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Moni Ovadia

La Cacciata del Crocefisso

La vicenda della sentenza del tribunale dell'Aquila che ingiunge ad una scuola elementare di Ofena la rimozione del crocefisso da un'aula del proprio edificio, ha fatto “bum!”. Com'era prevedibile, ha occupato lo spazio mediatico con la consueta ridondanza che gli “scandali” e gli scandalucci sono soliti provocare nel clima poco serio che caratterizza il nostro panorama politico culturale. L'affaire ha tuttavia una sua rilevanza simbolica e tocca questioni cruciali della storia dell'Occidente, in particolare del nostro Paese che è intrinsecamente cattolico non tanto nei dettami delle religione che mi paiono scarsamente sentiti, quanto nell'animus profondo della sua gente.

Il valore ed il significato del crocifisso, possono essere considerati da più punti di vista ed io vorrei, con tutto il rispetto, far partire la mia riflessione con uno sguardo dolorosamente umoristico. Quando furono promulgato le leggi razziali in Italia nell'autunno del 1938, il provveditorato agli studi inviò solerti funzionari in tutte le scuole del Regno per verificare che fossero rigorosamente applicate. Queste prevedevano l'espulsione di tutti gli alunni riconosciuti ebrei. Si racconta che in una certa aula scolastica di un istituto elementare, uno di questi funzionari svolgesse con zelo il suo compito di epuratore della razza maledetta e con espressione grifagna ingiungesse: “Chi ha il padre ebreo lasci immediatamente l'aula!”. Tre bimbi con l'aria smarrita si alzarono, raccolsero libri e quaderni, si infilarono il cappottino ed uscirono mesti dalla classe. Verificata l'esecuzione dell'ordine, il funzionario fascista proseguì perentorio: “Chi ha la madre ebrea lasci tosto l'aula”. Un solo bambino riccioluto con l'incarnato pallidissimo, gli occhi sgranati, incredulo raccolse le sue cose ed uscì. A questo punto fiero di sé il solerte sgherro con soddisfatta pomposità esclamò: “Chi ha il padre e la madre ebrei lasci immantinente quest'aula ariana”. Nell'innaturale silenzio che seguì a quest'ultimo ukase, tutti udirono un cigolio che proveniva dalla parte alle spalle della cattedra. Col fiato sospeso tutti i presenti tesero le orecchie e intesero distintamente il suono metallico di un chiodino che cadeva sul pavimento. A questo punto, guidati dallo sgomento impresso sui piccoli volti dei loro alunni, il funzionario della pubblica istruzione ed il maestro si volsero verso la cattedra appena in tempo per scorgere il crocefisso guadagnare con dolenti balzelloni l'uscio e sparire.

Noi ebrei l'abbiamo sempre saputo, l'uomo che in effigie è rappresentato agonizzante sulla croce, è un ebreo. Suo padre terreno e sua madre erano ebrei. Lo era naturalmente suo fratello Giacomo. Ebraica fu la sua formazione e la sua pratica. Ebrei furono i suoi discepoli e a lungo i suoi seguaci furono solo ebrei. Ebrei furono i primi martiri cristiani.

Dopo quasi due millenni di elusione, questi fatti sono riconosciuti e dichiarati a chiarissime lettere dalla Chiesa. Non all'epoca buia della persecuzione e dello sterminio nazifascista. Allora milioni di innocenti condotti al macello forse avrebbero sperato nella rimozione dei crocefissi da ogni luogo per denunciare l'orrore. Non accade. Per molti secoli invece qual simbolo della fede è stato usato come arma impropria e come grimaldello in molte circostanze. Ma l'attuale Pontefice ha assunto su di sé come capo della Chiesa Cattolica la responsabilità delle passate perversioni, ha solennemente riconosciuto le colpe e chiesto perdono.

La richiesta di rimozione per decreto di tribunale di uno sparuto crocifisso, mi pare azione goffa, impropria ed ingiustificata soprattutto per la modalità con cui è stata affrontata una questione tanto delicata che attiene alla sensibilità cultuale e devozionale. Per quanto riguarda il rapporto con l?islam e la sua sensibilità, mi rifaccio ad una citazione del Corano ripresa da un sapiente articolo del prof. Dott. Gabriele Mandel Khan vicario generale per l'Italia della Confraternita sufi Jerrahl- Halveti, sulla nota querelle.

Versetto 136 della seconda Sura. Dice: “Crediamo in Dio, in ciò che ci ha rivelato, e in ciò che ha rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giocabbe, alle Tribù, e in quel che è stato dato a Mosé e a Gesù, e in quel che è stato dato ai profeti dal Signore: non facciamo nessuna differenza fra di loro. A Lui noi siamo sottomessi”.

Dice ancora (29ª46): “E non disputate con le genti del Libro se non nel modo più cortese, eccetto con quelli di loro che agiscono ingiustamente, e dite : “Crediamo in ciò che è stato fatto scendere a noi e in ciò che è stato fatto scendere a voi; il Nostro Dio e il Vostro Dio sono uno. A Lui noi siamo sottomessi”.

Il Corano ripete poi per tre volte (2ª62, 4ª124, 5ª69): “Certo, quelli che credono, gli Ebrei, i Sabei, i Cristiani, chiunque crede in Dio, nel Giorno ultimo e compie opera buona, nessun timore su di loro, e non verranno afflitti”.

E il Corano è, per un musulmano, “parola sacra”, per cui non sono coranici e musulmani né le intolleranze né gli integralismi. Naturalmente rimane aperta la delicata ed ineludibile questione della laicità dello Stato e della scuola pubblica giustamente posta da Tullia Zevi, ma essa va discussa con profondità e rispetto nei modi e nei tempi richiesti dall'importanza dell'argomento.

Moni Ovadia – L'UNITA' – 01/11/2003


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