un
ponte tra le due industrie cinematografiche, si risolse in un fiasco:
gaffes politiche, sabotaggio da parte delle stesse autorità
italiane(il padre guardava all’impresa con molta diffidenza),
ironia da parte della stampa americana. Al Roach gli disse che al
postutto era un bravo ragazzo, perché non cambiava nome?
Questo modello americano rimase valido sino al 1942, quando gli
americani divennero ufficialmente nemici. Ma anche nei casi di più
violenta propaganda bellica, il nemico odiato era l’inglese,
non l’americano. Ma forse la spia più interessante di
questa sensibilità diffusa la troviamo nelle pagine della
giovane intellighenzia fascista che scriveva sulle pagine di
«Primato». «Primato» uscì tra il 1940
e il 1943, diretta da una delle più contraddittorie figure del
regime fascista, Giuseppe Bottai. Tra i giovani collaboratori di
«Primato» troviamo non solo i rappresentanti
dell’antifascismo liberale (Montale, Brancati, Paci, Contini,
Praz) ma anche il meglio della futura cultura comunista, Vittorini,
Alicata, Argan, Banfi, Della Volpe, Guttuso, Luporini, Pavese,
Pintor, Pratolini, Zavattini, ecc. Colpisce accorgersi che, nel
febbraio ‘41, un brillante giovane intellettuale come Giaime
Pintor potesse pubblicare sulla rivista un saggio sulla
robotizzazione del soldato tedesco, ricordando che l’Europa non
sarebbe mai ridiventata un territorio di libertà sino a che
fosse dominata dall’ombra cupa delle bandiere germaniche.
Cresciuto sotto il fascismo, sviluppando giorno per giorno,a ritocco
per articolo una critica lucida e coraggiosa delle dittature europee,
Giaime Pintor scrisse nel 1943, pochi mesi prima di morire nel corso
della guerra di resistenza, un saggio che allora non poté
pubblicare; «... l’America vincerà questa guerra
perché il suo slancio iniziale obbedisce a forze più
vere, perché crede facile e giusto quello che si propone. Keep
smiling, «conserva il tuo sorriso»: questo «slogan»
di pace veniva dall’America con tutto un seguito di musiche
edificanti, quando l’Europa era una vetrina vuota e l'austerità
di costumi imposta ai paesi totalitari scopriva soltanto il volto
disperato e amaro della reazione fascista. L’estrema semplicità
dell’ottimismo americano poteva allora indignare quanti erano
persuasi del dovere di portare il lutto in segno d’umanità,
quanti anteponevano l’orgoglio per i propri morti alla salute
dei propri vivi. Ma il grande orgoglio della America per i suoi figli
di oggi sarà la consapevolezza che essi hanno corso sulla
strada più ripida della storia, che hanno evitato i pericoli e
le insidie di uno sviluppo quasi senza soste. L’arricchimento e
la corruzione burocratica, i gangsters e le crisi, tutto è
diventato natura in un corpo che cresce. E questa è la sola
storia dell’America: un popolo che cresce, che copre con il suo
continuo entusiasmo gli errori già commessi e riscatta nella
buona volontà i pericoli futuri. Le forze più ostili
potevano incontrarsi sul suolo americano, le malattie e la miseria;
ma la media di questi rischi e paure era sempre una positività,
ripeteva ogni volta l’esaltazione dell’uomo. Grava sulla
civiltà americana la stupidità di una frase: civiltà
materialistica. Civiltà di produttori; questo è
l'orgoglio di una razza che non ha sacrificato le proprie forze a
velleità ideologiche e non è caduta nel facile
trabocchetto dei «valori spirituali»; ma ha fatto della
tecnica la propria vita, ha sentito nuovi affetti nascere dalla
pratica quotidiana del lavoro collettivo e nuove leggende sorgere
dagli orizzonti conquistati. Qualunque cosa pensino i critici
romantici, un’esperienza così profondamente
rivoluzionaria non è rimasta senza parole; e mentre
nell’Europa del dopoguerra si riprendevano i temi di una
cultura decadente o si adottavano formule, come quella surrealista,
necessariamente sprovviste di futuro, l’America si esprimeva in
una nuova narrativa e in un nuovo linguaggio, inventava il
cinematografo. Che cosa sia il cinema americano molti sentono, con
quell’ambivalenza di simpatia e di fastidio che è stata
descritta come uno dei nostri irriducibili complessi di europei, ma
nessuno forse ha posto in luce con il necessario vigore. Ora che
un'astinenza obbligatoria ci ha garantiti dagli eccessi di pubblicità
e dal fastidio dell'abitudine si può forse ricapitolare il
significato di quell’episodio educativo e riconoscere nel
cinema americano il più grande messaggio che abbia ricevuto la
nostra generazione». Con l’immagine di questa America
universale nel cuore, Giaime Pintor si univa all’esercito
inglese a Napoli e moriva tentando di passare le linee tedesche per
organizzare la resistenza partigiana nel Lazio. Da dove veniva questa
immagine dell’America? Pintor e Vittorio Mussolini, da due lati
opposti della barricata, ci dicono che il mito arrivava via-cinema.
Ma anche la narrativa era stata un elemento di diffusione e
ispirazione. E alla origine di questa diffusione noi troviamo due
scrittori, Elio Vittorini e Cesare Pavese. Ambedue cresciuti in clima
fascista, Vittorini tentando l’avventura di «Primato»,
Pavese già condannato al confino sin dal 1935. Entrambi
affascinati dal mito americano. Entrambi sarebbero diventati
comunisti. …Nel 1941 Vittorini preparò per Bompiani
Americana, una antologia di più di mille pagine, con testi che
andavano da Washington Irving a Thorton Wilder e Saroyan, passando
per O. Henry e Gertrud Stein - tradotti da giovani letterati che si
chiamavano Alberto Moravia, Carlo Linati, Guido Piovene, Eugenio
Montale, Cesare Pavese. Dal punto di vista di oggi, la raccolta era
abbastanza completa; forse eccessivamente vorace, certamente
scompensata; Fitzgerald vi appare sottovalutato, Saroyan
sopravvalutato, vi figurano autori come John Fante che per l’avvenire
non avrebbero più occupato un posto di tale rilievo nelle
cronache letterarie. Ma questa antologia non voleva essere una storia
della letteratura americana bensì la costruzione di una
allegoria, una sorta di Divina Commedia dove paradiso e inferno
coincidevano. Vittorini aveva già scritto nel 1938
(«Letteratura», 5) che la letteratura americana era una
letteratura mondiale con un unico linguaggio e che l’essere
americano coincideva col non esserlo, con l’essere libero da
tradizioni locali, aperto alla comune civiltà dell’umanità.
In Americana la prima descrizione degli Stati Uniti è
alquanto omerica, con l’immagine delle pianure e delle
ferrovie, delle montagne nevose e dei paesaggi sterminati da costa a
costa. Una innocenza litografica, alla Courrier and Ives, un’epica
non nutrita da alcuna evidenza diretta, puro onirismo intertestuale.
C’era in quelle pagine la stessa libertà con cui
Vittorini aveva tradotto e avrebbe tradotto i propri autori
americani, tutti in «vittorinese» dove una creatività
partecipante metteva in secondo piano l’esattezza filologica.
Ma l’America che Vittorini disegna in quelle pagine è
una terra preistorica sommossa da terremoti e derive di continenti,
dove invece dei dinosauri e dei mammuths dominano i profili
giganteschi di Jonathan Edwards che risveglia Rip van Winckle
invitandolo a un epico duello con Edgar Allan Poe che cavalca Moby
Dick. Anche i giudizi critici sono metafore, iperboli: «Melville
è l’aggettivo di Poe e di Hawthorne sostantivo. Egli ci
dice che la purezza è ferocia. La purezza è una tigre…
Billy Budd impiccato. Egli è un aggettivo. Ma come la felicità
è un aggettivo della vita. O come lo è, della vita, la
disperazione». America come chanson de geste. Pound e i
negri del blues. «L’America è oggi (per la nuova
leggenda che si va formando) una specie di nuovo Oriente
favoloso, e l’uomo vi appare di volta in volta sotto il segno
di una squisita particolarità, filippino o cinese o slavo o
curdo, per essere sostanzialmente sempre lo stesso: “io”
lirico, protagonista della creazione».
Il libro era
multimediale. Non solo libro di brani letterari e raccordi critici,
ma anche una superba antologia fotografica. Immagini prese dai
fotografi del New Deal che lavoravano per la Works Progress
Administration. Insisto sulla documentazione fotografica perché
ho saputo di giovani che all’epoca furono culturalmente e
politicamente rigenerati proprio dall’impatto con quelle
immagini, di fronte alle quali provarono il sentimento di una realtà
diversa, e di una diversa retorica, ovvero di una antiretorica. Ma il
Minculpop non poteva accettare Americana. La prima edizione
del 1942 fu sequestrata. Si dovette ripubblicarla senza i testi di
Vittorini e con una nuova prefazione di Emilio Cecchi, più
accademica e prudente, meno entusiastica e più critica, più
«letteraria». Ma anche così emasculata, Americana
circolò e produsse una nuova cultura.
…Così,
la generazione che aveva letto Pavese e Vittorini combatté la
guerra partigiana, spesso nelle brigate comuniste, celebrando la
rivoluzione d’ottobre e la figura carismatica del Piccolo
Padre, e rimanendo al tempo stesso affascinata e ossessionata da una
America come speranza, rinnovamento, progresso e
rivoluzione.
Vittorini e Pavese erano alla fine della guerra
adulti maturi, quasi quarantenni. La seconda generazione del mio
affresco invece comprendeva ragazzi nati negli anni Trenta. Molti di
essi entrarono all’età adulta, alla fine del conflitto,
come marxisti. Il loro marxismo non era quello di Vittorini e Pavese,
del tutto identificato con la lotta di liberazione e l’orrore
per le dittature fasciste, più un senso di fraternità
universale che una ideologia precisa. Per la seconda generazione il
marxismo era una esperienza di organizzazione politica e di
engagement filosofico. L’ideale di questa generazione era
l’Unione Sovietica, la sua estetica il realismo socialista, il
suo mito la classe operaia. Politicamente avversi all’America
come sistema economico e politico, simpatizzavano con vari aspetti
della storia sociale americana, con quella «America vera»
che era stata dei pionieri e della prima opposizione anarchica,
l’America «socialista» di Jack London e Dos Passos.
…Tuttavia quella che ci interessa è una diversa fascia
di questa seconda generazione, che poteva vivere all’interno o
all’esterno dei due partiti marxisti di quell’epoca, il
comunista e il socialista, e la cui definizione risulterebbe così
vaga e imprecisa che sono costretto a commettere un arbitrio
narrativo. Costruirò un personaggio fittizio che chiamerò
Roberto. Tra i membri della classe di cui egli vuol essere il
rappresentante, ve ne saranno stati di Roberti al novanta per cento e
di Roberti al dieci per cento. Il mio sarà un Roberto al cento
per cento. Forse tra i membri del comitato centrale del Pci non
c’erano molti Roberti; ma Roberto abitava piuttosto il
territorio extrapartitico delle attività culturali, delle case
editrici, delle cineteche, dei giornali, dei concerti, e proprio in
questo senso è stato culturalmente molto influente. Roberto
potrebbe essere nato tra il 1926 e il 1931. Educato in modo fascista,
il suo primo atto di ribellione (naturalmente inconscia) è
stato la lettura dei fumetti tradotti (male) dall’americano.
Flash Gordon contro Ming fu per lui la prima immagine della lotta
contro la tirannia. L’Uomo Mascherato era sì un
colonialista, ma invece di imporre modelli occidentali ai nativi
della giungla di Bengali, cercava di conservare le tradizioni sagge e
antiche dei Bandar. Topolino giornalista che si batteva contro i
politicanti corrotti per la sopravvivenza del suo giornale, fu per
Roberto la prima lezione sulla libertà di stampa. Nel 1942 il
governo proibì i palloncini e pochi mesi dopo soppresse i
personaggi americani; Topolino fu sostituito da Toffolino, umano e
non più animale, per preservare la purezza della razza. Iniziò
un collezionismo clandestino dei pezzi di un tempo. Blanda e dolente
protesta. Nel 1939 il Ringo di Ombre rosse fu l’idolo
della generazione. Ringo non combatteva per una ideologia o per la
patria, ma per se stesso e per una puttana. Era antiretorico e perciò
antifascista. Antifascisti furono Fred Astaire e Ginger Rogers,
perché si opponevano a Luciano Serra pilota, il personaggio
del film imperiale e littorio alla cui creazione aveva contribuito
anche Vittorio Mussolini. Il modello umano a cui Roberto pensava era
una accorta misura di Sam Spade, Ismael, Edward G. Robinson, Chaplin
e Mandrake il Mago. Immagino che per un americano, anche in un
periodo di nostalgia di massa, non vi sia nulla che unisce Jimmy
Durante, il Gary Cooper di Per chi suona la campana, il James
Cagney di Ribalta di gloria e la ciurma del Pecquod. Ma per
Roberto e i suoi amici vi era un filo rosso che univa tutte queste
esperienze: tutti erano persone felici di vivere e spiacenti di
morire, e costituivano l’antistrofe retorica al superuomo
fascista che celebrava Sorella Morte e andava incontro alla propria
distruzione con due bombe e in bocca un fior. Amare il tip-tap
significava disprezzare il passo dell’oca, prima, e guardare
con ironia le allegorie stakanoviste del realismo socialista, dopo.
Roberto e la sua generazione ebbero anche una musica: il jazz. Non
solo perché era musica d’avanguardia, che essi non
sentirono mai diversa da quella di Strawinsky o di Bartók, ma
anche perché era musica degenerata, prodotta dai negri nei
bordelli. Roberto fu antirazzista la prima volta per amore di Louis
Armstrong. Con questi modelli nella mente Roberto nel 1944,
giovanissimo, si unì in qualche modo ai partigiani. Dopo la
guerra fu o membro o compagno di strada di un partito di sinistra.
Rispettò Stalin, fu contro l’invasione americana in
Corea, protestò per la morte dei Rosenberg. Abbandonò
il partito con gli eventi ungheresi. Fu fermamente convinto che
Truman fosse un fascista e che Li’l Abner di Al Capp fosse un
eroe di sinistra, parente dei barboni di Pian della Tortilla. Amò
Eisenstein ma fu fermamente convinto che il realismo cinematografico
passasse attraverso Piccolo Cesare. Adorò Hammet e si
sentì tradito quando la hard-boiled novel passò
sotto l’amministrazione del maccartista Spillane. Pensò
che il passaggio a nord ovest per un socialismo dal volto umano fosse
sulla «road to Zanzibar» con Bing Crosby, Bob Hope e
Dorothy Lamour. Riscoprì e divulgò l’epica del
New Deal, amò Sacco, Vanzetti e Ben Shan, conobbe prima degli
anni Sessanta (quando ridivennero celebri in America) i folk songs
e le ballate di protesta della tradizione anarchica americana, e
ascoltò con gli amici, alla sera, Pete Seeger, Woodie Guthrie,
Alan Lomax, Tom Jodd e il Kingston Trio. Era stato iniziato al mito
di Americana; ma ora il suo livre de chevet era On
native grounds di Alfred Kazin. Ecco perché quando la
generazione del ’68 lanciò la sua sfida, magari anche
contro gli uomini come Roberto, l’America era già un
modo di vivere, anche se nessuno di quei ragazzi aveva letto
Americana. E non sto parlando di blue jeans o di cheewing gum,
cioè dell’America che dominava l’Europa come
modello di civiltà dei consumi: sto parlando ancora di quel
mito maturato negli anni Quaranta, che in qualche modo funzionava
ancora in sottofondo. Certo per quei giovani l’America come
Potere era il nemico, il gendarme del mondo, l’avversario da
battere in Vietnam come in America Latina. Ma il fronte di quella
generazione era ormai quadrilaterale: i nemici erano l’America
capitalista, l’Unione Sovietica che aveva tradito Lenin, il
partito comunista che aveva tradito la rivoluzione e - ultimo -
l’establishment democristiano. Ma se l’America era nemico
come governo e come modello di società capitalistica, c’era
un atteggiamento di riscoperta e di ricupero nei confronti
dell’America come popolo, come melting pot di razze in
rivolta. Essi non avevano più presente l’immagine del
marxista americano degli anni Trenta, l’uomo delle Brigate
Lincoln in Spagna, il «premature anti-fascist»
lettore della «Partisan Review». Essi
identificavano piuttosto un campo labirintico in cui si intrecciavano
le opposizioni tra vecchi e giovani, bianchi e neri, immigrati
freschi e gruppi etnici stabilizzati, maggioranze silenziose e
minoranze vociferanti. Non ponevano alcuna differenza sostanziale tra
Kennedy e Nixon, ma si identificavano col campus di Berkeley, con
Angela Davis, con Joan Baez e Bob Dylan prima maniera.
È
difficile definire la natura del loro mito americano: in qualche modo
essi usavano e riciclavano pezzi di realtà americana, i
portoricani, la cultura underground, lo zen, non più i comics
ma i comix, e quindi non Mio Mao (Felix the Cat) ma Fritz the Kat,
non Walt Disney ma Crumbs. Amavano Charlie Brown, Humphrey Bogart,
John Cage. Non sto tracciando il profilo di alcun movimento politico
preciso tra ’68 e ’77. Forse disegno una foto ai raggi X,
scoprendo qualcosa che continuava a vivere sotto la superficie
maoista, leninista o guevarista. E so di fotografare qualcosa che
c’era, perché questo qualcosa è esploso nel e
dopo il 1977. La rivolta studentesca di quegli anni assomigliava più
a una ribellione di ghetto negro che alla presa del Palazzo
d’Inverno. E persino sospetto che il modello segreto delle
Brigate rosse, ovviamente inconscio, sia la Famiglia Manson.
Non
posso certo parlare della generazione presente con lo stesso olimpico
distacco con cui ho parlato di quella degli anni Trenta. Sto cercando
solo di isolare, nella confusione del presente, il modello di una
immagine-mito americana. Inventata come le precedenti, prodotto di
creolizzazione.
Non è più un sogno, perché
può essere raggiunto a poco prezzo via Icelandic Airwais. Il
nuovo Roberto è forse stato membro di un gruppo
marxista-leninista nel 1968, ha lanciato qualche bomba Molotov contro
un consolato americano nel 1970, alcuni cubetti di porfido contro la
polizia nel 1970, e contro la vetrina di una libreria comunista nel
1977. Nel 1978, evitata la tentazione di unirsi a un gruppo
terrorista, ha raccolto qualche soldo ed è volato in
California, diventando magari rivoluzionario ecologo o ecologo
rivoluzionario. L’America è divenuta per lui non
l’immagine di un rinnovamento futuro ma il luogo dove leccarsi
le ferite e consolarsi di un sogno distrutto (o dato per morto troppo
in anticipo). L'America non è più una ideologia
alternativa, è la fine dell’ideologia. Egli ha ottenuto
con facilità il visto, perché di fatto non è mai
stato iscritto a uno dei partiti della sinistra storica. Se fossero
ancora vivi Pavese e Vittorini non avrebbero potuto ottenerlo, perché
essi, i padri del nostro sogno americano, avrebbero dovuto rispondere
«sì» sul formulario consolare che chiede se si sia
mai stati iscritti a partiti che intendano sovvertire la società
americana. La burocrazia americana non è un sogno. Al massimo
un incubo. C’è una morale in questa mia storia? Nessuna,
e molte. pere capire l’atteggiamento italiano verso l’America,
e in particolare l’atteggiamento degli italiani antiamericani,
dovete ricordarvi anche di Americana e di quanto accadde in
quegli anni. Quando gli italiani di sinistra sognavano del compagno
Sam e puntando il dito verso la sua immagine dicevano: I Want you.
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