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L'UNITA' – 22/08/2002

Il paese che seppe essere felice

La realtà è una signora pericolosa per i poeti, perché li umilia continuamente”. Eduardo Galeano parla seduto al suo tavolo preferito del Cafè Brasileiro, uno dei più antichi bar della città vecchia, cuore del centro storico di Montevideo. Tempi difficili per il piccolo Uruguay, strangolato dalle ripercussioni della grave crisi argentina, con un sistema bancario in rovina e centinaia di giovani che emigrano in cerca di un futuro migliore. Scenari simili si vedono anche nel resto dell'America Latina, orfana di un progetto politico autonomo, uscita malconcia dalla frenesia neoliberista dai dettami degli organismi finanziari internazionali. Galeano diventato oggi uno dei punti di riferimento culturali del movimento no global, è un osservatore attento e ironico dei processi sociali che regnano a sud del Rio Grande.

Oggi è sempre più difficile creare una poesia capace di produrre metafore così perfette come quelle che ci regala quotidianamente la realtà. I poeti e gli scrittori sono così costretti ad affacciarsi ogni giorno sulla realtà e raccontarla senza filtri. Prendiamo ad esempio l'Uruguay. Un paese piccolo, curioso e bizzarro. Qui c'è ancora gente capace di credere a questa favola romantica della “Svizzera del Sudamerica”, dell'oasi felice in mezzo alla barbarie. Niente di più falso e ingannevole. La verità è che noi uruguaiani, così come gli argentini, i cileni, i brasiliani, facciamo tutti parte di una regione in profonda e perenne crisi d'identità. Un continente formato da paesi che hanno deliberatamente rinunciato alla propria sovranità per adottare un modello di società basato sul rifiuto del lavoro e della produzione. Non produciamo più nemmeno per noi stessi e siamo costretti a vivere dipendendo dall'esterno. Per questo salutiamo ogni nuovo prestito internazionale come se fosse una prova della bontà della provvidenza divina. Milioni di dollari che non sono, come ci vogliono far credere, la manna caduta dal cielo in cui siamo costretti a vivere”.

Nel 1971 lei scrisse “Le vene aperte dell'America Latina”, dove raccontava la storia di un saccheggio iniziato 500 anni fa, con il primo viaggio di Cristoforo Colombo. Da quello che dice sempre che tale saccheggio sia destinato a non terminare mai.

Proprio così. Oggi stiamo ipotecando il destino di intere generazioni. Il meccanismo dei prestiti internazionali è come un cappio stretto intorno al collo di un condannato che si lascia deliberatamente in fin di vita. Il debito estero di fatto impedisce ai governi democraticamente eletti di decidere quale tipo di politica economica e sociale utilizzare per risolvere i problemi strutturali tipici dei paesi del cosiddetto terzo mondo. In America Latina non vola una mosca senza il permesso dell'alta finanza internazionale. I tecnici e gli economisti degli organismi finanziari decidono su tutto. I nostri paesi non sembrano capaci di governarsi da soli e ricorrono a governanti che sono teleguidati dall'esterno, come marionette. Ogni volta che un ministro dell'economia sudamericano vuole emettere un decreto, anche il più piccolo e insignificante, anche per decidere se dipingere una porta o cambiare un citofono, viaggia prima a Washington per chiedere il permesso. Questa è la regola d'oggi: i creditori possono decidere assolutamente tutto nella vita dei debitori. Arrivano i prestiti, ci strangolano con condizioni che bloccano il nostro futuro, ci fanno pagare quattro dollari per ogni dollaro che riceviamo e noi in coro diciamo “che bello”, “che fortuna, siamo finalmente incorporati alla cosiddetta “comunità internazionale”. Abbiamo bisogno di recuperare la nostra ormai perduta dignità nazionale. Ma non è facile.

Di fronte alla crisi economica e all'incertezza sui tempi a venire migliaia di giovani latino-americani guardano a Nord, agli Stati Uniti o all'Europa. Come giudica questa nuova ondata migratoria?

Di fronte alla crisi economica e all'incertezza sui tempi a venire migliaia di giovani che aspettano davanti ai consolati, al freddo, di notte, per ottenere un passaporto e mi ricordo delle traversie dei loro avi che vennero qui spinti dalla fame e dalla miseria che regnavano meno di un secolo fa in Europa. I nostri giovani se ne vanno in Italia, Spagna, Francia ripercorrendo in senso contrario lo stesso viaggio che fecero i loro nonni. Abbandonano perché si sentono asfissiati, senza possibilità di crescita professionale o intellettuale. Li comprendo, farei anch'io la stessa cosa se avessi la loro età. Penso all'Uruguay, un paese che seppe una volta seppe essere felice e indipendente e che adesso vive una situazione paradossale. Abbiamo il tasso di natalità più basso dell'America Latina, simile a quelli europei. Nascono in pochi e noi li obblighiamo ad andarsene. Eppure questo è un paese fertile, con enormi distese di terre dove batte sempre il sole e che ora sono inesorabilmente vuote. Facciamo scappare i giovani in cerca di lavoro di un paese che potrebbe dare lavoro a milioni di persone. Tutto ciò, ovviamente, non è casuale, Qui è naufragato un progetto assurdo, che puntava a trasformare il paese in una grande banca con spiaggia. Si è voluto fare dell'Uruguay un luogo di servizi e turismo ma il piano è miserabilmente fallito. Oggi sappiamo solo produrre mendicanti, poliziotti e, per l'appunto.

Dialogando con i più anziani si nota invece un senso di orgoglio molto forte, una fiducia ancora alta nelle istituzioni e nelle capacità di ripresa di un'economia di fatto paralizzata. Come la spiega?

E' una reazione tipica di chi invecchia: afferrarsi al passato per sopportare il presente. Sul Rio della Plata, tra Buenos Aires e Montevideo, comanda la nostalgia, per questo il tango è nato qui e non altrove. C'è una idealizzazione del passato che si fabbrica sulle rovine del presente. E' la risposta ad un bisogno dell'anima, che sente di non poter affrontare senza una strategia di difesa una realtà di per sé disarmante. E' un'arma a doppio taglio: il passato, prendendo le sue cose migliori, potrebbe servire come punto di riferimento, come esempio da seguire. Ma non è così e alla fine paralizza la mente, condannando l'individuo a restare fermo nel tempo. Noi uruguaiani abbiamo un passato di cui essere orgogliosi. Siamo un paese piccolo, che ha saputo resistere orgogliosamente alle pressioni di due giganti come Brasile e Argentina. Poco tempo fa si è compiuto l'anniversario di una grande impresa nazionale, il “Maracanazo”, la vittoria della nazionale di calcio sul Brasile in un'infuocata finale giocata a casa loro, a Rio de Janeiro nei mondiali del 1950. La piccola squadre, che giocava in uno stadio avverso con duecentomila tifosi contro, beffò i padroni di casa e si portò a casa la coppo, giocando un calcio più bello e pulito. Un trionfo non solo sportivo, una grande prova di dignità nazionale: proprio quello che ci manca adesso, costretti a dipendere dai milioni di dollari elargiti col contagocce dal Fondo Monetario Internazionale.

Tra meno di due mesi il Brasile deve decidere che sarà il suo nuovo presidente, il candidato della sinistra Ignacio “Lula” da Silva è in testa ai sondaggi e fa tremare i magnati della finanza come Geoge Soros. Un'eventuale affermazione di Lula potrebbe cambiare l'assetto geopolitico del Sud America?

Il Brasile è un grande paese, il più importante del continente, per il peso demografico, economico e culturale che esercita su tutta la regione. Un paese inserito nel sistema attuale più indipendente rispetto alle scelte degli organismi finanziari. Il governo di Fernando Cardoso, l'attuale presidente, ha tenuto fino ad oggi un'attitudine più degna. Per questo Washington è stata più prudente, non ha interferito come ha fatto con altri paesi, ha dovuto fare i conti con una forte sensibilità nazionale. Allo stesso tempo, però, nessun grande speculatore finanziario può permettersi di lasciarsi scappare un mercato di tale dimensioni. Ecco allora che il Fmi concede un prestito enorme, 30 miliardi di dollari, ma lo fa in due rate; una, la più piccola, la concede subito: l'altra, la più sostanziosa, arriverà dopo le elezioni. Una maniera fin troppo esplicita di condizionare le scelte del nuovo governo. Ancora una volta la perdita o la continua limitazione dell'autonomia e della sovranità si realizza grazie al meccanismo morboso del debito estero. In mostro che cresce per via degli interessi che si moltiplicano ad ogni nuovo prestito, come fossero dei conigli da riproduzione. Per questo credo che un'eventuale successo di Lula sarebbe importante ma non sconvolgente. La vera grande sfida per il prossimo presidente è piuttosto quella di far sì che il Brasile non sia più il paese più ingiusto del mondo, quello con la peggiore distribuzione della ricchezza nel mondo.

Torniamo alla pericolosità disarmante della realtà per l'artista e l'intellettuale in cerca di metafore. Come giudica i cambiamenti imposti nel linguaggio dal cosiddetto nuovo “modello unico di pensiero” dettato dall'economia di mercato?

Lo trovo terribili e cerco di difendermi. Penso al povero dizionario, a come l'hanno maltrattato. Una volta quando si diceva “crisi dei valori” ci si riferiva alla crisi morale di una società, oggi si pensa alla caduta della quotazione di qualche azione in borsa. Succede lo stesso con i nuovi termini creati per giustificare il modello economico neoliberista e l'occupazione selvaggia del settore pubblico da parte delle grosse imprese private. Negli Stati Uniti la chiamano “deregulation”, un neologismo orribile, creato per camuffare la passività dello Stato rispetto alle grosse ruberie dei potenti. Un furto legalizzato che rischia di far crollare l'intero sistema. Assistiamo alle più grosse bancarotte della storia, quella di Enron e di WorldCom e chissà quali altre ancora sono state coperte dai bilanci truccati delle società. Signori che giocano con i numeri, scambiano profitti con perdite. E provocano perdite per milioni di dollari. Senza battere ciglio, come se fosse tutto normale.

Intervista di Emiliano Guanella – L'UNITA' – 22/08/2002


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