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L'ultimo diario di un kapò di Auschwitz, di Zalmen Gradowski |
Caro lettore, scrivo questi brani nell'ora della mia massima disperazione, non so se potrò mai (e non credo che potrò mai) rileggere queste righe una volta passata "la tempesta". Chissà se avrò la fortuna di riuscire un giorno a rivelare al mondo questo segreto profondo che porto nel mio cuore? Chissà se potrò mai rivedere un uomo "libero", se potrò parlargli? Può darsi che questo, le poche righe che scrivo siano la sola testimonianza della mia vita di un tempo. Ma sarei lieto che i miei scritti ti raggiungessero, libero cittadino del mondo. Una scintilla del mio fuoco interiore forse si propagherà in te e tu nella vita forse compirai parte del nostro volere, farai vendetta, vendetta degli assassini! Caro scopritore di questi scritti! Ho una preghiera da rivolgerti - per la verità è l'unico motivo per cui scrivo - che almeno la mia vita condannata a morte trovi un senso. Che i miei giorni infernali, il mio indomani senza sbocco, raggiungano il loro scopo in futuro.
Io non ti riferisco che un'infima parte, una parte minima, di ciò che è accaduto in questo inferno di Auschwitz-Birkenau. Potrai farti un'idea di ciò che è stata la realtà. Ho scritto parecchie altre cose. Penso che ne troverete sicuramente le tracce e, a partire da queste, potrete capire come sono stati assassinati i bambini del nostro popolo.
[ ] Nel grande stanzone sotterraneo, al centro del quale dodici pilastri sostengono il carico dell'edificio, sta ora brillando una vivida luce elettrica. Lungo le pareti, intorno ai pilastri, sono predisposte da tempo panche e ganci per gli indumenti delle vittime. Sul primo pilastro è inchiodato un cartello, in varie lingue, che avvisa coloro che arrivano che sono giunti ai "bagni" e che devono togliersi gli abiti per farli disinfettare.
Ci siamo ritrovati insieme alle donne, e ci guardiamo pietrificati. Esse sanno tutto, capiscono tutto, che questi non sono bagni, che la stanza è il corridoio della morte, l'anticamera della tomba.
La stanza si riempie continuamente di gente. Arrivano sempre più camion pieni di nuove vittime, e continuamente la "sala" le inghiotte. Restiamo tutti come inebetiti, incapaci di dire loro una parola. Eppure, non è la prima volta. Abbiamo già ricevuto tanti trasporti prima di questi, e una scena simile l'abbiamo vista più volte. Ciononostante, ci sentiamo deboli, come se stessimo per svenire, privi di forza, insieme a loro.
Siamo tutti sconvolti. In questi
vecchi abiti già usati, da tempo logori, si drappeggiano corpi
affascinanti, pieni di attrazione e di fascino. Tutte queste teste
dai riccioli neri, bruni, biondi e alcune rare teste grigie ci
guardano con i loro grandi occhi neri, profondi, ammaliatori. Vediamo
davanti ai nostri occhi giovani vite ribollenti, palpitanti,
frementi, in fiore, rigonfie di linfa, abbeverate alle fonti della
vita, fiorenti come una rosa spuntata in giardino. Fresche, inzuppate
di pioggia, imbevuti di rugiada mattutina. Alla luce del sole,
luccicano le gocce scintillanti dei loro occhi di fiori - come perle
[
]
La prima domanda su tutte le labbra è per chiedere
se i loro uomini sono già arrivati. Ognuna vuol sapere se il
marito, o il padre, o il fratello, o l'amante sono ancora vivi. O se
il loro corpo rimane irrigidito da qualche parte morto, se ormai le
fiamme lo consumano e non ne resta più traccia. E se lei è
rimasta sola al mondo con lo sfortunato figlio, ormai orfano. Forse,
ha già perduto il padre, il fratello, l'amato. Per quale
ragione vivere, in questo caso, perché restare in vita? [
]
Noi le stiamo a guardare con compassione, perché scorgiamo ormai dinnanzi ai nostri occhi un'altra scena, una scena d'orrore. Tutte queste vite palpitanti, questi mondi effervescenti, tutto quel brusio, quel calpestio che ne promana, entro poche ore tutto questo sarà morto e rigido. [ ] Io resto qui accanto a un gruppo di donne, dalle dieci alle quindici e, fra poco, tutti questi corpi saranno contenuti in una carriola, tutte queste vite in una carriola di ceneri. Non rimarrà più alcuna traccia di quelle che stanno qui, tutte queste donne che popolavano intere città, che tanto spazio occupavano nel mondo, saranno fra poco cancellate, estirpate con tutte le radici - come se non fossero mai nate. I nostri cuori sono lacerati dal dolore. Proviamo, soffriamo con loro i tormenti del passaggio dalla vita alla morte. [ ]
[ ] Bisogna indurire i cuori, soffocare qualsiasi sensibilità, smussare ogni sensazione dolorosa. Bisogna cacciare le atroci sofferenze che dilagano come un uragano in tutte le nostre membra. Bisogna trasformarsi in automa, non vedere niente, non sentire niente, non sapere niente.
Gambe e braccia si sono messe al lavoro. Ecco là un gruppo di compagni, suddivisi ognuno in base a una mansione specifica. Si tira, si estraggono a forza i cadaveri da questa matassa, chi per un piede, l'altro per una mano, come viene meglio. Sembra che stiano per smembrarsi, tanto vengono stiracchiati in tutte le direzioni. Si trascina il cadavere sul pavimento di cemento gelido e macchiato e il suo bel corpo d'alabastro levigato spazza via tutta la sporcizia, tutta la frangia lungo il passaggio. Si afferra il cadavere insozzato e lo si stende fuori, con la faccia rivolta verso l'alto. Due occhi gelidi ti fissano, come per chiederti: "Che cosa fari di me, fratello? ". Più di una volta rivedi qualcuno che conosci, con il quale hai trascorso un po' di tempo prima che entrasse nella tomba. Tre uomini sono pronti per preparare il cadavere: uno con una gelida tenaglia che affonda nella bella bocca in cerca di un tesoro, di un dente d'oro e, se lo trova, lo strappa insieme alla carne; il secondo taglia con le forbici i capelli riccioluti, spoglia le donne della loro corona: il terzo strappa energicamente gli orecchini, molto spesso macchiati di sangue. E le fedi che non si lasciano sfilare vengono strappate via con la tenaglia.
Ora lo si può consegnare al montacarichi. Due uomini mettono in equilibrio i cadaveri come ciocchi di legna sulla piattaforma, e quando si è arrivati a sette-otto si dà il segnale con un colpo di bastone e l'elevatore sale.
[ ] Lassù, vicino al montacarichi, ci sono altri quattro uomini: due da un lato che tirano i cadaveri verso la "riserva", e altri due che li trascinano direttamente verso i forni. Si distendono a due a due davanti alla bocca di ogni forno. I bambini piccoli vengono impilati in un grosso mucchio da un lato - vengono aggiunti, gettati su altri adulti. I cadaveri vengono posti uno sull'altro sulla "barella" di ferro, si spalanca la gola della geenna e si spinge la barella nel forno. Il fuoco infernale tende le sue lingue come braccia spalancate, si impossessa del cadavere come di un tesoro. I capelli prendono fuoco per primi. La pelle si gonfia di bolle, che scoppiano dopo pochi minuti. Braccia e gambe si contorcono, vene e nervi si tendono e fanno fremere le membra. Ormai il cadavere prende fuoco per intero, la pelle si è screpolata, il grasso cola e tu senti lo sfrigolio del fuoco ardente. Non vedi più i cadaveri, ma solo una fornace di fuoco infernale che consuma qualcosa al suo interno. Il ventre scoppia e gli intestini e le budella ne sprizzano fuori in pochi minuti, senza che ne resti traccia. La testa impiega più tempo a bruciare. Due fiammelle blu fanno scintillare nelle orbite gli occhi che si consumano insieme al cervello più in profondità, e nella bocca la lingua è ormai calcinata. L'intero processo dura venti minuti - e un corpo, un mondo si riducono in cenere [ ]
Zalmen Gradowski
(Traduzione dal francese di Titti Pierini)
Estratti dagli Appunti di Zalmen Gradowski, ritrovati nel 1945, in occasione degli scavi effettuati accanto al terzo forno crematorio di Birkenau ad opera della Commissione di indagine dell'esercito sovietico. I sonderkommando erano gruppi di uomini scelti tra i prigionieri che, nei campi di sterminio, avevano il compito di portar via i cadaveri degli assassinati dalle camere a gas.
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