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MONI OVADIA

L'UNITA' – 02/02/2002

Il frutto guasto della memoria

Il Giorno della Memoria, istituito con legge dello Stato, ha compiuto due anni. Sui muri di una città del nostro Mediterraneo ho letto questa scritta: “Ebrei fuori dalla Palestina, ebrei fuori dal mondo, juden raus”. A Rovigo ho partecipato ad una manifestazione pubblica con una sopravvissuta al lager di Auschwitz, al tavolo dei “relatori” e fra il pubblico, molte fasce tricolori. Fra i partecipanti, seduto proprio di fronte al primo cittadino, un vecchio deportato politico con il fazzoletto a strisce blu ed azzurre al collo. Il sindaco, solo il giorno prima, aveva voluto un incontro sulla memoria dei reduci di Salò. A Milano nel corso di un telefono aperto radiofonico, un ascoltatore intervenuto, rivolgendosi a me ha concluso il suo aggressivo commento con queste parole: “Gli ebrei (sic!) parlino dei palestinesi o tacciano!”. La “risposta” indiretta a questo ascoltatore è arrivata in occasione di una celebrazione indetta nella stessa città. Un ex deportato ebreo ha ripreso il microfono quando l'incontro volgeva già alla fine ed in effluvio di incontrollabile indignazione ha spostato l'asse di tutti i precedenti discorsi terminando così: “Arafat non vuole la pace, Arafat vuole distruggere Israele!”

La Giornata della Memoria, probabilmente, d'ora in avanti si focalizzerà sempre di più sulla questione israelo-palestinese e più il conflitto si inasprirà, più la forbice delle posizioni ideologiche diverrà divaricata. La bascula perversa di orribili attentati terroristici e brutale rappresaglia terrà il campo e il sangue versato diventerà la moneta di questa economia di violenza. In un tale contesto, viscerale ed esasperato, le parole di pace rischiano di stingersi fino al punto di perdere la propria capacità comunicativa e revisionismi opportunisti possono fare facile carriera.

La Shoà ed il conflitto mediorientale per modalità, proporzioni e contesto socio culturale, è cruciale ripeterlo, non hanno nulla a che vedere l'una con l'altro, tuttavia sul piano irrazionale, emotivo e simbolico inesorabilmente incontrano. Lo sterminio nazista per il carattere di paradigma assoluto del male che ha assunto nella coscienza e nella cultura mondiale, ritorna ineludibilmente a farsi evocare ad ogni violenza successiva. Giusto o sbagliato che sia, ciò è inevitabile, Soldati armati fino ai denti che demoliscono case, che tengono un popolo blindato, che interrompono fornitura di acqua e energia vitale ad una popolazione civile già stremata da decenni di isolamento e povertà, evocano scenari inaccettabili. Quando l'insegna di quei soldati è una stella di Davide, molti vi vedono il segno di un ribaltamento: la vittima è diventata carnefice. Fra costoro diversi sono dei cripto-antisemiti di destra e di sinistra o semplicemente antisemiti. Ma altri vivono questo dramma con sincero dolore e onestà intellettuale. Dall'altra parte della barricata alcuni ebrei in nome del diritto alla sicurezza, dell'orrore del terrorismo difendono ad oltranza le azioni dei governi israeliani e le collocano al di sopra di ogni possibile giudizio. Non percepiscono il dolore altrui. Essi tendono ad identificare governo e paese, beninteso purché governi il loro beniamino, né più e né meno come gli antisionisti. Ma un grande numero di israeliani ed ebrei, io sono fra quelli, trovano invece inaccettabile il delirio militarista di Ariel Sharon, si rifiutano di liquidare le sofferenze della popolazione civile palestinese come pura responsabilità della dirigenza dell'Autorità vivono con angoscia come depravati e fascisti i progetti di deportazione ventilati da esponenti dell'estrema destra. Fra questi ebrei c'era Itzkhak Rabin. Egli era pronto a dare la vita per il suo paese. L'ha persa per la pace. Ma Rabin era un militare, Sharon militarista.

Moni Ovadia – L'UNITA' – 02/02/2002

 


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